23.2.16

Editing genomico. Riscrivere il mondo (Angela Simone)

Si chiama editing genomico. È la tecnologia del futuro, ma è già presente. Permette di manipolare il Dna con una precisione e una potenza sconosciute. I vantaggi potrebbero essere grandissimi, come curare malattie ad oggi incurabili. Il rischio è l’uso improprio della tecnica. La scorsa primavera un gruppo cinese l’ha usata su cellule di embrioni umani. E a fine settembre un altro gruppo, sempre cinese, ha creato dei mini-maiali da compagnia.
Nei primi giorni del mese Washington ha ospitato il primo summit internazionale sul genome editing. Si attendeva una moratoria, ma non è arrivata.

È la parte più intima di noi, che racconta chi siamo alla nostra nascita, quello che potremmo diventare in futuro e di cosa probabilmente – e in alcuni casi certamente – ci ammaleremo. Il Dna, il nostro genoma, mutabile per sua natura dal caso, oggi può essere riscritto dall’uomo con estrema facilità.
Le tecniche di intervento sul genoma esistono ormai da diversi decenni, da quando negli anni Settanta la biologia molecolare e l’ingegneria genetica hanno dato i primi risultati su cellule semplici come quelle batteriche. Ma è nell’ultimo decennio che la comparsa di tecniche di modifica dei geni più efficienti e di più facile gestione, nei tempi e nei costi, ha fatto diventare il genome (o gene) editing, anche su cellule animali più complesse come quelle umane, un orizzonte più vicino. Soprattutto da quando nel 2013 è arrivata la potente e versatile tecnica chiamata Crispr/Cas9, appena consacrata dalla rivista “Science” come l’innovazione «breakthrough of the year». La svolta dell’anno.
Il termine editing descrive bene quello che questa tecnologia rende possibile: modificare e correggere le parole all’interno del libretto di istruzioni di ogni organismo vivente, il genoma, tramite un meccanismo di taglia e incolla, proprio come in un documento di scrittura digitale. La potenza della tecnologia risiede nella sua incredibile versatilità: qualunque tipo di cellula, vegetale, animale, compresa quella umana, può essere oggetto di correzione e la modifica potenzialmente può avvenire ovunque, per ottenere diversi risultati.
L’editing genetico può innanzitutto correggere geni “difettosi”, capaci di provocare malattie direttamente correlate a una mutazione puntuale, detta puntiforme, o aumentare la probabilità di promuovere la crescita tumorale in alcuni tessuti e organi. Si potrà per esempio intervenire sulla mutazione dei geni che predispongono al cancro alla mammella e all’ovaio anche nelle cellule uovo, in modo che né la singola donna né le sue discendenti possano avere quella mutazione. Aprendo così la strada a strumenti e terapie attualmente non disponibili per curare malattie diffuse e rare.
Ma il genome editing potrebbe anche essere usato per creare piante e animali portatori di vantaggi per l’uomo. Per esempio piante più resistenti ai cambiamenti climatici o animali che producono organi ad altissima compatibilità umana e utilizzabili per gli xenotrapianti, così da mitigare il problema della scarsa reperibilità di organi.
Le alterazioni genetiche indotte con tale tecnica potrebbero però avere un impatto a lungo termine anche sulle generazioni future, se compiute sulle cosiddette cellule umane germinali e riproduttive, cioè le cellule uovo e spermatozoi, che trasmettono alla discendenza l’informazione genetica che contengono. Gli esiti non sono a oggi prevedibili. Tecnicamente la scienza non è ancora pronta per impiantare in utero un embrione modificato, ma i cambiamenti si avvicinano velocemente. E prefigurano per un futuro non lontano una serie di dilemmi etici, legali e sociali: di qui la richiesta, da parte della comunità scientifica che lavora in questo ambito, di un momento di riflessione e discussione, «prima che sia troppo tardi».

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Il primo segnale che i tempi fossero maturi per una discussione globale sul tema era arrivato ad aprile di quest’anno, con la pubblicazione di uno studio sull’uso del gene editing in cellule embrionali umane a opera di un gruppo di ricerca guidato da Junjiu Huang della Sun Yatsen University di Guangzhou, Cina. L’obiettivo della ricerca non era impiantare gli embrioni modificati nel genoma per ottenerne una gravidanza. Ma la sola concreta possibilità di riuscire tecnicamente a manipolare cellule umane riproduttive ha rinvigorito la discussione su una tecnologia che nel suo sviluppo procede bruciando le tappe.
Come detto, il tema è stato al centro del primo summit internazionale sull’editing genomico applicato all’uomo, che si è svolto tra l’1 e il 3 dicembre a Washington, su iniziativa delle Accademie di Scienza e Medicina statunitensi e cinesi e della britannica Royal Society. Scienziati del settore insieme a bioeticisti provenienti da tutto il mondo si sono riuniti per discutere se e come proseguire la ricerca, visti gli importanti dilemmi etici che si porta dietro. Al contrario di quanto precedenti consessi di scienziati sembravano far presagire, il convegno non si è chiuso con una moratoria, cioè una pausa temporanea parziale o totale nella ricerca in questo ambito; ma solo con un invito alla cautela nell’uso della tecnica su embrioni da impianto per ottenere un essere umano. Una sperimentazione che gli scienziati a Washington hanno definito «irresponsabile» se usata senza aver prima raccolto informazioni, tramite ricerca di base, ed esperienza sulla sicurezza della metodica nell’uomo.
«Questo è solo l’inizio di un processo. Penso che segni un precedente nella gestione delle situazioni difficili di cui dobbiamo andare fieri». Queste le parole con cui ha chiuso il summit David Baltimore, virologo del California Institute of Technology e premio Nobel per la medicina del 1975. In molti però si chiedono se davvero il congresso sia stato efficace nella gestione di un problema così complesso.
«Pochissime persone hanno preso la parola e la maggior parte di loro hanno discusso della questione in termini davvero limitati. Nonostante lo sforzo lodevole degli organizzatori di essere inclusivi, c’è ancora molta strada da fare, perché in questo contesto non solo sono difficili le risposte da dare, ma anche le domande da porsi», dice a pagina99 Ben Hurlbut, storico della scienza e assistant professor presso la Scuola di scienze della vita dell’Arizona State University. «È troppo semplicistico guardare al genome editing solo come un problema di rischi e benefici immediati in termini medici, invece che inquadrare la questione in termini più ampi di diritti umani o su come andrebbe a cambiare il rapporto tra generazioni», aggiunge Hurlbut, presente al summit anche perché da tempo interessato alle controversie scientifiche che riguardano materie al confine tra bioetica e politica.
Nel frattempo, in concomitanza con la riunione sul gene editing e proprio per cercare di avere un impatto sulle sue conclusioni, il Consiglio d’Europa, tramite il suo Comitato di Bioetica (DH-Bio), aveva ricordato il divieto di intervenire su cellule riproduttive ed embrionali, in accordo con la Convenzione di Oviedo, unico sistema regolatorio internazionale sui diritti umani in ambito biomedico legalmente vincolante e già in vigore. Ma nazioni come la Cina, che stanno investendo moltissimo su questa tecnologia, potrebbero presto arrivare a un simile traguardo, per di più nel rispetto delle conclusioni di Washington, che dà indicazioni globali, ma lascia la giurisdizione della regolamentazione dei vari campi applicativi a norme ed etiche nazionali. In pratica, se la legge nazionale lo permette, diventa possibile anche agire su questo tipo di cellule.
Dove è vietato, come nel caso dell’Italia, il ricercatore deve fermarsi. «La discussione sull’uso di questa tecnologia sugli embrioni è largamente fittizia perché in questo ambito ci sono già da tempo norme nazionali che regolamentano la sperimentazione sugli embrioni», dichiara a pagina99 Giuseppe Testa, professore di biologia molecolare presso l’Università di Milano e direttore del Laboratorio di epigenetica delle cellule staminali dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo). Testa fa anche parte dell’Hinxton Group, un consorzio internazionale su cellule staminali, etica e diritto che già a settembre si è espresso con una dichiarazione sul genome editing: «Abbiamo indicato una roadmap, una serie di tappe e indicazioni, sia sul versante scientifico che su quello sociale per guidare e accompagnare il processo decisionale», spiega. Processo che dovrebbe essere il più inclusivo possibile.

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La voce dei pazienti e dei cittadini in generale è un concetto spesso evocato, ma in concreto poco considerato nelle decisioni scientifiche. L’effetto dell’esclusione di grandi parti della società da un dibattito il cui impatto riguarda tutti pone un vero e proprio problema di democrazia, come ha sottolineato Hurlbut in un articolo scritto con altri esperti di scienza e società e apparso sul Guardian in aprile, subito dopo la pubblicazione del lavoro dei ricercatori cinesi su cellule embrionali. Secondo gli autori «anche in società tecnologicamente avanzate, si tende a deferire al giudizio dei soli esperti quali siano i rischi di cui è ragionevole preoccuparsi e quali no. E questo è un deficit di democrazia». Il testo elaborato dall’Hixton Group concorda con questa visione, come sottolinea Testa: «Sul dove, quando e come il gene editing possa diventare uno strumento utile, la scienza non è la sola a dover dare risposte. È un compito politico, nel senso più alto del termine, in cui le società sono chiamate a decidere e deliberare collettivamente sui potenziali usi della tecnica, perché nel contesto multiculturale in cui viviamo e in cui istanze valoriali diverse coesistono e a volte competono, è necessario un dibattito aperto e inclusivo».
È impensabile che un dibattito del genere possa dirimersi una volta e per sempre con una risoluzione statica. «Le domande che l’editing genomico pone, quelle che bisogna avere il coraggio di porsi, come l’accettabilità etica da parte delle società dell’intervento su embrioni e cellule germinali, non possono essere risolte una volta per tutte, ma devono essere reiterate ed evolversi man mano che le sensibilità maturano, attraverso strumenti di consultazione pubblica strutturata, che a loro volta devono tenere il passo dei cambiamenti della tecnologia e della società», conclude Hurlbut.
La conferenza internazionale sul gene editing, nonostante l’orgoglio di Baltimore, sembra quindi aver fallito «nella gestione di situazioni difficili». O almeno non ha saputo inquadrare in tutta l’ampiezza della loro complessità il problema e la posta in gioco. Ma forse può avere aiutato a rendere più visibile una controversia non solo scientifica e che va alle radici di come le società vogliano governare e riscrivere il loro futuro.


Pagina 99, 19 dicembre 2015

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