3.1.16

Presepio (Jacopo Manna). Con una mia lettera all'autore (S.L.L.)

Gesù, Giuseppe e Maria in un presepe nepoletano del Settecento
Nella rubrica “Parole” del mensile “micropolis”, oggi ottimamente curata da Jacopo Manna, è comparsa nel mese di dicembre 2015 la voce presepio. La riprendo qui, seguita da una mia lettera aperta al caro compagno che ne è autore. La speranza è di sollecitare un dialogo su questo come su altri temi controversi. (S.L.L.)
La figurina di un mugnaio in un presepe moderno

PRESEPIO
di Jacopo Manna
Il presepio è cosa difficile da definire: in senso stretto è una ricostruzione della Natività eseguita seguendo le scarsissime indicazioni del vangelo di Luca, con l’aggiunta di alcuni particolari tradizionali. L’origine a quanto sembra risale al teatro medievale, anche se a farla diventare un’usanza stabile fu la grande messa in scena organizzata nel 1223 da san Francesco a Greccio col contributo di tutta la popolazione locale. Il presepio nasce insomma come azione sacra collettiva a grandezza reale, per trasformarsi ben presto in riproduzione con figure a scala ridotta (il più antico esemplare esistente è addirittura del 1280): a renderlo popolare fra la gente fu inizialmente l’attività dei compagni di Francesco, che ne promossero la diffusione come forma di insegnamento devozionale prima nelle chiese e poi nelle famiglie. È un prodotto dell’artigianato, un tableau vivant, una forma di culto, una componente della vita domestica, una tradizione antica, un segno identitario: in altre parole, una istituzione culturale.
Il 25 dicembre 1931 a Napoli Eduardo De Filippo mise in scena un atto unico dal titolo Natale in casa Cupiello. Erano previste nove repliche: restò in cartellone fino alla fine di maggio. Gli spettatori che affollarono per mesi il Teatro Kursaal dovettero provare una strana sensazione, di pena e insieme di grande divertimento; quel ménage scombinato in cui il padre e il figliolo gareggiano a chi è più caparbio, la figlia sposata sta mandando in pezzi il matrimonio e la madre, unica consapevole della situazione, è totalmente abbandonata a sé stessa, sembra costruito rovesciando minuziosamente tutte le caratteristiche della famiglia ideale: non si sa se sentirsi male o sghignazzare. Quanto basta per spiegare il sorprendente successo di pubblico della pièce (e la successiva rielaborazione in tre atti). Come spesso avviene nel grande teatro moderno, a concentrare su di sé le contraddizioni della scena è un oggetto, qualcosa di visibile e tangibile: il presepio - anzi, “o’ presepe” - la cui costruzione assorbe tutte le cure di Luca Cupiello. C’è qualcosa di immensamente ridicolo e insieme di tremendo nel prendere un oggetto così caro ai bambini, così radicato nel costume napoletano, così prossimo al culto della Sacra Famiglia e metterlo al centro di una vicenda in cui un uomo che ha lo stesso nome dell’evangelista e un carattere ottusamente infantile non si accorge che la sua, di famiglia, ormai è andata a picco. Lui, ha da badare al presepe.
Ogni anno, puntualmente, torna il Natale. E altrettanto puntualmente, da un po’ di tempo in qua, torna la stessa scenetta: in qualche scuola italiana qualcuno decide che il presepio o i canti tradizionali sono attività discriminatoria; questa viene pertanto sospesa o modificata; i leghisti e l’ultradestra denunciano il pericoloso attentato alle sacre tradizioni nazionali, recandosi talvolta sul luogo del delitto muniti di presepe portatile e di adeguato repertorio canoro; i media ne discutono; la cosa si sgonfia; l’anno dopo si ricomincia. L’Italia è ormai una enorme casa Cupiello, in cui ci si sfida, come Luca e suo figlio Tommasino, a colpi di “Dì che te piace ‘o presepe” e “Nun me piace ‘o presepe”. E intanto tutto intorno frana, tracima ed esonda. Forse, se cominciassimo ad ammettere che il presepio è prima di tutto una rappresentazione molto amata alla quale ognuno che lo voglia può partecipare secondo la propria sensibilità, la finiremmo con le dilettantesche farse annuali e potremmo occuparci tutti di cose più urgenti.

micropolis, dicembre 2015
Jacopo Manna nella cartolina augurale dei suoi allievi (dalla rete)
Caro Jacopo,
mi è piaciuta questa voce del tuo vocabolario ed ho molto apprezzato il ricordo del capolavoro di Eduardo. Ma nella tua chiusa c'è qualcosa che non mi ha convinto. Proverò a dire di che cosa si tratta, anche ricorrendo alla memoria.
Quando facevo l'insegnante era noto a tutti, preside, colleghi, studenti, famiglie, il mio ateismo militante. Non solo credevo, con argomenti che ritengo solidi, che le religioni siano illusione o mistificazione, ma pensavo che nella società fanno più danno che bene, per cui ritenevo un dovere denunciarne l'inconsistenza e mostrarne le deleterie conseguenze: sacrifici umani, guerre di religione, odi, intolleranze, inquisizioni, proibizioni assurde, ostacoli alla ricerca scientifica e artistica eccetera.
Nondimeno a Natale, il giorno prima delle vacanze, senza alcun problema cantavo alle alunne e agli alunni un paio di nenie della novena, nel mio dialetto siciliano. Non avevo bisogno di spiegare che, dal mio punto di vista, stavo cantando un mito, anche se per una parte - non so quanto grande - dei miei cari ragazzi e delle mie care ragazze quella storia rappresentava assai più che una bella favola.
In quel tempo, a mia memoria, se a un gruppo di allievi e allieve, ispirati o no dal collega di religione, saltava il ticchio di fare il presepe in una delle classi né io né altri opponevamo obiezioni, chiedendo rimozioni, tutt'al più ci scherzavo su bonariamente. Io stesso per alcuni anni ho costruito il presepio con i miei figli, non battezzati, non avvalentesi dell'insegnamento della religione e – nonostante la tenera età - consapevoli del valore che attribuivo a quella storia: la favola (inventata, ma piena di insegnamenti) di una coppia di perseguitati politici, cui nasce un figlio in condizioni di emergenza, e della solidarietà terrena e celeste che sorge intorno a loro. Scelte personali a parte, non credo che a quel tempo si attribuisse un gran valore alla presenza o meno del presepio nelle scuole. I ragazzi, quando lo apprestavano all'interno di una classe, non chiedevano neanche permessi.
Mi chiedo perché non sia più così, perché ogni anno debbano ripetersi polemiche, piuttosto stucchevoli, sulla materia.
Le ragioni sono probabilmente molte. Io ne vedo soprattutto due.
La prima è la presenza nelle scuole, talora massiccia, di allievi le cui famiglie ossequiano religioni non cristiane, l'Islam innanzitutto. Il presepio viene letto come segno di discriminazione da alcune di queste famiglie talora per esagerazione integralistica, talaltra perché qualche insegnante, qualche alunno o suo familiare, usa la sua collocazione in classe o a scuola come una bandiera per distinguere chi è il nativo (padrone di casa) e chi l'intruso, l'alieno. Non sempre c'è – come Jacopo sembra pensare – qualcuno che arbitrariamente decide che quella è una attività discriminatoria, ma è il contesto a renderla spesso una attività effettivamente discriminatoria. Una scuola, che è di fatto multiculturale e multireligiosa, non è inclusiva come dovrebbe essere, se dà valore a una sola tradizione, a una sola religione. In questi casi, secondo me, potrebbe funzionare una soluzione alla francese, di eliminazione dallo spazio scolastico di tutti i simboli religiosi, oppure (soluzione che io preferisco) l'uso della diversità come risorsa educativa. Gli insegnanti – sono lì per questo – dovrebbero dare diritto di cittadinanza a diverse ritualità religiose (o anche antireligiose, se se ne presenta l'occasione). Mi rendo conto che è cosa un po' più difficile con l'islamismo, religione che diffida della rappresentazione e tende a svalorizzare l'immagine; ma credo che con un po' di sforzo sia sempre possibile trovare attività che sottolineino, agli occhi di tutti gli alunni, la pari dignità delle credenze religiose, areligiose e antireligiose.
La seconda ragione riguarda l'evoluzione del cattolicesimo in Italia. Negli anni settanta e nei primi ottanta prevale nella Chiesa la spinta del Concilio verso il dialogo, anche se il dialogo comporta, per essere vero, una base di parità tra i dialoganti e dunque la rinuncia a rendite di posizione. In verità non pochi cattolici erano a quel tempo orgogliosi di affrontare l'avventura di una rievangelizzazione nel mondo secolarizzato senza godere di alcun privilegio e c'erano perfino gruppi più ristretti, tuttavia significativi, che arrivavano a mettere in discussione lo stesso Concordato. Accadeva anche in quegli anni che il presepe nelle scuole si facesse, ma, quando ciò avveniva, si trattava di un “presepe spontaneo”, che non conteneva la sottolineatura di un primato, né la pretesa di marcare un territorio.
Questa apertura verso la modernità e il confronto, pur contrastata, resta prevalente negli anni di Paolo VI, un papa che volle e seppe - pur con qualche arretramento (la “teologia della liberazione” per esempio) – mantenere vive e operanti le indicazioni del Concilio. Il suo capolavoro politico, in Italia, fu il referendum sul divorzio, nel quale difese dalle tentazioni integraliste la sua chiesa garantendo il diritto di intervento all'ampia schiera dei “cattolici del no”, tra cui si collocarono con qualche sorpresa anche figure come Carlo Carretto, che non era propriamente un progressista.
Col papa polacco la musica cambiò subito: ne fu segnale il referendum sull'aborto, nel quale invece non vennero tollerate dalla gerarchia voci dissonanti e il dissenso venne quasi completamente silenziato. Dopo quella sconfitta sempre più numerose si fanno le battaglie della CEI, soprattutto negli anni della presidenza Ruini, per affermare il “valore pubblico” dell'esperienza religiosa, mentre la diplomazia vaticana si batteva per l'inserimento delle “radici cristiane” nelle carte fondative dell'unione continentale. In Italia si trattò di un vero crescendo sui singoli temi e, sul piano generale, della rivendicazione di un “primato morale e civile”, che toccò il suo apice nel “Giubileo del Millennio”. Intanto, sebbene i processi di secolarizzazione si facessero più vasti ed espliciti (il boom delle convivenze e delle unioni non sacramentali è un ottimo indicatore), la Chiesa guadagnava prestigio nei confronti di istituzioni politiche sempre più screditate, otteneva sostegno economico in campi come quello educativo e sanitario, ampliava il suo potere e godeva perfino di una sorta di diritto di veto per le leggi su “temi eticamente sensibili”. Cresceva già allora la richiesta, organizzata, di riconoscimenti anche simbolici, inclusi i crocifissi negli uffici pubblici e i presepi nelle piazze e nelle scuole. L'impressione è che si trattasse di una strategia e che essa prosegua oggi.
Caro Jacopo, l'Italia è, per fortuna, ancora molto varia ed è possibile che ci siano movimenti islamici o laicisti pronti ad alzare la voce contro il carattere discriminatorio del presepio, non appena sentono che in qualche scuola è stato preparato; ma ci sono, forse anche più spesso, gruppi integralisti che cercano di piazzare un presepe in ogni dove, anche in posti ove nessuno ne sente la necessità, e chiedono “pronunciamenti” pro-presepio a dirigenti scolastici, Consigli comunali, Consigli di Istituto eccetera. Non si tratta solo di leghisti (e simili) che leggono il presepe come segno “identitario” degli indigeni da sbattere in faccia agli invasori, ma anche di cattolici che considerano quella presenza una manifestazione di egemonia. Anche costoro, insieme agli altri, favoriscono il ripetersi delle dilettantesche farse di cui scrivi.
Tante cose belle per l'anno nuovo.

Salvatore      

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