14.1.16

Fortini e Pasolini. La mutazione degli strumenti intellettuali (Roberta Cordisco)

1. Durante gli anni del boom economico e della rivoluzione dei consumi Pasolini e Fortini ne hanno inquadrato gli effetti nelle ormai note categorie di “mutazione antropologica” e “surrealismo di massa”. Spesso si è discusso sulle ripercussioni che il moderno capitalismo ha avuto in ambito sociale ma è interessante, sempre attraverso questi due autori, esaminare il problema da un’altra prospettiva, ossia quella che si sofferma a riflettere sugli sconvolgimenti che la mutazione ha operato anche all’interno della produzione culturale e del lavoro intellettuale.
In molte pagine della saggistica di Franco Fortini risuonano le note francofortesi della critica alla cosiddetta industria culturale. È fondamentale capire l’influenza che tale nozione esercita sull’analisi di Fortini anche per coglierne un’importante differenza con la critica di Pasolini. Quest’ultimo ebbe sempre «un atteggiamento di rifiuto e di ignoranza procurata nei confronti della critica della cultura e della industria culturale» poiché essa lo avrebbe costretto al compito spiacevole di «una critica dei propri strumenti di comunicazione che prevedeva paralizzante».
Così Fortini coglie il punto esatto in cui la teoria dell’amico cade in contraddizione: è vero che Pasolini denuncia la minaccia di un «Potere senza volto» e invita a combatterlo, ma il suo grido d’allerta promana dalle strutture comunicative interne a quello stesso Potere. Egli è sceso a patti con le logiche del mercato letterario e dei nuovi strumenti di comunicazione di massa, per questo non può che criticare il sistema capitalistico rimanendo in parte impigliato alle sue reti. Dissertare più approfonditamente sui meccanismi dell’industria culturale avrebbe significato, per lui, ammettere una certa complicità.
Fortini, invece, guarda ad essi dal di fuori e cerca di dare un volto al nuovo Potere invitando a non accontentarsi di ricevere il sapere come un prodotto finito di cui non si conosca la provenienza; vivere nel mondo ad occhi aperti e non da “sonnambuli” significa, infatti, interrogarsi assiduamente su cosa si nasconda dietro la manipolazione dell’informazione che gli organismi istituzionali tentano di celare. Dunque per Fortini il “falso progresso”, che tanta parte aveva avuto nella riflessione dell’ultimo Pasolini, è evidente soprattutto nelle condizioni del mercato a lui contemporaneo: “Per dirla con enfasi sintetica: inserire qualche altro milione di italiani nel circuito di consumatori di periodici, libri, esposizioni e dibattiti, ‘stante il mercato quale è oggi’ è, secondo me, falso progresso ossia la più subdola forma di regresso. La vittoria sul semianalfabetismo non può conseguire a battaglia diversa da quella contro lo sviluppo della “industria delle coscienze” e contro l’annichilimento di intelligenze e volontà compiuto dalla “cultura” e dai suoi addetti”.
La cultura diviene merce al pari delle altre e si apre ad ampie fasce di consumatori; non a caso l’ennesimo inganno del sistema occidentale è quello di far credere che la democrazia delle diverse società possa misurarsi in base alla quantità di informazioni, mentre per Fortini bisognerebbe impostare il discorso in termini di qualità e capire chi è interessato, eventualmente, ad impedire il miglioramento di quest’ultima e perché. Tuttavia la domanda continua ad essere rimossa e si è costretti a vivere «il sapere senza democrazia, cioè fondato sul privilegio o su di una sua anche miserabile frazione, e la democrazia senza sapere, cioè fatta di menzogna e impotenza».
Le politiche internazionali traggono beneficio da quel circuito sempre più allargato di consumatori poiché diffondere l’illusione, a livello popolare, di un sapere interamente posseduto e saziare quella fame di status culturale del ceto medio, aiuta a mantenere assopite le coscienze e a distogliere l’attenzione degli individui dalle reali problematiche della società, scoraggiando così ogni altro possibile interrogativo sul funzionamento dei poteri multinazionali. Autorità politiche e mediatiche sono artefici di un falso sapere comune finalizzato a tenere lontano il «muro del rischio», ossia quell’area della consapevolezza critica che nessuno osa avvicinare; sono numerose le vie traverse offerte dal sistema per evitare che gli individui decidano di affrontare con responsabilità la zona del rischio. Scrive Fortini che i dibattiti televisivi, le conferenze e le tavole rotonde non sono mai state così vivaci, si può parlare confusamente di tutti quei temi che la sinistra degli anni Sessanta «aveva strappato alla ipocrisia generale», la droga, l’eros e così via, purché facciano da diversivo e allontanino dalle vere questioni del Paese. Così l’informazione mediatica pretende di essere democratica «perché di tutti come la legge, e come di fronte alla legge oggi si proclama l’eguaglianza del cittadino di fronte alle enciclopedie».
Ricordando Habermas Fortini avverte che nel momento in cui l’informazione è diventata diritto-dovere di tutti la sua manipolazione si è affermata come vera industria del secolo; eppure la democraticità del sapere è anche, contraddittoriamente, oligarchica. Ciò vuol dire che il numero sempre crescente degli specialisti e degli esperti dei vari settori del sapere serve a persuadere l’opinione pubblica che molte questioni non possono che essere materia adatta esclusivamente agli addetti ai lavori, ossia a minoranze che si accaparrano il diritto di scegliere; il proliferare delle varie specialità consente anche di poter continuamente scaricare su altri “esperti”, con la scusa di ritenerli più adatti, il rischio e l’onere di smascherare i nessi conoscitivi del sistema. Per Fortini aderire a questa «gerarchia delle conoscenze» significa assecondare le logiche del potere e la più subdola ideologia della modernizzazione; sono tanti, egli sostiene, i «don Ferranti e i don Abbondi pronti al peggio purché non venga meno la fiducia nella gerarchia fondata sul sapere e l’informazione, né vacilli la certezza che le cose di stato sono troppo complesse perché se ne occupi la gente comune senza la mediazione di un compatto e crescente corpo di specialisti».
Si creano di conseguenza varie corporazioni intellettuali che sono, di fatto, al servizio delle strategie di mercato del potere politico-economico. Come già Pasolini aveva denunciato la falsa tolleranza delle democrazie occidentali così Fortini mette in guardia contro le «maschere della tolleranza», ossia contro la libertà illusoria che le pubbliche autorità fingono di concedere nella scelta dei consumi. La modernizzazione e il progresso tecnologico hanno fatto sì che la mercificazione della cultura, insieme alla comunicazione mediatica, plasmasse un’opinione pubblica a immagine e somiglianza delle volontà dei poteri che quella stessa cultura hanno prodotto.
La difficoltà sta proprio nel comprendere come, essendo tale «la condizione della libertà in un universo di merci», l’oppressione possa somigliarle allo stesso modo in cui «una perla coltivata somiglia ad una autentica»8.
Se tutto questo vuol dire democrazia Fortini non teme di autodefinirsi antidemocratico: “È autoritario, è nemico della libertà chiunque ritenga che il mercato non debba essere il regolatore supremo della circolazione delle informazioni, del sapere, della cultura? In questo senso, sono autoritario. È antidemocratico chi pensa che, esistendo di fatto una censura indotta dal mercato e, in definitiva, dal potere economico-politico, si debba agire perché ai livelli della formazione intellettuale (la scuola ma anche i “media”) si prepari la gente a usare con astuzia gli strumenti del mercato e a resistere alla manipolazione? In questo senso sono antidemocratico”.
Ricordando un motto di Adorno Fortini rammenta che «di quello di cui non si può parlare bisogna parlare»; l’invito è a sfidare l’omertà collettiva e il silenzio. Si crea infatti una solidarietà negativa tra informatori e informati che contribuisce all’annullamento di un’autentica opinione pubblica, e più questa scompare più è necessario mantenerne la finzione tramite assordanti ed inutili «ciarle culturali» da specialisti; causa della sua scomparsa è l’improvvisa sovrapposizione «degli strumenti e delle sedi in cui dovrebbe manifestarsi con quelli che la inducono». Sono soprattutto due i mercati dell’opinione che si integrano a vicenda: uno è quello più tradizionale che rispetta le gerarchie istituzionali e tiene conto dei diversi livelli di prestigio e autorità intellettuale, l’altro è quello prodotto dai media che punta al controllo indiscriminato dei consumatori. Dunque la requisitoria fortiniana è contro l’informazione inutile che non costituisce un valido incentivo alla ribellione e all’azione politica, bensì lo strumento attraverso il quale si diffonde la menzogna del sapere come potere. Il «moto caotico delle opinioni», così come Fortini lo definisce, genera impotenza e frustrazione; è anch’esso una maschera di tolleranza dietro la quale si nasconde non un’autentica libertà d’espressione, ma una controllata diffusione del consenso. «Puoi dire e scrivere quel che vuoi, è vero, ma a condizione che quel che dici non si faccia strumento di aggregazione» poiché chi gestisce il sistema sa fiutare un simile pericolo.
In un simile scenario il ceto intellettuale non può che perdere la sua originaria funzione di guida morale e Fortini prende atto che ormai l’intellettuale-massa è una realtà più che consolidata. Anch’egli, come Pasolini, percepisce la minaccia di un potere tecnologico sempre più invasivo che si maschera da scienza per sedere a fianco della classe dirigente e mettersi al suo servizio. I media non sono, come invece furono gli intellettuali, latori di consapevolezza, ma concorrono all’elaborazione della falsa coscienza (nozione hegeliana presente nel pensiero di Marx) e all’imposizione di quella ideologia globale che è il mercato capitalistico. È dunque necessario creare veri spazi d’opposizione in cui siano finalmente chiari i volti e i «nomi dei nemici» così da poter combattere la demoralizzazione culturale e la colonizzazione dell’inconscio promossa dalle industrie del sapere e dall’informazione mediatica.
A tal fine si è detto quanto sia necessario, secondo il parere di Fortini, l’affermarsi di una critica dettagliata della produzione editoriale che incoraggi i lettori ad interrogarsi sull’origine dei propri consumi culturali e su quali interessi politici essi soddisfano. Egli racconta, in una intervista rilasciata a Franco Brioschi, di essersi avvicinato al mondo dell’editoria tramite le riviste e i suoi lavori di traduzione; così ha potuto avere accesso ai segreti meccanismi economici che regolano un simile ambiente. Nonostante il rapporto con questa attività non sia mai stato portato avanti dall’“interno”, essa suscita comunque un certo interesse per lo stretto legame che intrattiene con la nozione gramsciana di «organizzazione della cultura» (così scrive Fortini in Dieci inverni: «col termine organizzazione della cultura si vuole intendere l’insieme dei rapporti che intercorrono tra la produzione di cultura e le strutture economico-politiche di una società. Così che la coscienza della organizzazione della cultura equivale non solo a coscienza della sua storicità ideale, ma del suo concreto condizionamento»).
Fortini sostiene però che quest’ultima, nel caos moderno della comunicazione e dell’informazione di massa, è andata incontro alla propria fine; d’altronde già a partire dagli anni Sessanta, dopo il miracolo economico, il mondo dell’editoria ha iniziato a trasformarsi: “A partire dagli inizi degli anni sessanta il panorama è ormai cambiato, e comincia a somigliare sempre più a quello attuale. Le case editrici hanno perduto quel loro carattere, immaginario, per cui credevano di essere veicoli della cultura, e quindi di essere investite di una sorta di missione. E invece diventano sempre più organi che veicolano delle mode. […] In quegli anni cambia totalmente il panorama dell’editoria italiana, e cambia in questo senso la nostra funzione di intellettuali all’interno di essa. Comincia allora a formarsi un tipo di intellettuale, o di attività intellettuale, di secondo rango […] Nel nostro paese manca una critica dell’editoria, una critica che sia anche storia delle collezioni e delle scelte editoriali. Di questo argomento non si parla. E non si parla perché non esiste una forza sociale ed economica che possa farlo[…]Dall’altro lato c’è un fenomeno più generale, che investe tutte le forme di comunicazione: la fine dell’opinione pubblica, nel senso di Habermas. Non esistendo più un’opinione pubblica, non esiste più una critica letteraria propriamente detta. Esistono finzioni. Tutti parlano di libri: ma appunto non c’è mai un discorso che non si appoggi a un libro”.
Fortini ribadisce che sono stati gli anni Sessanta a metterci con le spalle al muro. È chiaro che da allora l’editoria non è più sinonimo di cultura autentica bensì cassa di risonanza per le mode, così come la lettura è ridotta ormai ad uno squallido «mattatoio». Perfino le antologie dell’editoria scolastica sono, in realtà, le armi del potere. Inoltre Fortini ricorda le due principali tendenze del tardo capitalismo per poi rivelarne la contraddittorietà solo apparente: da un lato, infatti, la cultura moderna aspira ad un pubblico di massa reso omogeneo dal consumo di prodotti uguali per tutti, dall’altro, invece, soprattutto attraverso le pubblicità televisive, si regala l’illusione dell’unicità, ossia si propone un «modello di individuazione estrema» che invita a distinguersi dagli altri. Il risultato è uno «snobismo di massa, una corsa di topi» culturale dove ognuno finge di essere quello che non è. Questo doppio movimento ha un unico scopo: fare gli interessi del mercato capitalistico e controbilanciare la manipolazione delle coscienze con la concessione di libertà controllate. Dunque la realtà dell’industria culturale, sinonimo per Fortini di «fabbrica della coscienza», costituisce per lui uno degli aspetti più allarmanti del falso progresso; è un punto cruciale sul quale non smetterà mai di insistere dal momento che l’unica cultura di cui ci si può occupare è «quella che smonta e spiega il processo produttivo della cultura circostante e che cerca di farci capire come funziona». Bisogna comprendere qual è la cooperazione di poteri che presiede al modo di produrre, vendere e consumare la merce del sapere così da avere sempre chiara la «pianta topografica del mercato».


2. C’è da dire che il pericolo della commercializzazione letteraria non è più un pericolo. È una vecchia realtà che muta forme. Noi ne siamo leggermente sfiorati perché il nostro Paese è ancora scarsamente industrializzato. D’altra parte pericolo commerciale e politico sono una cosa sola. Grave è che siamo affatto impreparati di fronte a tutti e due; ne è la prova il fatto che, nella piccola proporzione in cui la industrializzazione letteraria ha colpito il nostro Paese, noi l’abbiamo già totalmente subita. Da noi, essa si esprime attraverso la subordinazione politico-commerciale degli scrittori ai periodici e agli editori da cui traggono in massima parte i mezzi di sostentamento.
Si è visto come svelare il volto delle forze che governano le formazioni culturali sia una delle ossessioni di Fortini. Quest’ultimo svolge la sua funzione intellettuale consapevole che il mercato della cultura ha ormai affidato agli organi tradizionali della mediazione tra pubblico e scrittore, come appunto l’editoria, i giornali e le riviste, un aspetto completamente diverso. Per Fortini il boom economico ha significato anche la riproposizione dello stato di alienazione, lo stesso che Marx aveva descritto in merito al lavoro meccanico delle grandi industrie, all’interno dell’universo culturale. La mercificazione del sapere e le sue forme di organizzazione sul mercato decretano la fine di una ‘mediazione’ autentica tra l’intellettuale e il suo pubblico. È il grande potere economico che gestisce la circolazione delle idee, manipolandole a proprio piacimento e fornendo, nello stesso tempo, l’illusione di una democraticità di pensiero ed espressione.
L’industria culturale, in accordo col potere politico, riesce ad alimentare l’illusione dell’ indipendenza critica sebbene l’intellettuale sia ormai del tutto asservito al sistema. Secondo Fortini è addirittura impossibile distinguere la cultura di massa da quella d’élite dal momento che esiste una notevole similarità tra le loro strutture e una certa omogeneità fra i loro produttori e destinatari. Il venir meno di una simile distinzione può «essere un modo per affermare che le distinzioni di classe stanno per scomparire o per venir introiettate, sì che in ognuno di noi convivrebbero ormai il padrone e il servo, il capitalista e lo sfruttato, il produttore e il consumatore di sub-cultura»23.
Ma ciò che qui si vuole sottolineare è che Fortini ha piena coscienza della deformazione degli strumenti culturali operata dal potere capitalistico; nel momento in cui egli ne fa uso, si tratta comunque di un uso critico, consapevole della strumentalizzazione a cui è sottoposto da parte del sistema economico e dei nuovi condizionamenti in campo culturale. In uno scritto intitolato Per i nemici della libertà risalente all’ottobre del 1976, Fortini chiarisce quale sia il suo pensiero riguardo al lavoro intellettuale: ... Lo so:/ mangio nel piatto/ dell’amministrazione pubblica e anche in quello/ dell’editoria. E ci sputo/ dentro, seguendo l’esempio perverso/ dei bidelli, dei reclusi e dei tipografi./ Eppure sono proprio persuaso:/ non è bene lasciare gli editori/ soli a decidere quali/ libri possiamo leggere e quali ignorare …”
Fortini sottopone l’attività intellettuale e gli strumenti che essa utilizza ad una severa autocritica. Costringe la cultura a ragionare su se stessa e ad interrogarsi sui propri canali di trasmissione. Se il lavoro letterario è ormai diviso tra i tanti «addetti ai lavori», è necessario ricercare le radici della nuova gestione del sapere e ricostruirne i processi per essere sempre critici attenti nel mercato delle lettere. In altre parole il volto del potere economico deve essere sottratto al suo anonimato e per far questo un passo obbligato è appunto la riflessione della cultura sul funzionamento e la manipolazione dei propri strumenti divulgativi, ossia, se così si può dire, una sorta di riflessione metaculturale.
Si è visto come una differenza fondamentale tra l’analisi di Fortini e quella di Pasolini consista nel fatto che quest’ultimo, nella sua violenta denuncia degli effetti della mutazione, tralascia la critica ai meccanismi dell’industria culturale per il semplice motivo che egli stesso ha saputo sfruttarla per trasmettere al pubblico una precisa immagine di sé.
Pasolini arriva a patteggiare con il mercato letterario e con le grandi comunicazioni di massa. Nel lungo iter della sua produzione intellettuale un’importante fase di svolta è segnata, ad esempio, dall’inizio dell’attività cinematografica. Questo non vuol dire che egli manchi di analizzare criticamente e coscientemente la situazione della cultura nella modernità capitalistica, ma è tuttavia innegabile la sua capacità di sapersi meglio destreggiare con le nuove tecnologie offerte dal progresso. L’ambiguità del suo operato sta in un’aspra requisitoria contro il processo di modernizzazione che è però contraddittoriamente fronteggiata da una buona capacità di adeguamento alle nuove forme di espressione che quella stessa modernità propone.
Pasolini accetta di entrare nel complicato groviglio dei processi di produzione che Fortini cerca così faticosamente di sciogliere e chiarire. Sebbene sia lecito sostenere, in accordo con quest’ultimo, che il lavoro cinematografico e il contatto con «l’universo parassitario» della città di Roma abbiano trasmesso a Pasolini quel «senso di facile onnipotenza che somministrano i milioni o i miliardi dei produttori»25, facendogli dimenticare l’importante interrogativo sui rapporti di produzione, lo stesso che Fortini si è posto in merito all’editoria, non bisogna sottovalutare il fatto che il ricorso al cinema è anche e soprattutto uno dei tanti aspetti che hanno reso la figura intellettuale di Pasolini ancor più completa e complessa.
Lo strumento cinematografico non è, banalmente, il tacito consenso che Pasolini dà alla modernità, ma un linguaggio attraverso il quale egli arricchisce la sua figura di artista: “In breve: il sentire di non poter più scrivere usando la tecnica del romanzo si è trasformato subito in me, per una specie di autoterapia inconscia, nella voglia di usare un’altra tecnica, ossia quella del cinema. L’importante era non stare senza far niente o fare negativamente. Tra la mia rinuncia a fare il romanzo e la mia decisione di fare il cinema, non c’è stata soluzione di continuità. L’ho presa come un cambiamento di tecnica. Ma era vero? Non si trattava piuttosto dell’abbandono di una lingua per un’altra lingua? Dell’abbandono della maledetta Italia per un’Italia almeno…transnazionale? Della vecchia rabbiosa voglia di rinunciare alla cittadinanza italiana? Ma in fondo non si trattava neanche di questo; no, non si trattava neanche dell’adozione di un’altra lingua… Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto”.
Il cinema, dunque, come «autoterapia inconscia». Una reazione agli sconvolgimenti della modernità, non solo il complice sfruttamento di uno dei suoi strumenti di comunicazione. Significativo è, infatti, il riferimento all’Italia transnazionale, la stessa che veniva espressa, a suo parere, dalle antiche culture sottoproletarie con le loro parlate dialettali. Il cinema è, in un certo senso, uno strumento del mondo moderno il cui linguaggio serve anche a ritrovare quell’essenza transnazionale che un tempo era appartenuta all’universo preborghese, anche se in una veste differente.
Nel saggio La fine dell’avanguardia, risalente al 1966, Pasolini riflette sulla funzionalità dello strumento cinematografico in relazione all’esperienza avanguardistica. Tra le cause che hanno indotto la fine dell’avanguardia Pasolini insiste sull’evidente incapacità di quest’ultima di divincolarsi dall’ambito piccolo-borghese risolvendosi, di fatto, in un implicito consenso al sistema. Il cinema, invece, è il solo strumento di comunicazione che permette di non rassegnarsi ad «essere fatalmente omologhi nella propria opera alla società piccolo-borghese» dal momento che il suo linguaggio, ossia la riproduzione audiovisiva del reale, è transnazionale, dunque la sua struttura sociale corrispondente deve essere pensata come l’intera umanità civile. Per questo il cinema, considerato sotto tale aspetto, permette di superare l’errore commesso dall’avanguardia che ha visto esaurire la sua effimera funzione proprio perché ha fatto “orecchio da mercante” di fronte alla necessità di odiare la condizione borghese per riuscire a superarla e per potersi da essa riscattare.
Pasolini vuole dimostrare che il cinema rappresenta una eccezione alle leggi dell’omologia esposte da Goldmann in Sociologia del romanzo. Secondo tali leggi esiste una diretta corrispondenza tra struttura romanzesca e struttura sociale. Ebbene il cinema, linguaggio che riproduce la realtà, non può possedere strutture strettamente omologhe a quelle della società storica dove il film è stato prodotto. Questo perché la riproduzione audiovisiva del reale è un linguaggio identico ovunque, transnazionale appunto. Ecco perché le strutture della lingua del cinema «prefigurano una possibile situazione socio-linguistica di un mondo reso tendenzialmente unitario dalla completa industrializzazione e dal conseguente livellamento implicante la scomparsa delle tradizioni particolaristiche e nazionali». Dunque il cinema come prefigurazione di una società ormai completamente industrializzata. La sua transnazionalità non è più quella genuina dell’antico universo contadino, ma quella che riflette la piatta e alienante uniformità del mondo capitalistico. Eppure non per questo il poeta di Casarsa rinuncia a saggiarne le potenzialità.
Forse è proprio nell’immediatezza viscerale con cui il Pasolini “antimoderno” ha respinto l’avvento del neocapitalismo che è possibile ritrovare una ragione della sua successiva compromissione nella nuova industria delle telecomunicazioni. La requisitoria che non ammette mediazioni ed è salda nelle sue posizioni estreme può forse cogliere in anticipo, e senza dubbio con straordinario acume, le contraddizioni del presente; tuttavia se poi viene meno la fase della dialettica lucida e razionale, quella che non è mancata a Fortini e che svela il volto e il «nome dei nemici», andrà essa stessa incontro alla contraddizione e sarà inevitabilmente invertita di segno. Il rifiuto senza compromesso del sistema si risolve, così, nel patteggiamento con la modernità. L’immediatezza e l’urgenza della negazione implicano il controsenso dell’accettazione.


3. È evidente che dinnanzi al fenomeno della mutazione antropologica lo sperimentalismo di Pasolini non teme di misurarsi con i più svariati linguaggi e di adeguarsi, seppur contraddittoriamente, alla mutazione degli strumenti intellettuali, accettando così di lasciare senza volto il potere economico che spesso li condiziona La “metacritica” di Fortini, come giustamente l’ha definita Pier Vincenzo Mengaldo30, non può, al contrario, riflettere sulla mutazione senza prima interrogare se stessa e i propri mezzi espressivi. Ciò significa che non si può denunciare il cambiamento se non si porta avanti, di pari passo, un’indagine sulle interferenze del sistema politico ed economico sugli organi della cultura addetti alla trasmissione del sapere e all’informazione. La critica non è solo un linguaggio che chiama in causa la realtà esterna, ma deve anche essere dotata di uno sguardo introspettivo che la porti a farsi critica di se stessa e consapevole delle proprie condizioni nel secolo della scienza e della globalizzazione. Non si può ignorare il funzionamento dell’industria culturale né tantomeno le dinamiche del mercato editoriale se l’intenzione è quella di ricercare coscientemente spazi ancora utili all’attività critico-intellettuale. Nell’invito a riconsiderare l’importanza della nozione gramsciana di “organizzazione della cultura” e a capire il nesso tra sistema economico e produzione culturale si nasconde uno dei messaggi più attuali di Franco Fortini. Non basta essere consapevoli che nel mondo moderno, compreso il nostro, la cultura è ormai merce, bisogna anche essere in grado di riconoscere le influenze politiche e gli interessi economici che l’hanno immessa sul mercato. Per questo non si può che avallare l’allora «perplessa richiesta di una critica della produzione editoriale» avanzata da Fortini.


Dal sito del Centro Studi Franco Fortini di Siena “L'ospite ingrato”

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