1.3.16

La psicanalisi nel postmoderno (Remo Cesarani)

Siamo ormai in molti a sostenere (suscitando, ovviamente, non poche opposizioni e pareri in contrario) che a metà del secolo scorso, negli anni Cinquanta e Sessanta, c'è stata, nella storia dei paesi a capitalismo avanzato, una frattura, un grande salto epocale, che ha trasformato radicalmente i rapporti economici tra i soggetti in campo, i modi della produzione, le tecniche della distribuzione e della comunicazione, le abitudini e concezioni di vita, le culture, i nostri immaginari. Il quadro della periodizzazione storica ne è uscito trasformato: un primo lungo periodo, iniziato con il salto epocale della «modernità» tra Sette e Ottocento, proseguito nel secolo «breve» del Novecento (nel quale va a ricollocarsi anche la rivoluzione freudiana) e un secondo periodo, inaugurato dopo la metà del Novecento, a cui abbiamo convenuto di dare il nome di «postmodernità».
Di fronte a un cambiamento di tale portata, che ha avuto conseguenze profonde sui nostri modi di pensiero, sulla nostra percezione del tempo e dello spazio, sul nostro stesso essere e atteggiarci nel mondo, e che ha provocato grandi trasformazioni in gran parte dei nostri paradigmi culturali, come si pone la psicoanalisi? E’ un interrogativo al quale sono già stato sollecitato a rispondere in occasione dell’uscita di un numero speciale della rivista «Psiche» intitolato Il secolo della psicoanalisi che fu seguito da una pubblica discussione, a Padova.
La constatazione di un fatto storico di grande rilievo, da sola rende vacue tutte le operazioni che ragionano in termini di «centenario», di «secolo della psicoanalisi», e simili. Non c’è dubbio, mi pare, che la psicoanalisi, come movimento di pensiero e ambizioso progetto di liberazione della vita umana dal dolore e della civiltà dai suoi traumi originari e dalle sue persistenti storture, sia stata una delle espressioni più autentiche della ’modernità’, non a caso nata in quello straordinario laboratorio che è stata Vienna (accanto a Parigi e Londra, e in gara con esse) all’inizio del Novecento.
Il soggetto che viene posto al centro del lavoro analitico è, per ipotesi e per definizione, un soggetto modernamente forte, nonostante le interne lacerazioni e frammentazioni provocate da pulsioni profonde e da repressioni e censure provenienti le une e le altre da elementi strutturalmente e conflittualmente costitutivi della sua stessa soggettività. Il soggetto si pone come obbiettivo di comprendere quelle pulsioni e censure e trovare un equilibrio su un piano di forza e maturità superiore. La storia di sé che costruisce si presenta certamente sotto la forma di un modello narrativo lineare e totalizzante, quella che, con il linguaggio di Lyotard, possiamo chiamare una «grande narrazione» e che molte delle filosofie ed epistemologie contemporanee hanno messo in discussione. Possiamo anche aggiungere che mentre la psicoanalisi, nel corso di questo secolo, si è consolidata come pratica clinica, ha prodotto un ventaglio molto ampio di scuole, saperi, riforme e controriforme, ha offerto modelli di metodo interpretativo e nuclei di conoscenza a una quantità di altre discipline, tuttavia sembra non avere realizzato sino in fondo il suo obbiettivo più ambizioso: quello di contribuire (al pari di altri grandi slanci e progetti della modernità) a un reale avanzamento della ’civiltà’ umana. Come per quegli altri progetti, lo slancio è rimasto sospeso a mezz’aria. E ora, anche per la psicoanalisi si pone il problema se sia possibile recuperare quello slancio e quei progetti rimasti in sospeso, e in che modo, dentro la nuova condizione che ci è data.
Certo, bisogna riconoscere che la psicoanalisi, proprio perché così fortemente connotata e radicata nella modernità, ha conservato intatto un suo nucleo forte di impegno epistemologico e conoscitivo. Investita, come gran parte delle altre attività e discipline, dai processi di mercificazione che hanno largamente trasformato la nostra cultura (provocando, appunto, una sua riduzione a merce) ha ceduto molte frange e accettato qualche compromesso, ma molti ne ha rifiutati; nel complesso ha resistito bene.
Il soggetto che ora l’analista ha di fronte non è più lacerato o frammentato, forse neppure più stratificato come con metafora archeologica sosteneva la psicoanalisi classica, forse neppure sdoppiato e contraddittorio come con una metafora matematicologica e biologica sosteneva Ignacio Matte Bianco. È un soggetto debole e sfuggente, ha molto meno profondità e spessore, sembra quasi appiattito sulla sua superficie, che diventa per lui come un sottile specchio in cui si contempla come Narciso; è immesso in una rete di esperienze e percezioni veloci e multiformi, anch’esse deboli e passeggere. Anche il suo corpo è cambiato: è un aggregato di parti che fanno capo ciascuna a una medicina e una cosmesi diversa e specializzata, sostituibili attraverso i trapianti, manipolabili e modificabili attraverso la chirurgia plastica. Il suo corpo può ogni giorno prendere una forma diversa, assumere un look secondo la moda o la bizzarria del suo proprietario. Il mercato dei corpi e delle cliniche che li manipolano li trasforma in un insieme scoordinato di protesi e feticci. I gabinetti di ricerca delle industrie farmaceutiche, quelli più artigianali che producono le sostanze stupefacenti, mettono a disposizione del corpo pillole miracolose che trasformano le sue sensazioni, controllano le sue euforie e depressioni.
Le trasformazioni nel modo della produzione e nei rapporti fra produzione e consumo hanno a loro volta cambiato in forma radicale il mondo del lavoro e le forme dell’alienazione, e anche il rapporto tra lavoro e tempo libero: il nuovo soggetto, in molti dei lavori che fa (compresi quelli sempre più numerosi e differenziati appartenenti al terziario, alla comunicazione, all’intrattenimento, all’industria culturale) appare al tempo stesso molto più direttamente coinvolto nel processo della produzione e molto più isolato e parcellizzato dentro una rete ampia e inafferrabile di rapporti impalpabili, dentro una microfisica di relazioni, dati ed elaborazioni immateriali. Inoltre, il rapporto del nuovo soggetto con le strutture di potere (quelle della famiglia, quelle sociali) è anch’esso dominato da forze incontrollabili ed eterodirette. Il potere, secondo la diagnosi di Foucault, ci produce e però è sempre fuori dalla nostra presa: la metafora che esprime questa improvvisa mancanza di punti di orientamento e di presa è quella dell’impressione che non sia il cane a muovere la coda, ma la coda a muovere il cane.
La storia si riduce, per questo nuovo soggetto umano, a un perpetuo presente, senza gli insegnamenti del passato e senza le speranze del futuro. È, per usare l’espressione di Althusser, «un processo senza soggetto». La vita di relazione, quella degli affetti, ne risulta trasformata. Le ideologie, che erano anch’esse, nella loro forte capacità strutturante dei comportamenti individuali e collettivi, una delle caratteristiche principali della modernità, non sono, come spesso si sente dire, «finite», ma sono state sostituite da un’unica ideologia uniformante, omologante, potentemente silenziosa: l’ideologia della fine delle ideologie.
Ebbene, mi domando, può la psicoanalisi continuare a usare i suoi strumenti interpretativi e a praticare i suoi obbiettivi di decifrazione, ricostruzione, reintegrazione nella vita di relazione di un soggetto che vive in questa nuova condizione? Detto altrimenti: è possibile che degli strumenti di analisi creati, messi a punto e affinati per operare in una determinata condizione storico-sociale, vengano applicati a una situazione storico-sociale radicalmente diversa?
In favore di una risposta positiva stanno due considerazioni: 1) quegli strumenti costituiscono un modello euristico forte ma anche molto flessibile, come è dimostrato sia dalle esperienze del maestro viennese, che ha proceduto continuamente per ripensamenti, revisioni, aggiunte, sia, paradossalmente, dalla storia tumultuosa e spesso rissosa delle scuole psicoanalitiche, che si sono scontrate per anni e decenni proprio sui problemi del mantenimento ortodosso del modello o delle tante proposte di revisione; 2) capita a volte che la storia del pensiero e della scienza producano strumenti conoscitivi che sembrano nascere in un momento di distacco, di presa di distanza -Kenneth Burke avrebbe detto di «perspective by incongruity» - rispetto ai problemi e alle situazioni della contingenza storica in cui sono stati creati, e acquistare quindi un valore probabilmente non assoluto e totale, ma potenzialmente molto esteso e forte, e un’applicabilità a situazioni storiche molto diverse.
Questo credo si possa dire del modello di interpretazione freudiano della vita psichica dell’uomo e anche, nonostante le caducità storiche e le molte trasformazioni intervenute, anche del modello marxista di interpretazione della vita economica e sociale (anch’esso prodotto tipico della modernità, anch’esso messo in discussione a seguito della trasformazione postmoderna).
La forza del modello freudiano e di quello marxista credo stia nel fatto che entrambi hanno un referente esterno alla pura dialettica del rapporto fra momento storico da interpretare e soggetto interpretante, l’uno nella densa realtà della vita psichica, l’altro in quella della vita sociale, entrambe fornite di una lunga storia e di una certa autonomia.
Devo aggiungere un’avvertenza. Quei modelli freudiano e marxista di cui qui parlo sono strumenti complessi, flessibili, dotati di forti potenzialità ermeneutiche: non sono e non vanno ridotti al rango di metodi. L’idea del metodo come una utility intercambiabile, acquistabile nel grande super-mercato dei metodi, applicabile a piacere alle più diverse situazioni, secondo le circostanze e un pragmatismo abbastanza banale, è un’idea molto diffusa, perfettamente congeniale all’ideologia dominante nell’età postmoderna. La psicoanalisi può dare un contributo importante, con il suo distanziamento prospettico, di comprensione della nuova condizione di vita e dei nuovi soggetti sociali, in un mondo che sembra apparentemente molto facile da capire e però è straordinariamente complesso e sfuggente, solo se mette a disposizione tutto l’insieme delle sue capacità e procedimenti interpretativi, senza irrigidirsi e semplificarsi in questo o quel metodo, mostrandosi fedele a se stessa e al tempo stesso molto flessibile.


“il manifesto, 24 agosto 2000

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