Il preside Angelo Cavallo |
Il preside Cavallo, a
detta dei suoi allievi di un tempo, era stato un ottimo insegnante di
Scienze e anche da preside rivelava qualità importanti: energia,
attenzione ai particolari e grande integrità. Si parlava, tuttavia,
di una sua esperienza di ufficiale nell'esercito che condizionava la
sua direzione nell'esigenza rigida, al limite della pignoleria, di
ordine, pulizia, rispetto delle regole.
Era proibito per esempio
"andare a gabinetto" (allora non si usava dire “andare
al bagno”) fino alla ricreazione delle 10 e 25 e nell'ora
successiva, salvo esigenze documentate con certificato medico.
Qualche eccezione era prevista per le ragazze nell'età della
crescita, ma per i maschi era quasi impossibile. Succedeva che
qualche professoressa o professore, in un momento di distrazione,
concedesse il permesso, ma per raggiungere i cessi dalla propria aula
in molti casi era indispensabile passare con gravi rischi davanti
alla presidenza, sulla cui soglia Cavallo a volte sostava per
controllare il buon andamento delle attività. Si raccontava - ma
forse era una fantasiosa, giovanile invenzione -che una volta avesse
bloccato uno studente davanti all'ingresso della ritirata allargando
le gambe e dicendo: “Di qua non si passa”.
Altro divieto era il
correre per le scale al termine delle lezioni: noi di Campobello e
quelli di Naro eravamo tra i più scalmanati per potere prendere il
primo degli autobus. Una volta s'affacciò di persona a gridare che
“la scuola è un tempio”; spesso c'era un bidello, il vecchio
“zio Nino” o un tal Di Bilìo se non ricordo male, a frenarci.
Il liceo-ginnasio
“Foscolo” di Canicattì era una piccola scuola, con una dozzina
di classi e meno di trecento alunni: a tutti perciò capitava una
volta o l'altra di dover passare dal preside per una giustificazione
o un permesso. Raccontano che usasse il sarcasmo per rimproverare le
ragazze e i ragazzi del quarto e quinto ginnasio e perfino quelli del
liceo, quando intravedeva il nero sulle unghia. Pretendeva che
venissero mostrati i dossi delle mani e domandava: “Sei a lutto?”.
Sistematicamente
controllava, dal suo registro ove i papà (c'era ancora il
capofamiglia) avevano apposto la firma, l'autenticità delle
giustificazioni delle assenze e, se s'insospettiva, chiedeva la
presenza paterna per riammettere in classe l'allievo. Intorno a
questa prassi fiorì una ricca aneddotica. A me capitò una
congiuntura fortunata: mio padre, quando premetteva il nome al
cognome usava allungare in basso la C del suo Calogero, fino a
sottolineare l'intera firma, cosa che non gli accadeva quando firmava
Lo Leggio Calogero. Nel registro del Preside aveva usato questa
seconda firma, probabilmente indirizzato dall'ordine alfabetico che
lo governava. Quando una volta il Preside vide quella lunga C
immaginò una firma non autentica e pretese per l'indomani che io
venissi accompagnato da mio padre. Egli s'infastidì e innervosì
molto per la richiesta perché disturbava la sua attività di
commerciante di prodotti per l'edilizia nelle prime importantissime
ore del mattino, ma anche perché vedeva offesa la mia onestà.
Davanti al preside che gli illustrava la ragioni della chiamata uomo
era e Lucifero diventò, gli disse: “Pensa che mio figlio sia così
imbecille da falsificare la mia firma con una differenza tanto
evidente? Crede che la gente abbia tempo da perdere?”. Cavallo
riconobbe l'errore e da allora, tutte le volte che andavo a
giustificare una assenza, tralasciò il controllo della firma. Ne
approfittai di rado, ma anch'io per due o tre volte negli anni di
liceo feci “calia” per fare compagnia a un amico che voleva
marinare la scuola ma aborriva la solitudine.
La cosa più
caratteristica del preside Cavallo nei suoi contatti disciplinari era
l'interrogatorio incalzante, su cui talora perdeva il controllo.
Ricordo un mio arrivo in
ritardo:
“Come mai arrivi alle
nove?”.
“Ho perso l'autobus”.
“Perché hai perso
l'autobus?”.
“Non ho sentito la
sveglia”.
“Come sei venuto?”.
“Con un passaggio, in
macchina”.
“Che macchina era?”.
Rammento di aver risposto
“una seicento”, ma credo che anche lui si rendesse conto
dell'incongruità dell'ultima domanda, per cui autorizzò l'ingresso
e mi licenziò.
La scena più divertente
accadde quando una volta – andavo in terzo liceo – arrivammo in
ritardo in gruppo tutti quelli di Campobello e Ravanusa, trenta e più
tra ragazze e ragazzi. A Ravanusa e Campobello splendeva il sole, ma,
giunti alla stazione del bus, a Canicattì ci sorprese una pioggia
intensa. Restammo lì per un'ora e più; raggiungemmo la scuola che
si trovava un po' lontano, quasi alla sommità della salita di
Borgalino, dopo le nove e mezza, a seconda ora iniziata. Entrammo
tutti insieme nell'ampia presidenza e a me, che ero all'ultimo anno,
toccò di parlare per tutti.
Il preside Cavallo
chiese:
“Perché siete così in
ritardo?”.
“Perché pioveva”.
“E perché non avete
portato l'ombrello?”.
“Perché a Campobello
non pioveva”.
“E perché non
pioveva?”.
Il “burbero benefico”
si rese conto per primo di avere sbagliato il destinatario della
domanda e rise di cuore della sua gaffe, come ne ridemmo noi, che
andammo in classe più allegri.
Anni 60! Altri tempi
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