8.4.16

Il preside Cavallo (S.L.L.)

Il preside Angelo Cavallo
Il preside Cavallo, a detta dei suoi allievi di un tempo, era stato un ottimo insegnante di Scienze e anche da preside rivelava qualità importanti: energia, attenzione ai particolari e grande integrità. Si parlava, tuttavia, di una sua esperienza di ufficiale nell'esercito che condizionava la sua direzione nell'esigenza rigida, al limite della pignoleria, di ordine, pulizia, rispetto delle regole.
Era proibito per esempio "andare a gabinetto" (allora non si usava dire “andare al bagno”) fino alla ricreazione delle 10 e 25 e nell'ora successiva, salvo esigenze documentate con certificato medico. Qualche eccezione era prevista per le ragazze nell'età della crescita, ma per i maschi era quasi impossibile. Succedeva che qualche professoressa o professore, in un momento di distrazione, concedesse il permesso, ma per raggiungere i cessi dalla propria aula in molti casi era indispensabile passare con gravi rischi davanti alla presidenza, sulla cui soglia Cavallo a volte sostava per controllare il buon andamento delle attività. Si raccontava - ma forse era una fantasiosa, giovanile invenzione -che una volta avesse bloccato uno studente davanti all'ingresso della ritirata allargando le gambe e dicendo: “Di qua non si passa”.
Altro divieto era il correre per le scale al termine delle lezioni: noi di Campobello e quelli di Naro eravamo tra i più scalmanati per potere prendere il primo degli autobus. Una volta s'affacciò di persona a gridare che “la scuola è un tempio”; spesso c'era un bidello, il vecchio “zio Nino” o un tal Di Bilìo se non ricordo male, a frenarci.
Il liceo-ginnasio “Foscolo” di Canicattì era una piccola scuola, con una dozzina di classi e meno di trecento alunni: a tutti perciò capitava una volta o l'altra di dover passare dal preside per una giustificazione o un permesso. Raccontano che usasse il sarcasmo per rimproverare le ragazze e i ragazzi del quarto e quinto ginnasio e perfino quelli del liceo, quando intravedeva il nero sulle unghia. Pretendeva che venissero mostrati i dossi delle mani e domandava: “Sei a lutto?”.
Sistematicamente controllava, dal suo registro ove i papà (c'era ancora il capofamiglia) avevano apposto la firma, l'autenticità delle giustificazioni delle assenze e, se s'insospettiva, chiedeva la presenza paterna per riammettere in classe l'allievo. Intorno a questa prassi fiorì una ricca aneddotica. A me capitò una congiuntura fortunata: mio padre, quando premetteva il nome al cognome usava allungare in basso la C del suo Calogero, fino a sottolineare l'intera firma, cosa che non gli accadeva quando firmava Lo Leggio Calogero. Nel registro del Preside aveva usato questa seconda firma, probabilmente indirizzato dall'ordine alfabetico che lo governava. Quando una volta il Preside vide quella lunga C immaginò una firma non autentica e pretese per l'indomani che io venissi accompagnato da mio padre. Egli s'infastidì e innervosì molto per la richiesta perché disturbava la sua attività di commerciante di prodotti per l'edilizia nelle prime importantissime ore del mattino, ma anche perché vedeva offesa la mia onestà. Davanti al preside che gli illustrava la ragioni della chiamata uomo era e Lucifero diventò, gli disse: “Pensa che mio figlio sia così imbecille da falsificare la mia firma con una differenza tanto evidente? Crede che la gente abbia tempo da perdere?”. Cavallo riconobbe l'errore e da allora, tutte le volte che andavo a giustificare una assenza, tralasciò il controllo della firma. Ne approfittai di rado, ma anch'io per due o tre volte negli anni di liceo feci “calia” per fare compagnia a un amico che voleva marinare la scuola ma aborriva la solitudine.
La cosa più caratteristica del preside Cavallo nei suoi contatti disciplinari era l'interrogatorio incalzante, su cui talora perdeva il controllo.
Ricordo un mio arrivo in ritardo:
“Come mai arrivi alle nove?”.
“Ho perso l'autobus”.
“Perché hai perso l'autobus?”.
“Non ho sentito la sveglia”.
“Come sei venuto?”.
“Con un passaggio, in macchina”.
“Che macchina era?”.
Rammento di aver risposto “una seicento”, ma credo che anche lui si rendesse conto dell'incongruità dell'ultima domanda, per cui autorizzò l'ingresso e mi licenziò.
La scena più divertente accadde quando una volta – andavo in terzo liceo – arrivammo in ritardo in gruppo tutti quelli di Campobello e Ravanusa, trenta e più tra ragazze e ragazzi. A Ravanusa e Campobello splendeva il sole, ma, giunti alla stazione del bus, a Canicattì ci sorprese una pioggia intensa. Restammo lì per un'ora e più; raggiungemmo la scuola che si trovava un po' lontano, quasi alla sommità della salita di Borgalino, dopo le nove e mezza, a seconda ora iniziata. Entrammo tutti insieme nell'ampia presidenza e a me, che ero all'ultimo anno, toccò di parlare per tutti.
Il preside Cavallo chiese:
“Perché siete così in ritardo?”.
“Perché pioveva”.
“E perché non avete portato l'ombrello?”.
“Perché a Campobello non pioveva”.
“E perché non pioveva?”.
Il “burbero benefico” si rese conto per primo di avere sbagliato il destinatario della domanda e rise di cuore della sua gaffe, come ne ridemmo noi, che andammo in classe più allegri.

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