12.3.16

Il discorso della salute. La parola e il sintomo (Franco Voltaggio)

Italo Calvino, in una delle sue Lezioni americane, lamentava lo stato di confusione, di incertezza, di vero e proprio frastornamento, in cui siamo continuamente travolti dalla comunicazione mediatica (e non soltanto mediatica). Considerandolo un male esiziale, lo chiamava la peste del linguaggio. Riteneva urgente una cura avverso a questa epidemia e suggeriva la corretta terapia preventiva: «La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino la peste del linguaggio».
Perché la letteratura? In un tempo, in cui, fra tanti conflitti, ivi compresa una sciagurata «guerra preventiva», è del tutto assente una benefica rivolta dei libri - alludo alla suggestiva immagine di Swift (The battle of books), nella quale si scorgono i libri volare via dagli scaffali di una biblioteca e precipitare addosso a un lettore che li ha trascurati per troppo tempo - la risposta è insieme banale e intrigante. Banale, certamente, perché non c'è dubbio che una maggiore frequentazione della buona letteratura, praticata non solo dal pubblico, ma anche da tanti nostri scrittori, indurrebbe a pulire gli strumenti per comunicare. Intrigante, però, perché il comune lettore, anche attentissimo alle mille pieghe di un testo letterario, è troppo coinvolto nel quotidiano per transitare dalla chiarezza e dal nitore di un bel libro a un contesto, quello della sua e altrui esistenza, in cui si attendono «risposte tagliate sul bisogno», tali, perciò, da imporre discorsi essi stessi immediati e inevitabilmente superficiali.
Il grande scrittore denunciava la presenza di un morbo dilagante e credeva di proporne la cura. Ma il suo era, a ben riflettere, non molto diverso da un grido di dolore. Del resto, proprio Calvino soffrì, specie negli ultimi anni, di un costante fraintendimento, patologia tipica del linguaggio, la cui espressione più nota fu la sua polemica con Pier Paolo Pasolini. Dobbiamo questo ricordo del grande scrittore a due studiosi di Bari, Augusto Ponzio e Susan Petrilli, che, insieme a un foltissimo gruppo di studiosi, italiani e stranieri, di diversa estrazione disciplinare, saranno presenti a Spoleto (Chiostro di San Nicolò) al XXXII congresso dell'Associazione italiana di studi semiotici. Il congresso, sponsorizzato da diverse istituzioni e da due università (Palermo e Perugia) e organizzato dalla Fondazione Sigma Tau di Roma, inizia oggi e terminerà il 1 novembre. Tema: «Il discorso della salute». E' giusto che a occuparsene siano i semiotici (interverranno, tra gli altri, Umberto Eco, Alberto Abruzzese, Paolo Fabbri, Omar Calabrese, Gianfranco Marrone, Jacques Fontanille) perché la «salute» è, innanzitutto, una parola, che rinvia a un concetto, la cui definizione è nel contempo difficile, per non dire impossibile, ma necessaria. Come dire: «so che cosa è la salute, ma, se mi chiedi che cosa è, non lo so più. Tuttavia devo cercare di trovare una definizione magari imprecisa, ma almeno praticabile. Si tratta di una questione troppo importante per tutti perché valga la pena di preoccuparsi di chi ci potrebbe accusare di trastullarci in complicazioni linguistico-filosofiche, invitandoci a star buoni e ad accontentarci della definizione di salute fornita dall'Organizzazione Mondiale della Sanità - l'Oms la chiama, in buona sostanza, `assenza di malattia', una definizione che, a dir poco, lascia l'amaro in bocca. Perciò parliamone. Qualcosa verrà fuori». E' quanto si accingono a fare i congressisti. C'è da scommettere che per molti di loro sarà anche un divertimento. Specie se parlerà Eco, lo zar di tutte le semiologie, chi avrà la costanza di seguire l'intero convegno dirà alla fine «le congrès s'amuse» (il congresso si diverte). Poco importa, perché tra una divagazione e l'altra, verrà detto molto e di molto importante. Ma che cosa, in particolare?

Tra lingua e segno
Leggendo i numerosissimi abstract del convegno (di cui non è possibile dare qui un'indicazione anche sommaria) abbiamo individuato tre principali linee di trattazione: la parola «salute» e i suoi segni; l'individuazione nell'una e nell'altro della cura per star bene; la salute, buona o cattiva che sia, come spartiacque tra privato e pubblico. Cominciamo con la prima.
Nel sentimento collettivo la parola «salute» rinvia a una condizione soggettiva di benessere fisico e mentale, le cui spie (sintomi) sono un buon colorito, un'ottima qualità di vita, un umore buono, una prestanza fisica e, soprattutto, la percezione personale di sentirsi bene. A lungo, si può dire sino agli albori della contemporaneità, sembrava esserci una consonanza assoluta tra questa percezione e i segni manifesti del corpo: un colorito sano rinviava immediatamente all'idea di una buona salute. Ma forse, neppure allora, era così. Se, infatti, l'antico equivalente latino di «salute», valetudo, sembrava indicare questa alleanza tra soggettivo e oggettivo, tuttavia, celava un'ambiguità semantica poiché poteva connotare una patologia: ad esempio l'espressione valetudo oculorum segnalava una malattia degli occhi. In realtà, in questo, come in molti altri casi, questa straordinaria lingua coglieva nel segno. Valetudo designa, del resto, più precisamente, lo stato generale di salute, che, se buono, diventa spesso cattivo, il che, in buona sostanza, invitava medici e pazienti a non fidarsi delle apparenze e a stare «sul chi vive». Oggi, come ci conferma indirettamente Marrone, sappiamo che la saggezza latina aveva ragione. Vi sono altri segni del corpo, invisibili soprattutto per l'interessato, che la diagnostica strumentale mette in luce. E' forse raro il caso di un cancro polmonare bilaterale asintomatico (apprezzabile diagnosticamente senza difficoltà), tale cioè da lasciare nel malato la sensazione di «star bene»? Ma è, per l'appunto, questo l'inganno: «sentirsi bene» non è affatto sempre «star bene». Di qui la necessità di passare dalla parola al segno e di pervenire a censire tutti i segni (segnali) inviati dal corpo.
Sembra essere questa un'operazione esclusivamente medica, ma non è così. Dall'analisi dei contributi dei medici, dei semiologi e da molti antropologi culturali (ricordiamo, fra tutti, Tullio Seppilli), emerge un dato culturale di immensa importanza.: la medesima cultura, che ha dato origine alla medicina scientifica, ha prodotto l'irruzione delle medical humanities. In linea di principio, parrebbe esserci un'insuperabile distanza tra la medicina «dura», ancorata all'accertamento diagnostico dell'invisibile, e quell'inesausta indagine delle emozioni, che è la psicoanalisi. Certamente è difficile convincere, ad esempio, un cardiologo o un urologo, che quanto accerta con l'uso della diagnostica strumentale può trovare riscontro nel vissuto emozionale del paziente, ove questo vissuto venga ricostruito nel setting analitico, in cui «parla l'inconscio». All'inverso è altrettanto difficile convincere quanti si battono per una neoumanizzazione della medicina che il regard médical dello specialista ha una sua ragion d'essere e, per di più, una ragione squisitamente umanistica, perché rinvia all'antica passione, altrettanto umanistica, di scoprire l'invisibile, già nutrita da Malpighi e Morgagni. Il reale ci viene sciorinato con tale luminosità da richiedere soltanto un po' di coraggio intellettuale per osservarlo. A questo punto non crediamo che occorra davvero molto, operando l'alleanza (stavolta davvero santa) tra medicina scientifica e psicoanalisi, per mettere a punto una grammatica dei segni in cui venga esplorato un duplice invisibile, la rovina interna del corpo e l'inconscio.

Le vie della guarigione
Nella tradizione sciamanica segni e sintomi non sono solo la facies manifesta della malattia, ma anche le vie della guarigione, poiché in essi lo sciamano vede le tracce dello spirito maligno, il che gli permette di evocarlo e combatterlo. Più spesso, tuttavia, la kamlanie (la seduta terapeutica dello sciamano) è soprattutto un processo di mediazione: il guaritore viene a patti con lo spirito che, a un certo punto, si dichiara disposto a lasciare il corpo del paziente, a condizione che gli si conceda qualcosa. Se adottiamo questa mediazione come una metafora, forse riusciamo a individuare un aspetto nascosto della malattia. In linea di principio - almeno così ci dice tutta la tradizione medica occidentale - una patologia è in prima istanza una reazione, un segno di vita, se non addirittura la vita stessa, tanto più viva, quanto più esasperata. E allora, perché non studiarne il suo svolgersi (come del resto qualunque buon medico fa) per apprestare la strategia terapeutica, ma, soprattutto per insegnare a chiunque, in particolare al comune malato, non tanto a vivere con la malattia, quanto a studiarla come chiave di decifrazione del vissuto?

Spartiacque tra pubblico e privato
Uno speciale aspetto dello stato di una persona, che versi in «cattiva salute», è di trovarsi contemporaneamente in tre distinte dimensioni, quella della malattia oggettivamente riscontrata (che ha un interesse prevalentemente medico), quella del «sentirsi male» e quella, infine, dell'esser visto e contattato da tutti gli altri come «malato». Tra le lingue moderne, la sola che le definisce con chiarezza, individuando una parola giusta per ciascuna di esse, è l'inglese. La prima dimensione è la disease, la seconda la illness, la terza la sickness. Il primo e il terzo vocabolo rinviano alla percezione altrui, il secondo ovviamente a uno stato soggettivo. A prima vista, questa distinzione investe unicamente il mondo delle emozioni. L'individuo in sickness desta sentimenti contrastanti, pietà, compassione, ma anche ripugnanza e paura (nettissima nel caso di disordini mentali) e, per quanto concerne il medico che tratta il soggetto in disease, i suoi affetti possono oscillare tra una benevolenza blanda e una sostanziale indifferenza. In realtà il problema che coinvolge tutti i soggetti interessati è anche e soprattutto un problema di comunicazione, fondamentale perché da una buona comunicazione spesso dipende l'esito della cura. Si tratta, perciò, di una questione cruciale che, comunque, non può essere affrontata con la semplice buona volontà. Riguarda, infatti, la preparazione del medico, anche e soprattutto linguistica (nel senso ampio dell'aggettivo, perché gli richiede la conoscenza di tutti i segni e, insieme, l'approntamento di parole e gesti che siano in grado di farlo comunicare con il malato). Esige, in misura decisa, un'eguale preparazione dei familiari che non possono essere linguisticamente atti alla bisogna se educati, come oggi è, in una società sciatta. A parlare, e già a monte, nel modo giusto, devono essere perciò la società e le sue istituzioni. A questo punto, il malato può diventare un'occasione preziosa di crescita collettiva, uno spartiacque tra pubblico e privato. Alla fine, non vien fatto di dire: ancora una buona filosofia del linguaggio, un'avveduta semiotica per il progresso dell'umanità?


il manifesto”, 29 ottobre 2004

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