16.12.15

Incontri. Truman Capote tra i fiocchi di neve di Colette (Giuseppe Scaraffia)

Colette
Sotto i portici del Palais-Royal, Truman Capote andava su e giù, controllando nervosamente l'orologio. Aveva ventitre anni, ma, come diceva Jean Cocteau, che gli aveva procurato quell'incontro con la leggendaria Colette, "sembra un angelo di dieci anni, ma è senza età e ha un'anima maliziosa".
Quando finalmente era scoccata l'ora, era entrato nell'appartamento della scrittrice e ne era rimasto folgorato. Tutto era esattamente come se l'era immaginato: i folti capelli crespi di Colette, gli occhi da "gatto delle periferie", il viso mobilissimo, le guance arrossate dal trucco e le labbra sottili rese scarlatte da un rossetto da prostituta.
Intimidito, il giovanotto non osava alzare gli occhi su quella divinità allungata su una cascata di cuscini con un gatto grigio ai suoi piedi. Ma aveva fatto in tempo a vedere le tende di velluto che schermavano la luce di quel giugno del 1947 e a sentire il profumo, "un misto di rosa, arancio, tiglio e muschio, che fluttuava tra le pareti tappezzate di seta”.
Gli occhi del visitatore si soffermarono su "una visione magica", un'immensa collezione di antichi fermacarte di cristallo.
Quei "sulfures", gli spiegò la padrona di casa, erano il risultato di un collezione iniziata quarantanni prima. Imprigionati nelle sfere di cristallo lucertole, salamandre, fiori e farfalle erano schierati su due tavoli. I più rari di quelli che la scrittrice chiamava affettuosamente i suoi "fiocchi di neve" erano stati fabbricati tra il 1840 e il 1860".
Quel che Capote non poteva sapere era che in quegli anni Colette stava raccogliendo altri "fiocchi di neve" salvandoli dall'oblio nel cristallo della memoria. Era il pulviscolo di ricordi che si presentavano alla scrittrice immobilizzata dall'artrite, una messe tardiva e generosa raccolta in La stella del vespro, egregiamente curato e plasticamente tradotto da Angelo Molica Franco.
Colette covava quelle scintille del passato in una serena solitudine, interrotta dalle visite premurose del suo terzo ed ultimo marito, Maurice, di sedici anni più giovane di lei. Chi pensava che, inchiodata sul letto, si stesse annoiando si sbagliava di grosso. “Siamo plasmati dalla malattia, dobbiamo accettarlo, ma è ancora meglio plasmare la malattia a nostro uso e a nostro vantaggio”. Quel giaciglio era diventato un tappeto volante con cui esplorava il passato.
Non poteva fare a meno di sorridere ricordando la sua breve stagione teatrale. Interrogava le vecchie foto, in particolare quella in cui un attore dall'aria feroce stava per pugnalare il suo "bel seno" nudo che aveva tanto fatto scandalo. Non rimpiangeva troppo la sua agitata giovinezza. "Una delle grandi banalità dell’esistenza, l’amore, si ritira dalla mia vita. Quando ne siamo usciti, ci accorgiamo che tutto il resto è allegro, variegato e ricco. Ma non se ne esce quando né come si vuole".
Non le dava fastidio essere interrotta da chi veniva a trovarla. Accoglieva con la stessa curiosità le celebrità cerimoniose e il piccolo vicino di tre anni che, non riuscendo a suonare il campanello, si annunciava prendendo a calci la porta. Non temeva più la solitudine."C'è un gran silenzio intorno a me. Quando sono sola, la casa si riposa. Si stira e fa scrocchiare le vecchie giunture... Invita il vento da fuori, perché si prenda cura dei miei fogli che partono a volo d'uccello dall'altro capo della stanza."
Colette spiava dalla finestra lo scorrere delle stagioni nel giardino del Palais-Royal. La mattina presto osservava l'inserviente pulire le gabbie degli uccelli e rifornirli di becchime per poi sostare in un breve raccoglimento."Quando certi istanti di una giornata si fanno troppo belli, l'essere umano interrompe il lavoro o il gioco, venera ciò che intorno tace o canta."
A tratti si riaffacciava il ricordo dell'angoscioso periodo in cui Maurice, essendo ebreo, doveva spostarsi da un rifugio all'altro per sfuggire i nazisti. Ma poi la memoria la salvava, distraendola col ricordo del ricchissimo Daniel che, per non farsi notare, aveva fatto montare sul telaio di una Rolls-Royce nuova una logora carrozzeria.
Prima di congedarlo, l'anziana scrittrice offrì al giovane Truman un magnifico fermacarte sfaccettato con una rosa bianca. "Voglio che lei lo tenga per ricordo". Quando l'ospite perplesso le obiettò che non poteva accettare qualcosa cui lei teneva tanto, gli rispose: "Ragazzo mio, non ha senso offrire una cosa se non si è legati ad essa".


Il Sole 24ore Domenica, 29 marzo 2015

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