14.11.15

Feste d'autunno. Se l'inferno bussa alla porta (Claudio Corvino)

"Pupi di zuccaru", tradizionale dono dei morti ai bambini siciliani
Marcel Mauss, agli inizi del Novecento, scoprì che tra gli eschimesi esistevano due periodi stagionali con tratti molto differenti da un punto di vista sociologico: «Durante l'estate sembrano dimenticati tutti quei miti che riempiono la coscienza degli Eschimesi durante l'inverno. La vita è laicizzata. (...) Al contrario durante l'inverno l'aggruppamento umano vive per così dire in stato di esaltazione religiosa continua (...). È l'epoca in cui i miti e le leggende vengono tramandati dagli anziani ai più giovani». D'estate, quando i gruppi familiari erano dispersi tra le lande ghiacciate a caccia di foche, cetacei e selvaggina, la vita sociale e le feste erano come sospese in attesa del periodo invernale, epoca in cui i momenti celebrativi si sarebbero seguiti l'uno all'altro quasi senza soluzione di continuità.
A distanza di più di un secolo e di tantissimi chilometri, anche in Italia a novembre si può dire cominci un lungo periodo festivo, antropologicamente e sociologicamente denso, al cui centro sembra esserci quello scambio di doni studiato sempre da Mauss nel suo celebre Saggio sul dono (1923). L'avvio di questo «ciclo» è rappresentato (simbolicamente) dalla caccia alla grossa e succosa zucca, la cui prima apparizione «ufficiale» è a san Martino (11 novembre), giorno che fa un po' da spartiacque tra la fine di quella particolare estate detta appunto «di san Martino» e il vero periodo invernale.
Il santo-soldato sembra essere stato posto lì infatti a separare l'anno in due fasi distinte, come compendia la leggenda del mantello tagliato in due per coprirne con una metà un uomo povero, infreddolito dai rigori invernali. Ed è proprio nel giorno dedicato al «piccolo Marte» che «un'accozzaglia di monelli (...) con qualche tamburo vecchio, campanacce, padelle, cannelli di canna da urlarvi dentro, e altri strumenti di simil fatta, portando lumi dentro delle zucche vuote, vanno in giro e strepitano più che mai», scriveva Gaetano Finamore per l'Abruzzo di fine Ottocento.

Il rumore dei defunti
Orde di chiassosi ragazzini armati di barattoli e altri oggetti produttori di rumore si ritrovano anche in altre parti d'Italia e in periodi vicini, come a Latera e in alcuni paesi del viterbese, la sera del 30 novembre, in occasione di quella che viene chiamata «Scampanata di sant'Andrea» («Sant'Andrea giù pe' le mura / a tutte le fije je mette paura», recita la filastrocca che l'accompagna).
Quando non erano i bambini in prima persona a «fare l'inferno», un tempo si credeva fossero gli stessi morti: in Val d'Aosta, scriveva Estella Canziani durante la prima guerra mondiale, si attendeva il ritorno dei morti nelle case e, per propiziarsene il favore, si offriva loro del cibo sulle tavole imbandite. I morti, si sa, sono vendicativi e quindi se non avessero trovato nulla per loro avrebbero punito gli abitanti della casa con un terribile e fragorosissimo tzarivàri, un rituale di rumorosa riprovazione.
Analogo atteggiamento in Sicilia, dove a Palermo i morti portano ancora oggi, sì, dolci di marzapane e colorati bambolotti di zucchero ai bambini buoni, ma con quelli cattivi possono essere molto spietati, punendoli con doni sgraditi come scarpe rotte, carbone e corone d'aglio.
Ignazio Buttitta, sempre per la Sicilia, ci informa che dopo la mezzanotte i bambini si coprivano con lenzuola bianche e, presentandosi esplicitamente come «i morti», a lume di lanterna andavano in giro per le abitazioni chiedendo dolcetti e alimenti.
Sono tante le culture dove, sul doppio binario del rito e del mito, i defunti e i più piccoli sono al centro di complesse transazioni sia alimentari sia propiziatorie: i dolci sembrano essere valuta di scambio. Diamo dolcetti ai bambini che bussano alla nostra porta un po' come ci insegnò a fare Enea quando portò a Cerbero una focaccia di miele.

Gli zombie antichi
Vampiri, streghe e soprattutto zombie sono le maschere con cui amano travestirsi oggi i ragazzini, soprattutto nella vigilia di Halloween, sera in cui, come orde furiose, vanno in giro con la loro parola d'ordine «dolcetto o scherzetto?». Come i non-morti del cinema hollywoodiano vagano per le strade notturne alla ricerca di qualcosa da «cacciare», da richiedere in questua. Sono vere e proprie giocose e colorate bande se non direttamente eredi, almeno molto simili a quelle che hanno dato filo da torcere a contadini e cittadini delle società preindustriali fino al Novecento inoltrato.
Di queste Societates iuvenum, Abbazie della gioventù, gassen knaben gesellschaften («società di ragazzi di strada») lamenta, tra i tanti, anche il sinodo svizzero di Glarona del 1767: giovani che compiono veri e propri saccheggi con la scusa della questua e, laddove qualcuno gliela nega «allora per le genti oneste non c'è più nessuna sicurezza e si devono aspettare le peggiori ingiurie o addirittura offese. Se gli si paga qualcosa, se lo scialacquano tutto, e spesso si tratta qui di grosse somme ogni anno, insieme con molte spavalderie, dissolutezze grande imprecazioni, risse, botte e altripeccati».
Erano quelle bande giovanili che, nei modi in cui la consuetudine concedeva loro, garantivano la stabilità dell'ordine sociale, ridistribuendo attraverso le questue i beni in eccesso («ciò che vi avanza date in elemosina», predicava il Vangelo), ma anche dell'ordine cosmico, regolando in qualche modo il flusso dei morti dall'aldilà al mondo degli uomini. Più che limitarsi a plagiare i morti, sembra quasi che questi ragazzini di ieri e di oggi abbiano un'omologia strutturale con loro: se i primi sconfinano nel mondo dei vivi, trasgredendo le ferree regole delle leggi biologiche, i secondi trasgrediscono la giurisprudenza umana, compiendo ogni tipo di misfatto e, facendo abuso di carnevaleschi travestimenti, aboliscono così di fatto quelle fondamentali distinzioni dettate dall'antropologia cristiana tra uomo e bestia, uomo e demoni, vivi e morti.
Dall'ultimo decennio del secolo scorso, le modalità di queste adolescenziali processioni sembrano essere state guidate dagli sceneggiatori americani. Fino al 1979, epoca dell'uscita del film Halloween, la notte delle streghe di John Carpenter, quasi nessuno in Italia sapeva cosa fossero le questue di Halloween e lo stesso Linus, il personaggio dei Peanuts dell'omonima rivista, quando volle mostrare al pubblico italiano il suo strano culto per il Great Pumpkin («Grande Zucca»), un essere misterioso che appariva la vigilia di Ognissanti a portare doni a bimbi buoni, consapevole (il suo traduttore, almeno) che non sarebbe stato capito, traduceva il suo nome con «Grande Cocomero», anziché il più corretto «Grande Zucca», forse perché all'epoca - siamo negli anni Sessanta - la zucca non era (più, o ancora) legata a quei notturni cerimonialismi legati ai defunti.

Gusto macabro
Dal film di Carpenter, un filone cinematografico ancora non esaurito continua a essere ambientato nella notte di Halloween, mostrando al resto del mondo i modi e le forme di tale festività e condendo il tutto con i pesanti tratti del cinema horror. Un horror che, in fondo, non sembra essere solo una «salsa» in cui vengono condite le pellicole di zombi, vampiri e mostri, i personaggi preferiti dei travestimenti infantili, ma qualcosa di più. Interessante è in proposito la teoria del sociologo canadese Douglas Cowan (Sacred Terror. Reìigion and Horror on the Siìver Screen) che individua nel piacere che si prova a vedere i film horror un mai estinto fascino verso il mysterium, che rimanda comunque al sacro, e quindi alla religione. Questo genere di film «giocherebbe» con diversi tipi di paure, o sociofobie, che restano comunque legate alla presenza di un qualche tipo di religiosità, a dispetto di ogni «desacralizzazione» occidentale.
Allora, in quest'ottica, avrebbero torto i detrattori della festa di Halloween, quelli che si preoccupano della «salute dello spirito» dei nostri fanciulli mascherati: costoro ritengono Halloween non solo estraneo alla nostra «tradizione religiosa», ma anche colpevole di esaltare il macabro e di spingere i nostri fanciulli «sulla via dell'occultismo e della paganizzazione», come ha spiegato il vescovo di Caltagirone qualche anno fa al quotidiano “La Sicilia”. Inoltre, è stato avvertito più volte il «pericolo» di un'adesione acritica ai valori irrazionalisti e pagani di cui è intrisa la festa. Valori che tuttavia fanno da sfondo, o da lubrificante, a ogni religione storica conosciuta e ai suoi miti, a cominciare da quello che fonderebbe la nostra comune umanità: il Diluvio universale.
Stiamo dunque attenti a criticare troppo i ragazzini mascherati: involontariamente potremmo invalidare le stesse credenze, le stesse categorie da cui nasce il nostro (pre)giudizio.


“il manifesto”, 29.10.2015

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