2.10.15

Pietro Ingrao, l'antifascismo, il cinema. Da un'intervista di Nicola Tranfaglia (1990)

Tra il dicembre 1989 e il giugno 1990 Nicola Tanfaglia condusse una lunga intervista a Pietro Ingrao sulla sua esperienza di vita e sulla sua attività politica e intellettuale, all'interno di un progetto elaborato dall'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Dalla lunga intervista fu ricavata una videocassetta intitolata Le cose impossibili. Il testo integrale apparve poi in volume presso gli Editori Riuniti. Alcuni stralci vennero anticipati da “la Repubblica”, donde ho tratto il brano che segue. (S.L.L.)

Possiamo dire in un certo senso, che i Littoriali da una parte erano degli elementi di mobilità culturale e sociale e dall'altra erano uno spazio che lo stesso regime fascista lasciava più libero di altri spazi per dare sfogo a esigenze dei giovani. Questo almeno sembra il modo in cui tu li hai vissuti e coincide con altre esperienze di giovani della tua generazione. Mi sembra un giudizio corretto. E tuttavia, se devo stare alla mia esperienza diretta, direi che l'elemento di messa in comunicazione, di sprovincializzazione, è stato più forte dell'elemento di controllo e di ingabbiamento.
Io sono andato ai Littoriali di Firenze, in stivaloni e in camicia nera. Vestito così la prima cosa che ho fatto è andare al mitico (per me) caffè delle Giubbe Rosse per incontrare Eugenio Montale, il poeta che aveva scritto quei versi scabri e desolati che dicevano: codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo / ciò che non vogliamo. Ho ancora negli occhi l'espressione tra incuriosita e annoiata del poeta, che si vedeva davanti quell'oscuro giovane provinciale vestito in quella maniera. Le cose nella vita non sono mai tagliate con l'accetta.

Ecco, se tu dovessi quindi stabilire un anno in cui si passa da questa prima fase di incontri a una fase più decisa di autorganizzazione e di dibattito nel senso dell' antifascismo, tu che anno diresti? 
Posso dirtelo per me.

Certo, per quanto riguarda te.
Sì, perché alcuni del gruppo romano di giovani intellettuali comunisti di cui ho fatto parte c'erano arrivati prima, e per vie molto più nette e dirette alle mie. Penso, per esempio, all'esperienza di Lucio Lombardo Radice, di Aldo Natoli, di Paolo Bufalini. Ma per me il punto discriminante ha proprio una data precisa: è la guerra di Spagna. Se mi lasci passare una frase un po' retorica, direi che la guerra di Spagna, proprio, è una data che spacca la mia vita: da allora comincia un altro cammino. Come quando svolti un angolo. Perché? Perché a quel punto cambia ormai senza remissione il mio giudizio sul fascismo e comincio a rendermi conto che bisogna lottare. Ancora negli anni che precedono l'intervento in Spagna, sulla questione della guerra d'Etiopia, dentro di me passo attraverso oscillazioni di dissenso e di consenso: te l'ho già detto. Le cose invece cambiano radicalmente, quando avviene l'intervento della guerra di Spagna. Chissà come, un giorno, un momento avvengono certe cesure nella vita. E nessuno, in quel giorno, in quel momento ci sussurra all'orecchio che d'ora in poi sarai un altro. Io ormai vivevo a Roma. Avevo conosciuto giovani che mi parlavano di un'altra cultura e mi presentavano un'altra lettura del fascismo, dell'Italia del primo trentennio, delle vicende che avevano portato alla dittatura fascista. Leggevo o cominciavo a leggere altri libri, e anche altri giornali (ricordo che compravo “Le Temps” che arrivava ancora nelle edicole di Roma). Ma il fatto che spezza ormai le mie oscillazioni e mi spinge verso una scelta di campo è l'aggressione fascista e nazista alla Spagna. Perché? Perché non riuscivo a vedere alcuna motivazione nazionale per quell'aggressione. E perché mi appariva come pugnalata a un paese che cercava di liberarsi. Naturalmente io ti parlo della mia esperienza. Per altri della mia generazione il fatto che li portò alla rottura col fascismo fu la guerra d'Etiopia. E anche la storia del gruppo di giovani intellettuali, che si formò a Roma alla metà degli anni Trenta e che dette poi quadri dirigenti di forte rilievo al Pci, è notevolmente differenziata quanto ai tempi, alle vicende, alle culture. Io arrivai alla cospirazione antifascista e anche alla scelta comunista parecchio più tardi di altri. Paolo Bufalini, Pietro Amendola, Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice per fare solo alcuni nomi giunsero ben prima di me e di Alicata. Essi si formarono in un contatto con un giovane comunista come Bruno Sanguinetti (oggi ingiustamente dimenticato), con cui io ebbi, soltanto dopo, un rapporto sporadico. Essi conobbero e parlarono con Giorgio Amendola, reduce dal confino di Ponza, e l'aiutarono ad espatriare. E anche gli itinerari culturali erano differenti. Alcuni (come Bufalini, che ebbe allora una funzione essenziale) mi sembra che partirono in quegli anni da un orientamento che oggi chiameremmo liberaldemocratico; altri furono orientati quasi subito a una scelta comunista; altri (Paolo Alatri, Paolo Solari) erano allora dei liberali. Trombadori, per non parlare di Guttuso e dei milanesi Treccani e De Grada, venivano dall' esperienza e dalla riflessione sull'arte. Io ero un provinciale, con una confusa spinta populista, innamorato del cinema e della poesia decadente italiana. Alicata combinava l'attenzione per Montale con una polemica passione carducciana. Per non parlare di altri filoni come il fascismo di sinistra di Zangrandi e del suo lungo viaggio verso il comunismo. Insomma le cose non furono univoche. In ogni modo, per me l' evento che mi spostò fu quello:la guerra di Spagna.

E conta anche l'alleanza dell'Italia con la Germania nazista?
Assolutamente, sì: in quel momento (adesso proprio lo fisicizzo) esplode in campo internazionale un protagonista: Hitler, il nazismo. Questo cambiò radicalmente tutto il quadro. In un senso immediato: perché smontava tutta la giustificazione nazionalistica del fascismo. Con Hitler e col nazismo era aperto già un contenzioso che noi ci portavamo dentro (t'ho detto che la questione dell'Anschluss fu un' altra tappa del cammino di tanti sulla via dell' antifascismo). E secondo, assai più importante: perché Hitler mi apparve con un segno sconvolgente. Che io mi ricordi proprio di avere mai pensato che Hitler potesse dirmi qualcosa anche quando aderivo ancora al fascismo questo proprio non sta nella mia memoria. Forse perché Hitler irrompe subito sotto il segno di una violenza senza limiti e senza confini: un dominio che schiaccia, calpesta storie, culture, nazioni, sfere della vita, e nel senso (adopero ancora questa parola) fisico. È difficile spiegarlo oggi, a un giovane di oggi; perché è difficile rendere quella condizione (in cui noi ci siamo trovati) di avere paura, terrore che il mondo cadesse nelle mani di Hitler. Io sentivo che un tale esito contraddiceva a tutte le cose a cui volevo bene, di cui mi occupavo: la poesia, il cinema di Charlot e dell'anarchico Clair, un modo di concepire i rapporti umani, l'autonomia di me stesso... Insomma la paura fu proprio grande; ed è stato uno dei punti decisivi che ha spostato tutta la mia esistenza, che mi ha 'gettato' nella politica.

Hai fatto cenno al cinema. Perché ti sei iscritto proprio nella metà degli anni Trenta al Centro sperimentale di cinematografia? Che cosa è stato nella tua esperienza?
Sì, il cinema. Perché mi affascinava? Come forma di espressione nuova, grande mezzo moderno di comunicazione di massa. Una sete insoddisfatta di comunicazione, una ricerca confusa di strumenti espressivi, l' impressione, in tanti incontri, di non riuscirci mai a dire le cose che premevano sono sempre state un assillo per me. Quante volte avevo la sensazione di colloqui inutili o di conversazioni ' fumose' : come se non ci dicessimo mai l'essenziale. E anche l'impressione che l'essenziale per me non era 'semplice', e tanto meno lineare. Quindi rimanevo deluso di non sapere dire; e anche di non sapere capire (o ascoltare veramente). E d'altra parte, negli anni di cui parliamo, esco definitivamente dal ' villaggio' , ed entro in rapporto diretto con la difficile, complicata modernità: nel senso fisico (Roma, la grande capitale), e nel senso del contatto con culture nazionali e internazionali. Questo in un periodo in cui l' assetto del mondo stava saltando. Quindi diventava ancora più forte il bisogno di trovare forme di linguaggio che avessero un' ampiezza di comunicazione come l' offriva il cinema, che mettessero fortemente in collegamento con la gente, con la società di massa che cominciavo a scoprire. Insomma: si sommano allora in me due cose: questo bisogno di comunità che io ho maturato proprio nel 'villaggio' , e contemporaneamente la scoperta abbastanza lacerante che in quell'Europa, alla metà degli anni Trenta, accadevano fatti che potevano travolgerci, come singoli, come relazioni, come affetti. Anche per questo il cinema, che poteva parlare a milioni. E invece non l'imparai. Dopo un anno smisi. La politica prima di tutto come capire cosa succedeva mi trascinava. Ma l'amore, vorrei dire la 'curiosità' appassionata per il cinema, sono rimasti. Più volte mi è capitato di pensare che capisco più di cinema che di politica.


"la Repubblica", 11 novembre 1990

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