1.3.16

Classici. Zola, un lamento delle tenebre (Luca Pietromarchi)

Con la pubblicazione del terzo volume dei Romanzi di Zola nella collana dei Meridiani giunge a compimento l’ambizioso progetto editoriale di offrire nove dei più significativi intrecci del naturalista francese in nuova traduzione. L’impresa, affidata a Pierluigi Pellini, è stata iniziata nel 2010 con il volume dedicato a Thérèse Raquin, L’Assommoir e Nana, seguito nel 2012 da Pot-Bouille, Au Bonheur des Dames e La joie de vivre. Il terzo tomo contiene tre delle massime cime del ciclo dei Rougon-Macquart, il grande massiccio centrale della storia del romanzo europeo ottocentesco: Germinal, La Terra e La Bestia umana, nelle rispettive traduzioni, tutte ammirevoli, di Giovanni Bogliolo, Donata Feroldi e Dario Gibelli (Mondadori, «I Meridiani», pp. 1920, euro 80,00). Questo insieme costituisce un vanto dell’editoria italiana ed è merito delle introduzioni del curatore, veri e propri saggi appassionati quanto informati, nonché del vasto e mai superfluo apparato di annotazioni che riassumono un secolo e mezzo di critica, aver dato la possibilità di una nuova lettura di quelli che rimangono, comunque, tra i romanzi più conosciuti della letteratura moderna.
Germinal anzitutto. Come la polvere di carbone che ricopre i corpi esausti dei minatori nei cunicoli sotterranei di Montsou, uno strato altrettanto spesso di interpretazioni critiche si è sedimentato sulle pagine di questo immenso romanzo. Realismo, naturalismo, indagine sociologica, documento politico, racconto mitico o visionario, romanzo di formazione sentimentale e sindacale: sin dalla sua pubblicazione nel 1885, la critica ha tentato tutte le vie per scalare questa montagna di carta nera d’inchiostro e di carbone. Per piantare sulla sua cima il cartiglio che doveva riassumere la funzione essenziale della letteratura: indignare, commuovere, convincere, rivoluzionare, seminare speranza o gettare rassegnazione.
Sono vessilli che il vento della storia ha moltiplicato e stracciato allo stesso tempo. La tensione patriottica che attraversa l’opera di Zola si spegnerà nelle trincee di Verdun, Freud metterà fuori gioco la fisiognomica di Lombroso, il sole dell’avvenire socialista che sorge nelle ultime pagine di Germinal è tramontato negli ultimi decenni del secolo scorso. L’anonimo capitalismo contro cui si scatena la furia dei minatori ha proseguito, come la locomotiva della Bestia umana, la sua corsa devastante e trionfante; del loro sciopero omerico la storia ha fatto un vuoto rituale, e l’indignazione si è raffreddata in indifferenza. Dell’odio sociale che incendiava lo sguardo di Lantier non rimane che sordo rancore personale: buono tutt’al più ad assassinare la propria moglie, e non, come nel romanzo, a castrare il padrone. In fin dei conti, nessuna delle promesse ideologiche di cui l’opera di Zola sembrava essere portatrice è stata mantenuta.
E tantomeno risulta rispettata la funzione che lo scrittore assegnava al romanzo, radicalizzando l’ambizione che già era stata di Balzac: spiegare l’occulta dinamica che governa il destino di ciascuno ricorrendo alle teorie ottocentesche della genetica o della fisiognomica. Quella vena rossa, rosso sangue e non politico, che doveva collegare natura e destino in base alle leggi dell’ereditarietà, è un filo che si è rivelato senza resistenza. Il padre non spiega il figlio, le tare familiari sono come dadi lanciati in aria: quasi mai la Bestia lascia indovinare la sua presenza attraverso le apparenze esteriori, che siano i tratti del volto, la forma del cranio o l’indole personale.
La Bestia. Prima ancora che Zola la nomini nel titolo del suo romanzo ferroviario per designare la locomotiva che devasta i paesaggi che attraversa e i destini che la incrociano, essa è l’espressione metaforica della cieca, immensa e violenta forza che attraversa tutto il ciclo dei Rougon-Macquart, animando le masse come gli individui, declinando la passione politica in pulsione erotica e assassina, coniugando Eros e Thanatos in una rappresentazione della vita pubblica e privata che ha l’afflato di un moderno racconto mitologico ed epico. La Bestia sta al cuore dei romanzi di Zola, e in particolare di questi tre, come il Minotauro è accucciato al centro del Labirinto.
In Germinal, il Labirinto sarà il villaggio operaio di Montsou che ruota attorno al Voreux, la miniera, vorace già nell’etimo, nelle cui viscere inghiotte e divora una dopo l’altra generazioni di minatori, e che alla fine si allaga come una sorta di Stige furioso, consegnando le sue vittime all’implacabile Capitale, che placido attende in superficie.
Già i primissimi lettori di Zola, primo fra tutti Jules Lemaître, avevano riconosciuto in questi romanzi un afflato epico, e in Zola il primo creatore di moderni miti. La critica zoliana, tra le più fertili del secondo Novecento – si ricordino i grandi saggi di Henri Mitterand, Michel Serres, Philippe Hamon – ha molto insistito su questo aspetto, senza evitare sempre il rischio di sottrarre la rappresentazione della Bestia alla sua crudità, facendone una forza metastorica che investe l’Umanità prima che il proletariato, la Folla, intesa come moderno soggetto epico, più che il popolo.
La notte nera che, in apertura di Germinal, avvolge il protagonista che muove i primi passi verso il suo destino facendo risuonare la cadenza di un verso alessandrino, risulta, in questa prospettiva, la grande e nera tela di fondo su cui la lotta tra capitale e lavoro si staglierà come una tragedia greca – «lamento delle Tenebre» dirà Huysmans – prima ancora che come terribile dramma sociale.
Ora, è questa tela che, nelle sue tre ampie, rigorose e allo stesso tempo vibranti Introduzioni, Pierluigi Pellini invita a sollevare. Per scorgere dietro di essa lo sguardo feroce della Bestia e riconoscere in ognuno di questi romanzi anzitutto «il romanzo della Bestia che abita nell’inconscio sociale e nell’inconscio individuale di un’umanità refrattaria a ogni idealizzazione». Per non dire a ogni forma di redenzione, secondo la lezione di Schopenhauer. È la Bestia che, nutrendosi della sua fatica, logora il sangue del lavoratore, ne acceca la coscienza, procurando, nel corpo sociale, come in quello degli individui, le più inaudite violenze, le ferite più sanguinose, gli stupri più efferati. In Zola la miseria non è una piaga della società, è anzitutto piaga del corpo, tumefazione della pelle, ferita subita e inferta. E quindi esibita in tutta la sua umana nudità e disumana violenza affinché risulti in controluce, ma immensa e imperdonabile, la pressione alienante del lavoro cui è sottoposto il minatore, il contadino, il macchinista.
Questa lettura giustifica la selezione del Meridiano di recente uscita, che presenta, dopo Germinal, due dei più violenti, neri, addirittura truculenti romanzi dei Rougon. La Terra è il romanzo del mondo rurale, come La Bestia umana è dedicato a quello delle ferrovie. Sono entrambi dominati dalla figura dello squarcio: anzitutto di quel velo idillico che il romanzo ottocentesco aveva steso sul mondo contadino, nonché di quello tessuto dal mito del progresso che rivestiva il ferro della locomotiva per farne un destriero lanciato verso un radioso futuro. Ma di future prosperità, agricole o industriali, non vi è qui traccia. Di nuovo, solo tracce di ferite e stupri arrecati da contadini piegati alla – piagati dalla – feroce religione del possesso della terra, che è «erinni e non alma mater», da cui ogni contadino è posseduto, come in Verga, primissimo lettore di Zola. Tra i ferrovieri, ferite e delitti sono il frutto dell’abbrutimento dovuto a turni di lavoro massacranti per servire una macchina che si nutre, Minotauro meccanico, di fatica umana, bruciandola come carbone. E lasciando dietro di sé nella notte due fanalini rossi come tizzoni, gli occhi della Bestia.
Né di destra né di sinistra, l’opera di Zola si rivela in questi romanzi anzitutto sinistra: «la sinistra rappresentazione, scrive Pellini, di un’esistenza disumana». Disattese le promesse rivoluzionarie che gli erano state attribuite, quest’opera che non spiega, che non redime, in cui la fatica rende il bene e il male indistinguibili, dove tutti sono colpevoli, vale per quello che mostra, ciò che la letteratura come la buona coscienza dinanzi a ogni scena di miseria preferisce ignorare: il fondo nero della miseria umana, dove la devianza è norma e la sopraffazione regola. E vale per quel che non dice, ma che essa suscita: pietà, orrore e compassione. Come dirà Zola di Germinal, ma può valere per tutto questo grande Meridiano: «opera di pietà, non di rivoluzione».


“alias domenica – il manifesto”,17.1.2016

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