7.5.16

Arturo Schwarz. Il principe dei galleristi che odia la proprietà privata. Intervista di Maria Teresa Carbone.

A 92 anni, dichiarare che nomi e fatti sono evaporati dalla memoria o che poco si segue di quanto accade nel mondo può essere una dolorosa ammissione di fragilità. Oppure, a volte, un modo accorto di aggirare domande importune. Nel caso di Arturo Schwarz, si sarebbe tentati di pensare che i suoi «sono vecchio, non ricordo, non so», che punteggiano la conversazione, siano più che altro un utile schermo – tanto sono pronte le risposte, e chiara e ferma la voce al telefono – se non fosse che nella sua vita Schwarz ha fatto e ancora fa un numero così straordinario di cose, che se qualcuna gli sfuggisse, non ci sarebbe di che stupirsene.
Procedendo in ordine sparso: attivista politico (fu nel ’44 tra i fondatori della Quarta Internazionale in Egitto, in seguito arrestato e detenuto due anni) e poi – approdato in Italia alla fine degli anni Quaranta – libraio, mercante d’arte, poeta, editore (per esempio dei versi di una sconosciuta quindicenne di nome Alda Merini, oltre che di Ungaretti o di Franco Fortini), studioso della cabbala e del pensiero alchemico, saggista (il suo libro più recente, Il surrealismo ieri e oggi, è uscito per Skira poco più di un anno fa). Ancora: eccellente scacchista e «tuffatore sopraffino», informazione questa che si deve a una bella conversazione con Lea Vergine uscita su “Vogue” nel 1984 e poi raccolta in un volume appropriatamente intitolato Gli ultimi eccentrici (Rizzoli 1990).
Infine, ma questo Schwarz proprio non se lo vuol sentire dire, anche se – fra le molte etichette – è quella che ricorre più di frequente, grande collezionista: Duchamp, Man Ray, Max Ernst, Jackson Pollock sono solo alcuni degli artisti che hanno fatto parte della sua raccolta. Ma «no, io non sono un collezionista. Un collezionista è uno che le cose le accumula e le tiene per sé, e questo è un comportamento che non capisco, anzi che ignoro totalmente. Io sono contro la proprietà privata, la nozione stessa di proprietà mi è estranea. A suo tempo ho comprato cose che mi piacevano, e poi le ho vendute o le ho donate, ho tenuto solo qualcosa per mio godimento personale, ma niente di davvero prezioso. Il resto, le opere importanti, le ho regalate ai musei, come l’Israel Museum di Gerusalemme o la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, perché mi sembrava giusto che più gente le potesse vedere».
Forse, osserva, «nei tempi eroici qualche collezionista vero c’era, mentre oggi mi pare prevalga un collezionismo speculativo». Subito, però, aggiunge di non esserne sicuro, «sono fuori dal circuito da troppo tempo». E dei Panama Papers, che indicano con prove sempre più numerose come il mercato dell’arte sia oggi uno dei maggiori terreni di evasione fiscale e di riciclaggio di denaro sporco, Schwarz afferma categorico di non sapere niente. Come non conosce, o sceglie di non conoscere, la pratica sempre più frequente, presso i collezionisti “speculativi”, di depositare le opere d’arte presso freeports, porti franchi, il più grande dei quali, a Ginevra, contiene pezzi per vari miliardi di dollari (impossibile quantificare precisamente, le stime si basano sulle vendite globali nel settore, che nel solo 2014 sono state di 51,2 miliardi di euro, secondo il rapporto della European Fine Art Foundation).
Altri tempi, in effetti, i suoi: «Nel 1949 sono stato espulso dall’Egitto per motivi politici. Sono sbarcato a Genova e ho scelto Milano perché mi sembrava la città più viva dal punto di vista intellettuale. Non conoscevo praticamente nessuno e non avevo mezzi, ma trovare un lavoro è stato semplice. Essendo cresciuto nell’Egitto di quel tempo, parlavo correntemente francese e inglese, ho risposto a un annuncio del “Corriere della Sera” e ho cominciato subito a lavorare in una ditta di import-export come corrispondente commerciale. Per lo più scrivevo le lettere che mi davano da tradurre». Due anni dopo Schwarz, ormai inserito negli ambienti della cultura milanese («non era difficile, anche se certi luoghi di ritrovo, come il famoso bar Jamaica, io non li ho mai frequentati, io non bevo, non sono persona da bar»), ha aperto una libreria. «Non ci volevano grandi capitali: gli editori, anche quelli più grandi, davano i libri in conto deposito. Bastava solo un po’ di intelligenza».
E di intelligenza questo giovane libraio neanche trentenne – un ragazzo, secondo i parametri di oggi – doveva averne, alla lettera, da vendere, se alla libreria si è presto affiancata la casa editrice e nel giro di un tempo relativamente breve Schwarz ha cominciato a occuparsi anche di arte contemporanea, sua grande passione il surrealismo. «Il passaggio dai libri alle opere d’arte è stato graduale. Non ho mai pensato che avrei fatto il mercante d’arte, saltavano fuori delle occasioni, si trattava solo di coglierle». Nulla di premeditato, insomma, ma l’ambiente milanese di quegli anni era fertile e fra le gallerie più importanti, oltre alla sua, Schwarz ricorda bene il Milione e l’Ariete di Beatrice Monti, che ha lanciato tra gli altri Alberto Burri e Enrico Castellani.
E della Galleria Internazionale, fondata ancora a Milano alla fine degli anni Cinquanta dalla famiglia Nahmad, proveniente da Aleppo e poi da Beirut, Schwarz sa qualcosa? In questi giorni se n’è parlato proprio per via dei Panama Papers, perché ai Nahmad, che in seguito hanno preso residenza a Monaco, aprendo gallerie a Londra e a New York, farebbe capo l’International Art Center (sede legale appunto a Panama), implicato in varie controversie, prima fra tutte quella riguardante un Modigliani, Uomo seduto con un bastone, rivendicato da un francese, Philippe Maestracci, al cui nonno l’opera sarebbe stata sottratta dai nazisti (nei giorni scorsi i giudici svizzeri hanno ordinato una perquisizione del freeport di Ginevra proprio per cercare il quadro conteso).
«La Galleria Internazionale, sì, ricordo che esisteva», dice oggi Schwarz, «ma non le saprei dire niente di più». Eppure nelle ricostruzioni di questi giorni si è detto che i Nahmad hanno avuto una presenza importante nella Milano di quegli anni, che abbiano anche contribuito a lanciare in campo internazionale artisti come Lucio Fontana. La risposta di Schwarz arriva veloce: «Sono balle, nel mercato dell’arte i Nahmad erano gli ultimi venuti, avevano soltanto i soldi e hanno usufruito di questi loro beni». Pausa. «Comunque, non ne so niente, mi sono sempre tenuto alla larga dai pettegolezzi. E quanto a me, ho sempre scelto di lavorare solo con giovani sconosciuti e in molti casi li ho fatti conoscere. Ma non mi chieda i nomi, sono troppo vecchio, non me li ricordo più».


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