31.12.15

Riforma costituzionale. Le ragioni del No (Mauro Volpi)

A fine ottobre si è costituito a Roma il Comitato per il No in vista del referendum costituzionale sulla legge in corso di approvazione che modifica una cinquantina di articoli della Costituzione. Il Comitato è presieduto da un consiglio direttivo del quale fanno parte una quarantina di costituzionalisti, giuristi, uomini di cultura. Il referendum, in base all’art. 138 della Costituzione, può essere chiesto da un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali qualora la legge sia approvata con la maggioranza assoluta ma inferiore ai tre quinti dei componenti sia alla Camera che al Senato. Si tratta quindi di un atto di controllo che assume valore oppositivo al testo approvato dalla maggioranza e non richiede alcun quorum di partecipazione per la sua validità (come il 50%+1 degli elettori previsto per il referendum abrogativo). Il referendum è praticamente sicuro in quanto al Senato è escluso che possa esservi la maggioranza dei due terzi. Naturalmente Renzi ha cercato di metterci il cappello, dichiarando la sua intenzione di sottoporre la legge al referendum, come se questa fosse una sua “graziosa” concessione e non un diritto riconosciuto alle opposizioni e quindi cercando di trasformare il voto popolare in un plebiscito a favore del Governo.
Ma a che punto è l’iter della cosiddetta “riforma” costituzionale? Dopo il primo voto favorevole del Senato (8 agosto 2014) e della Camera (10 marzo 2015), il Senato il 13 ottobre ha approvato con alcune scarne modifiche un testo che, in quanto ritenuto intoccabile da Governo e maggioranza, sarà sicuramente approvato da entrambe le Camere nei primi mesi del nuovo anno. Quindi il referendum, dati i tempi necessari per richiesta, controllo e indizione, si svolgerà nell’autunno del 2016.
Gli emendamenti approvati dal Senato che hanno indotto la minoranza del Pd a dare il proprio voto favorevole (pur con qualche lodevole eccezione) sono stati indicati dal senatore Chiti in una lettera pubblicata da “la Repubblica” il 21 ottobre. La modificazione più rilevante riguarderebbe l’elezione del Senato, che spetterebbe ormai ai cittadini con una successiva ratifica dei Consigli regionali. Dal punto di vista formale l’emendamento che fa riferimento alle “scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo” degli organi “dai quali sono stati eletti” è stata inserito non nella sua sede naturale, il comma 2 del nuovo art. 57 che continua a stabilire l’elezione dei senatori da parte dei Consigli regionali, ma nel comma 5 che riguarda la durata in carica dei senatori. A tal proposito Bersani ha parlato di “bizantinismi costituzionali”. Ma si tratta in realtà di una mortificazione del testo della Costituzione, che i nostri padri costituenti vollero il più chiaro e accurato possibile, anche facendo ricorso a competenze linguistiche e letterarie (come quelle di Pietro Pancrazi e di Concetto Marchesi). Questo modo di procedere, oltre a creare problemi di comprensione del testo, finisce per degradare la Costituzione ad un regolamento di condominio, nel quale quella che conta è la volontà dei condomini comunque espressa.
Nella sostanza la modificazione in questione è profondamente ambigua: il termine impiegato “scegliere” non è come “eleggere”, ma implica solo che gli elettori saranno chiamati a dare un’indicazione non necessariamente vincolante per i Consigli regionali. Le modalità di elezione saranno stabilite da una futura legge bicamerale e dalle normative elettorali di attuazione delle Regioni. E qui si annidano problemi che rendono altamente improbabile l’elezione popolare dei senatori. Infatti come conciliare la previsione del comma 5 con quella che al comma 2 stabilisce che l’elezione dei consiglieri-senatori avvenga “con metodo proporzionale” e ancora di più con la previsione di cui al comma 6 che i seggi siano attribuiti “in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”? Evidentemente il Ddl quando parla di proporzionalità fa riferimento alla consistenza dei gruppi consiliari e aggiunge poi una condizione, quella dei “voti espressi” già di per sé difficilmente conciliabile con quel criterio, visto che tutte le leggi elettorali regionali attribuiscono un premio di maggioranza consistente che altera notevolmente la proporzionalità nella trasformazione dei voti in seggi. Si aggiunga poi la difficoltà derivante dal fatto che in otto Regioni (tra le quali l’Umbria) e nelle due Province autonome saranno eletti solo due senatori (di cui uno sindaco e quindi non derivante dalle “scelte” degli elettori del Consiglio regionale). Per dare attuazione ad una improbabile elezione popolare si è parlato di reintroduzione di listini regionali collegati ai candidati-presidenti, con ciò riesumando un pessimo istituto che consentiva l’elezione a consigliere di personalità collegate al candidato vincente non soggette ad alcun voto popolare. Si è ventilato allora il ricorso al voto di preferenza, ma in tale ipotesi può accadere che il candidato che ha avuto un maggior numero di preferenze popolari sia escluso a vantaggio di quello meno “preferito”, ma appartenente ad una lista più forte, magari perché collegata al candidato-presidente vincente, e quindi legittimata ad esprimere il senatore in applicazione del “metodo proporzionale”.
In questo grande pasticcio una sola cosa è certa: il nuovo Senato, a meno di ipotizzare un improponibile scioglimento simultaneo di tutti i Consigli regionali, sarà costituito a tappe. Quindi, se la legislatura giungesse al suo termine naturale, anche ipotizzando che la legge bicamerale sulle modalità di elezione dei senatori sia approvata entro sei mesi dalla entrata in vigore della legge costituzionale e le conseguenti normative elettorali regionali entro i novanta giorni successivi, i consiglieri-senatori potrebbero essere “scelti” dal corpo elettorale solo nelle cinque Regioni il cui Consiglio scade entro la primavera del 2018 (Lombardia, Lazio, Molise, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), mentre in tutte le altre i consiglieri sarebbero eletti come senatori dai rispettivi Consigli senza alcuna “scelta” da parte del corpo elettorale. In termini numerici ciò significa che sui 74 senatori-consiglieri ben 51 sarebbero eletti dai Consigli in sede di prima applicazione della legge. A questi sono da aggiungere i 21 sindaci la cui elezione spetta ai soli Consigli regionali. Insomma nel primo Senato costituito dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale su 95 senatori elettivi 72 sarebbero eletti dai Consigli senza alcuna indicazione da parte degli elettori. Rimane inoltre intatta la scelta di fondo che i senatori elettivi siano consiglieri regionali o sindaci e non i cittadini, come avviene in quasi tutti gli ordinamenti che prevedono una seconda camera eletta indirettamente. Il cumulo delle cariche sarebbe assolutamente negativo per il buon esercizio delle funzioni e l’autorevolezza dei futuri senatori sarebbe notevolmente ridotta rispetto a quella che all’interno del sistema delle Conferenze (Stato-Regioni e Stato-Città-Autonomie locali) possono giocare i presidenti delle Regioni e i sindaci delle grandi città. Quanto alle funzioni della seconda Camera, nelle modificazioni apportate dal Senato le novità sono esigue. Per quelle legislative rimane la contraddizione tra funzioni bicamerali, che comprendono le leggi costituzionali, e un Senato non eletto direttamente dal popolo, ma formato da consiglieri regionali, titolari di competenze legislative ridimensionate, e da sindaci, che di competenze legislative non ne hanno alcuna. Anche la restituzione al Senato del potere di eleggere due dei cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare non si giustifica affatto alla luce della composizione debole e indiretta della seconda Camera e più in generale solleva perplessità la possibile configurazione dei due giudici come “avvocati delle Regioni”. Quanto alle proposte del Senato sulle leggi di competenza della Camera, potranno essere agevolmente messe nel nulla dalla maggioranza dei deputati, saldamente nelle mani di un solo partito in base alla nuova legge elettorale. In definitiva il principale risultato da attendersi è che i numerosi procedimenti legislativi previsti dal Ddl, a seconda delle diverse modalità di intervento del Senato, verranno a costituire una enorme complicazione (altro che semplificazione!) e potranno essere fonte di una improduttiva conflittualità. Quanto alle novità per cui il Senato non “concorre alla valutazione”, ma “valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori”, si tratta di formule generiche che potranno essere riempite o svuotate dalle future leggi approvate dalla maggioranza della Camera che dovranno darvi attuazione.
Rimane poi del tutto aperta la questione della elezione degli organi di garanzia. Infatti la riduzione drastica del numero dei senatori, mentre viene mantenuto l’attuale numero dei deputati (alla faccia del tanto decantato risparmio!), riduce la valenza dei quorum stabiliti per l’elezione dei titolari di organi di garanzia. Per il presidente della Repubblica già la Camera aveva elevato il quorum ai tre quinti dei componenti del Parlamento in seduta comune, ma dopo il settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
Diventa quindi possibile “il rischio di un capo dello Stato «scelto» da chi vince le elezioni” (come ha spiegato D’Alimonte, sostenitore della riforma, su “Il Sole 24 Ore” del 29 settembre 2015). E evidente che in un contesto di tipo maggioritario, nel quale una maggioranza più che assoluta della Camera è fabbricata artificialmente dall’attribuzione di un premio abnorme, le maggioranze qualificate per poter effettivamente garantire devono essere calcolate sul numero non dei votanti (che può essere ridotto da compiacenti non partecipazioni al voto) ma dei componenti.
Infine le uniche novità relative alle Regioni riguardano il cosiddetto “regionalismo differenziato”. Fra le materie che possono essere attribuite alle Regioni in condizioni di equilibrio tra entrate e spese con legge approvata dalle Camere sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata, vengono inserite le “disposizioni generali e comuni per le politiche sociali” e il “commercio con l’estero”. Il rischio è che in questo modo si dia vita ad un puzzle indigeribile e difficilmente accettabile da parte dei cittadini, che non sono certo responsabili delle scelte finanziarie operate dalla Regione nella quale risiedono. L’unica cosa certa è che viene operata una ri-centralizzazione dei poteri che comprime il ruolo delle Regioni e ne riduce l’autonomia finanziaria (già compromessa dalla legge costituzionale n. 1 del 2012 sul cosiddetto “pareggio di bilancio”).
In conclusione restano intatte le ragioni di fondo che giustificano una dura opposizione. Dalla combinazione tra legge elettorale “italica” e “riforma” costituzionale deriverebbe un cambiamento surrettizio della forma di governo da parlamentare a iperpresidenziale (non “presidenziale”, in quanto priva dei contrappesi che caratterizzano il sistema di governo degli Stati Uniti) o a “Premierato assoluto”, per richiamare l’espressione con la quale Leopoldo Elia bollò nel 2005 la riforma della seconda parte della Costituzione approvata dall’allora maggioranza di centrodestra e poi bocciata sonoramente nel referendum popolare del 25/26 giugno 2006. Lo stesso impegno occorre oggi spendere per respingere con il voto la controriforma ideata da Renzi e Berlusconi e portata avanti anche con il sostegno degli ascari di Verdini, che mette in discussione gli equilibri costituzionali e quindi la tenuta del sistema democratico.

"micropolis", dicembre 2015

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