6.4.16

Carlo Dossi. Il Dandy e il suo lettore (Alberto Arbasino)

Quello che segue è un magnifico saggio di critica militante. Attraverso le citazioni di un libro di Dossi, appena riscoperto e ripubblicato, Arbasino difende i capricci dello stile contro i pedanti di ogni tempo e mostra le origini remote di discussioni che sembrano nate oggi perché periodicamente ritornano. (S.L.L.)
Carlo Dossi
Virulento, sulfureo, densissimo, il «Margine alla Desinenza in A» di Carlo Dossi riprende con risentimento intatto, anzi aggravato, la «Rinunzia avanti notajo degli autori del Caffè al Vocabolario della Crusca» (fonte remota anche del ’plurilinguismo’ gaddiano). Come se l’abbondante secolo trascorso, con tutto quel Manzoni, fra i Verri e il Dossi non avesse minimamente scalfito le esigenze linguistiche dei gentiluomini lombardi cosmopoliti (illuministi o decadenti) abituati a frequentare idee e idiomi europei, e i-norriditi dal provincialismo autarchico dei vecchi panni sciacquettanti nel fiume delle rificolone e degli ovvìa. I segnali sembrano paradossalmente analoghi: «Se le cognizioni umane dovessero stare ne’ limiti strettissimi che gli assegnano i Grammatici, sapremmo bensì che Carrozza va scritta con due erre, ma andremmo tuttora a piedi» (A. Verri, 1764). «Pur di non dire ’vagone’ avrebbero sempre viaggiato in vettura» (C. Dossi, 1884). Ma la divaricazione delle esigenze risulta poi madornale fra la richiesta illuministica di strumenti comunicativi sempre più ’aggiornati’ con l’Europa dei Lumi, dell’Enciclopedia, della fede nel Progresso irreversibile - e la ricerca decadente di tecniche rappresentative sempre più ’espressive’, fino a raggiungere l’Espressionismo stesso.
Paleo-espressionista drammatico, Dossi rivive anche più spiritata la revulsione dell’avanguardia ’scapigliata’ contro «tutti coloro che possedevano fede accademica di miserabilità intellettuale», cioè «coloro che, non sapendo far libri, facevano dizionari e s’inquietavano per la corrotta italianità e pei dialettismi non trattenuti da alcuna forca e per le stesse nuove scoperte apportatrici di vocaboli nuovi». Nelle battaglie per lo sperimentalismo linguistico, l’antico gentiluomo beneducato combatte da terrorista: «Erano, in gergo scientifico, chiamati cultori della istruzione, forse perché incaricavansi di strappare le pianticine novelle per vedere se mettean bene radice. Rondavano in avvisaglia, con passo di sughero, e quando accorgevansi che qualche scrittore cercava introdurre nei grammaticali confini da essi riputati propri, merce non nominata nelle loro tariffe, lo attorniavano, assaltavamo, arrestavamo schiamazzando quali oche». «E 'quella è di legge', 'questa è di contrabbando', affannavansi, que’ gabellieri, a sfilare e palpare ogni parola di un libro, a stemperare, entro i lor stacci, i periodi di un povero autore finché ne colasse una broda completamente sciapa, incolora, inodora. Né, per essi, serviva la scusa dell’analogia, la raccomandazione del buon senso, l’invito della necessità». «A guisa infatti degli arabi che coi cadaveri inquinan le fonti dei loro nemici, mirano i critici, cogli autori morti, a spegnere i vivi».

E SONO molto precise, le rivendicazioni. «Permettendo, ad esempio, l’onomatopeico 'cricch' perché si leggea a pagina tale, linea tal’altra del lor ricettario, proibivano irremissibilmente il suo stretto parente 'cracch', non trovandosi esso in nessuna parte del mastro del loro sapere». «L’ottimo autore, secondo tali notai spacciantisi per legislatori, non dovea aver orecchio che pei rumori e pei suoni protocollati, udir quindi eternamente la zampogna e il liuto, non il pianoforte mai». Ma non soltanto la ’serrata’ puristica toscana-egemone impedisce alla lingua e alle idee dell’Italia unita (e carducciana) di mettersi al corrente con qualunque modernità europea, per questo guerrigliero delle minoranze linguistiche settentrionali, ormai di confine. Rischia di azzerare addirittura la memoria lombarda collettiva, e viscerale, giacché non include né ammette proprio i piatti più campanilistici e più cari: «Poiché Arno non diede l’aqua con cui fu bollito il proto-risotto ed impastato il capo-stipite dei panettoni, Milano era tenuta di abolir senza più quelle sue antiche ghiottonerie non previste dalle edizioni 'dal miglior fior ne coglie' per non mettersi a rischio di nominarle, salvoché non si fosse addattata a sostituirvi i più leggittimi nomi di ’riso giallo’ e di 'pan balestrone'».
Ma la remota rivolta pre-espressionistica del Dossi contro i fiscalismi del purismo ottocentesco — e dunque contro ogni tentazione futura di «ritorno all’ordine» e di «bella pagina» novecentesca tutta neoclassicismo e rondismo e ’nitore’ — non si limita a «ripetere che la lingua nacque prima della scrittura e l’una e l’altra inanzi la regola». Suona tanto nostra contemporanea, piuttosto, perché tratta insieme, e con chiarezza vertiginosamente anticipatrice, del «realismo in arte» e della «incolpata oscurità» (o «bujezza») della scrittura.

REALISMO? Dossi immediatamente aggredisce la «spilorcia interpretazione» per cui «quel frasone empibocca» dovrebbe poi soltanto significare «là a titolo d’onore, qua di disdoro, quella parte soltanto di letteratura che studia e descrive le voluttà della carne e le turpitudini umane». Macché. Al realismo o verismo possono appartenere con pari diritto la cloaca e il roseto, l’eroe e il bordello. «Della realtà fanno parte integrante e l’illusione ed il sogno e la fede e lo stesso idealismo». E come si sarebbe poi ripetuto per un secolo, agli esami universitari di crocianesimo puro o applicato e nelle aule giudiziarie di porcelleria filmica, «nelle tre arti non sappiamo vedere che una questione sola, quella del brutto e del bello, senza riguardo né a scuole né a scopi. Se ci sono però buontemponi che voglion scaldarsela per quel letterario atteggiamento, che è, come affermano, diretto ad virgam erigendam (...) non ci parlino altro che di ’carnalismo’ ».
«Senonché, carnalismo non vuole ancor dire immoralità. Se le leggi divine impongono, se le umane favoriscono, le une e le altre improvvidamente, la procreazione della specie, non vi dovrebbe essere arte più leggittima e più commendevole di quella che risveglia ed instiga la foja generatrice, o, come dicevano i nostri antichi, lumbum intrat. Tuttavia, c’è un inconveniente. Le opere letterarie, anche le più scollacciate, quando raggiungono la perfezione non commuovono che il cielo dell’animo. La voluttà intellettuale soffoca la carnale». E come se Baudelaire e Wilde rivoltassero la frittata crociana già nel decennio dei Malavoglia, delle Odi barbare, delle Novelle della Pescara: «La smania sessuale è in natura; ha dunque diritto di avere anch’essa la sua sede nell’arte; l’invito del sesso però non forma tutta la vita; manchevole quindi sarebbe quella letteratura che si occupasse esclusivamente (perdonate la frase) dei propri inguini non istudiando che di renderli appariscenti, né più né meno dell’altra che si cappona per procurarsi una voce d’angelo».
(Quanto buon senso illuministico, insomma, dietro l’eccentricità 'scapigliata'; e con quale profitto un autore così ’capriccioso’ e ’appartato’ potrebbe venir studiato per sgonfiare i falsi i problemi di pudore e censura tribunalizia, riportando i dibattiti decennali su erotismo e pornografia ai loro termini più concreti e pratici). «Chi ama le comedie prive di sesso ha i teatri suoi, ha i burattini, dove può assistere senza pericolo alcuno, da quello all’infuori di addormentarsi, anche al ballo. Per i poveri d’intelligenza provvede la caldaja dei frati. L’aqua non costa nulla e rinfresca».
E lo scrivere «avvolto ed oscuro»? «Una letteraria virtù, miei signori: la densità delle idee». Dossi, un secolo fa, sembra anticipare, con una ironia che viene di lontano, le tragicomiche dispute sui poteri del padrone che possiede più parole e dunque più idee, o sui «lessici di base» che limitano il corredo linguistico delle classi subalterne a un fabbisogno insufficiente per qualsiasi necessità primaria nella vita quotidiana. «Tutti veggono — meno i critici dalle acute pupille nella collottola — come sia oggi impossibile ad un autore, che al manubrio dell’organetto preferisca l’arco del violino, di scrivere precisamente come quando il patrimonio delle idee era di gran lunga più scarso dell’attuale e pisciàvasi chiaro perché non si beveva che aqua, compreso il vino. Bastava allora di esprimere ciò che il cuore individuai suggeriva e la lingua materna imboccava; ciascun paese viveva, per conto suo, dei frutti esclusivi del proprio suolo e , del proprio pensiero...» «Senonché, oggi, si mutò stile: siamo figli di esploratori, e viaggiatori noi stessi, e, in quella maniera che da occidente ad oriente, dal polo antartico all’artico, s’incrociano e mescolano tutti i prodotti del globo, tra cui massimo l’uomo, giran le idee più ancora liberamente e si sposano e ne creano altre, prolifiche come infusori. E’ una tendenza generale, questa, che né le politiche tariffarie ed i cannoni dei governanti, né gli ohimè dei grammatici e gli esorcismi dei preti sanno o potranno frenare. I mercati del mondo gravitano a fondersi in uno solo». (Ma Gadda, poi, come se proprio del Dossi stesse parlando, e non di sé: «...forse lambiccava rabbioso dalla memoria una qualcheduna di quelle sue parole difficili, che nessuno capisce- di cui gli piace d’ingioiellare una sua prosa dura, incollata, che nessuno legge»...)

ED ECCOCI dunque al luogo decisivo: Stile, e Mercato (e struttura, e narratività, e pubblico). «Uno stile che fosse una rotaja inoliata sarebbe la perdizione de’ libri miei. Uno invece a viluppi, ad intoppi, a tranelli, obbligando il lettore a proceder guardingo e a sostare di tempo in tempo, segnala cose che una lettura veloce nasconderebbe». (Che Spitzer! Quale formalismo russo! Quante annate della rivista Communications!) «Non nego che una favola concitata, densa di colpi di scena, irritante la curiosità, incalzante la lettura, sia la maggiore fortuna, anzi la dote sine qua non per un romanzo sprovvisto di ogni sapore di stile e d’ ogni potenza d’idea...» «Nei libri, invece, in cui gli avvenimenti narrati sono un mero pretesto ad esprimere idee ed una occasione di suggerirne, deve l’intreccio sì esistere ma non troppo apparire, dee contentarsi di fare, non da ricamo, ma da canovaccio, adducendo carezzosamente il lettore sino alle ultime pagine, quale comodo cocchio da viaggio che permette di osservare il paese, non già traendovelo turbinosamente quale rozza infuriata».

E LA fruizione? Gli utenti? «Il pubblico di un letterato non è già quello dell’uomo politico e del canterino, pei quali è indispensabile e folla e contemporaneità di fautori; non ne occorrono a lui né migliaia, né centinaia e neppure ventine in un tratto: gliene bastano pochi, uno anche, purché siano degni, a loro volta, di lode e purché si succedano — sentinelle d’onore del nome suo — fino al più lontano avvenire. La votazione per la durevole gloria di un artista non si chiude in quel medesimo giorno in cui viene proposta, ma le urne rimangono aperte nei secoli». (La buona educazione classico-romantica non si butta certo via...) «L’applauso della moltitudine scompare colle mani che l’hanno prodotto e anche prima, mentre il lauro, piantato dai pochi intelligenti sulla tomba del meritevole e con sollecito amore educato, non cessa di crescere e si rafforza con gli anni». (E se non è Grande Dandysmo questo...) «Ciò che crea la moda, la moda pur spazza via». («Chiuso nella perfezione della resa per così dire descrittiva della sua sfera immobile di malinconie e di capricci, vien fuori in Lombardia Carlo Dossi» scriveva perfettamente il Contini. Perfettamente: vien fuori adesso).

“la Repubblica”, 8 maggio 1981

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