15.12.15

Emiri e califfi. Fondi arabi scalano l’economia italiana (Gabriella Colarusso)

"pagina99", tornato in edicola a novembre, mi pare "più bello e più forte che pria", 50 e più pagine densissime, con articoli che sovente affrontano temi cruciali, dai più ignorati, come questo di Gabriella Colarusso di qualche settimana fa. Le acquisizioni dei fondi sovrani dell'Arabia Saudita, del Quatar, degli emirati, finanziatori di guerre sante, riguardano talora produzioni strategiche e industrie pubbliche. Quanta cinismo e, insieme, quanta stupida cecità ci sia nel far cassa in questo modo per pagare le mance elettorali è problema che affido alla riflessione di chi legge. (S.L.L.)

Non hanno neanche un ufficio di rappresentanza a Milano o a Roma. Ma solo lo scorso anno hanno investito in Italia più di 2 miliardi di dollari. Vengono da Cina, Qatar, Abu Dhabi, Kuwait. Sono i fondi sovrani, gli Stati investitori che competono sui mercati mondiali.
Sovrani d’Oriente, corteggiatissimi dai politici e dai governi d’occidente, ai quali la crisi del 2008 e il bisogno di capitali hanno imposto di aprire le porte a Pechino e agli emiri. E di chiudere un occhio sui rischi geopolitici e strategici che portano insieme alle loro casseforti.
I problemi di ordine geopolitico sono più evidenti che mai dopo l’attentato di Parigi. E si aggiungono a quelli economici, di protezione del know-how in settori strategici. Senza contare la trasparenza della proprietà, virtù nella quale i fondi sovrani non eccellono (anche se in questo, va detto, sono in buona compagnia). Ma quali sono, e dove investono, i fondi sovrani che hanno lanciato la loro opa sull’Italia?
Il nostro Paese per un po’ era rimasto fuori dai loro radar, considerato un mercato meno attraente della Francia, della Germania e anche della Spagna. Poi, nel 2014, è arrivato il raddoppio: gli investimenti sovrani in Italia hanno fatto un grande balzo in avanti, con più di due miliardi iniettati nel sistema finanziario e industriale. Se si sommano gli investimenti fatti dal 2012 a oggi, siamo oltre i 7 miliardi di capitali freschi arrivati dai fondi sovrani.
Che il clima fosse cambiato lo si è capito a fine settembre, quando 34 fondi da 31 Paesi del mondo si sono dati appuntamento al Principe di Savoia, a Milano, accolti con grande fasto dai vertici della Cassa depositi e prestiti e dal ministro dell’economia: era la prima volta che l’International forum Of Sovereign Wealth Funds (Ifswf), il club dei fondi più potenti del mondo, si riuniva in Italia. Negli stessi giorni, la Qatar Investment Authority (Qia), il fondo sovrano dell’Emirato governato dalla monarchia della famiglia Al-Thani, e dalla shari’a, apriva il suo primo ufficio a New York, promettendo 35 miliardi di investimenti sul mercato americano nei prossimi cinque anni. Difficile da immaginare prima del crollo della Lehman Brothers. Ma da allora i nuovi imperatori dei mercati sono cresciuti a ritmo forsennato, e oggi i fondi sovrani attivi nel mondo sono 35, con un patrimonio di circa 5 triliardi di dollari, secondo le stime del Sovereign Investment Lab (Sil) della Bocconi.
Per numero di operazioni chiuse e valore degli investimenti fatti negli ultimi tre anni, i più attivi in Italia sono stati i fondi cinesi e quelli del Golfo: Qatar, Abu Dhabi, Kuwait e in misura minore l’Oman. Senza dimenticare Singapore, che nel 2014 ha speso 250 milioni di dollari per comprare il 50 per cento di Roma Est Shopping Center.
E il cambiamento della geografia dei capitali porta anche a una nuova diplomazia economica.
Lo Stato non investe più (gli investimenti pubblici sono calati del 18% dal 2008 al 2013, secondo i dati della Commissione europea) e i privati, grandi e piccoli, faticano a rilanciare industria e servizi su un mercato globale sempre più competitivo. Così i “barbari” sono diventati partner ambiti. «C’è un nuovo interesse per l’Italia, dovuto al mutato atteggiamento del sistema Paese, anche se scontiamo un forte ritardo rispetto agli altri stati europei», fa notare il direttore del Sil, Bernardo Bortolotti.
Il flirt, in verità, era iniziato da tempo, con il governo spesso nei panni di Cupido. Monti e Letta si erano dati da fare per stringere i rapporti con il Qatar e Abu Dhabi, Renzi ne ha raccolto l’eredità e ha intensificato gli scambi. Da quando è a palazzo Chigi, il premier ha incontrato molte volte, l’ultima a Firenze il 6 ottobre scorso, Mohammed Bin Zayed Al Nahyan, il principe ereditario di Abu Dhabi che Roma considera un alleato in contesti di crisi internazionale, dalla Libia al Medioriente. Ma un «ruolo fondamentale» in questa nuova diplomazia economica l’ha giocato il Fondo strategico italiano (Fsi) diretto da Maurizio Tamagnini, con una serie di accordi di co-investimento con i fondi d’Oriente.

La geografia degli investimenti
Il grande investitore, Pechino, è interessato soprattutto alle infrastrutture. A giugno di quest’anno la China Investment Corporation (Cic), primo fondo sovrano della Repubblica Popolare, l’unico che risponde direttamente al consiglio di Stato, è entrato con il 10% in F2i. L’anno scorso era stata la volta di State Grid, una società interamente pubblica, in Cdp Reti, che controlla Snam e Terna, ovvero le reti del gas ed elettriche.
Il Qatar preferisce comprare palazzi, alberghi, interi quartieri. Almeno in Italia, perché in Europa invece ha investito un po’ in tutto, dalle commodities ai servizi finanziari al settore auto, pagando anche un conto salato per lo scandalo dieselgate: sono i primi azionisti di Volkswagen. L’unica eccezione al mattone, nel portafoglio italiano, è la partecipazione del 50%, con Fsi, in IQ Made In Italy Venture, un fondo per sostenere l’industria della moda, del lusso, del cibo.
Diversa invece la strategia dei manager di Abu Dhabi – 67 mila km quadrati per 2 milioni di abitanti, saldamente nelle mani della dinastia Al Nayan – che hanno puntato su banche (sono i primi azionisti singoli di Unicredit), aerei (Etihad in Alitalia) e difesa (Piaggio).
C’è poi il Kuwait, che dopo il suo primo approdo in Italia, nel 2014 – 680 milioni di dollari investiti con Fsi per sostenere le imprese italiane – a ottobre ha sborsato altri 197 milioni per il 2,06% di Poste Italiane. Un caso interessante, la quotazione gestita da Francesco Caio, perché racconta di come il protagonismo di questi nuovi investitori statali potrebbe modificare, e in parte lo stia già facendo, la fisionomia dei rapporti tra Stato e mercato.

Capitalismo di Stato?
«Un governo che vende, sperando di incassare dividendi con cui poi si faranno pezzi importanti di manovra finanziaria, e un governo, straniero, che compra. Lo Stato ai due lati del mercato», ragiona Bortolotti. «Non c’è più l’Iri, lo Stato imprenditore, ma dopo 30 anni di globalizzazione ci troviamo ancora con lo Stato azionista, investitore».
Un paradosso? «Più che altro, il frutto stesso della globalizzazione, la contropartita finanziaria del boom dei Paesi emergenti che hanno accumulato riserve in valuta pregiata e devono investire per farle fruttare».
Da Ginevra, dove dirige “GeoEconomica”, un think tank indipendente che studia il fenomeno dei fondi e il ruolo dei governi nell’economia, Sven Behrendt accetta la provocazione. «È vero che lo Stato non si limita più soltanto a fornire al mercato regole entro cui operare, ma è diventato esso stesso un investitore sempre più attivo», ma di qui a parlare di capitalismo di Stato, per ora, ce ne passa. «Intanto perché i Swf rappresentano solo una parte dei fondi che investono a livello globale» e poi perché «sono diventati sempre più professionali». Cioè, agiscono come un qualsiasi altro fondo di investimento: le società con cui operano, spesso gestite da manager europei o americani, «hanno diversificato i loro portafogli a favore di investimenti più rischiosi e si sono interfacciate con il resto del mondo sulla base di interessi commerciali e finanziari».
Peccato che il controllo di questi veicoli sia spesso in capo a Stati non democratici, in cui è difficile anche distinguere i fondi sovrani dai fondi del sovrano, e con politiche estere ambigue nei confronti di organizzazioni terroristiche. È vero che può essere complicato ricondurre gli investimenti immobiliari del Qatar a obiettivi di natura geopolitica. Ma è anche vero che «l’idea per cui una cosa è il mercato, altra la politica è semplicemente una foglia di fico», dice l’analista politico e strategico Alessandro Politi. In un mercato mondiale «spesso dominato da oligopoli, anche le decisioni che seguono logiche puramente di profitto non sono mai scevre da concretissime ricadute politiche». Se Abu Dhabi investe nei droni Piaggio o li compra, qualche domanda si pone, prosegue Politi: «Devo capire cosa chiedono gli Emirati a me e io a loro. Si possono usare contro l’Iran dopo la pace con gli Usa? E nello Yemen? Sono domande concrete. Porre delle condizioni non basta, serve anche farle rispettare». Del resto, quando la tensione tra Stati cresce gli asset sovrani diventano il primo strumento di pressione. Ad oggi ci sono almeno tre membri del forum dei fondi sovrani congelati dalle sanzioni internazionali: la Lybia Investment Authority, il National Development Fund dell’Iran e il Russia Direct Investment Fund.

Tecnologia e trasparenza
Le criticità non sono solo sul piano dei rapporti geopolitici ma anche del trasferimento tecnologico. E della trasparenza, nervo scoperto dei nostri nuovi sovrani. Nel 2008, per conquistare credibilità agli occhi della comunità finanziaria e dei governi, molti fondi sovrani sottoscrissero la Carta dei principi di Santiago, che avrebbe dovuto spingere a una maggiore trasparenza su portafoglio, struttura di governance, provenienza dei capitali. L’adesione al trattato è volontaria e non esiste un’autorità indipendente che la valuti.
Alcuni «hanno fatto grandi passi avanti», spiega Behrendt, «altri sono migliorati ma restano a un livello ancora non soddisfacente, come Abu Dhabi, il Kuwait, la Cina». Ma altri ancora «sono del tutto inadempienti»; tra questi il Qatar, che è in fondo alla classifica stilata da Geoeconomica: not compliant. Sono i fondi che più hanno investito in Italia negli ultimi anni, i protagonisti del raddoppio degli investimenti sovrani nel nostro Paese. Nessuno di loro ha uffici di corrispondenza a Roma o a Milano. Un’assenza che non aiuta a diradare la nebbia e contribuisce ad alimentare la diffidenza dell’opinione pubblica e degli stessi policymakers.
Dall’osservatorio della Bocconi, Bortolotti ridimensiona l’allarme sulla trasparenza ma ne segnala altri. Il tema della trasparenza, dice, è «un falso problema: i fondi hedge americani o i fondi di private equity non sono certamente più trasparenti di quelli sovrani». Il rischio potenziale, semmai, «è che dietro alle loro scelte si possa inserire surrettiziamente un’agenda di natura politica, con gli investimenti che diventano una specie di quinta colonna per iniziare una guerra di natura economica ed espropriare l’azienda in cui si investe di tecnologie o saperi pregiati».
Nella nuova legge sulla sorveglianza, approvata a maggio dall’Assemblea nazionale e ora al vaglio del Senato, la Francia ha esteso i poteri dei suoi 007, anche in tema di intelligence economica. Che si tratti di fondi sovrani o investitori privati, la Republique prova a difendere il suo know-how. E l’Italia? Il golden power dà al governo potere di veto nei cambi degli assetti azionari di società considerate di interesse strategico. Poi? «Noi siamo molto, troppo prudenti, in materia di intelligence economica», incalza Politi. «Dopo le rivelazioni del wikileaks, del datagate, è arrivato il momento di rivalutare le nostre posizioni. Se vogliamo essere sicuri che determinati attori non si muovano in modo scorretto rispetto alle nostre aziende o ai nostri interessi strategici non possiamo giocare solo in difesa, con una mentalità ancora da guerra fredda. Non possiamo fare solo controspionaggio. E assegnare i ruoli da punta, quando li affidiamo, a dei privati». Come mettere una volpe a guardia del pollaio.


Pagina99we, 21 novembre 2015

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