5.5.16

Le lenticchie di Villalba (Vincenzo Consolo)

Doveva certo divertirsi, per il mio stupore di fronte a ogni scoperta, paesaggio, paese o persona, per le mie tante domande, la mia petulanza nel volere risposte. Divertirsi, ché altrimenti non si capisce il motivo per cui, finita la guerra, ripresi i suoi viaggi d'affari, portasse sempre me, moccioso com'ero, sopra il camion per strade sconnesse, per paesi ancora distrutti, me e non Cono o Delfino, i fratelli più grandi, già con la peluria sul labbro, le brache lunghe e la brillantina sulla chioma all'umberta. Divertirsi, oppure era mia madre che gl'imponeva me, quale simbolo minuto e incosciente della grossa famiglia che lasciava partendo, quale monito vivo a pensare solo al lavoro, al suo dovere di padre e fors'anche di marito leale. Pericoli tanti, uuuhhh, per le strade, per quel mondo ancora sconvolto, truppe dovunque, e intorno, intorno a caserme e bivacchi, sbandati, sbandate surtutto, schiere di femmine che, saltate regole, usanze, perso ritegno, s'erano sdate.
Erano stati prima brevi viaggi lungo la costa, viaggi a Caronia, Santo Stefano, Tusa, e a Capo d'Orlando, Brolo, Gioiosa. E poi venne quello lungo, di tante giornate, su per le Madonie e giù fino al centro, nel più dentro dell'isola.
«Me lo porto, va bene» sentii che disse a mia madre. «Preparagli bluse, brachette...»
Mi diedi poi arie coi compagni, dissi che all'oratorio non potevo più andare, stare più nella squadra, che sarei partito, andato lontano... L'autista, Agatone, aveva preparato il Ceirano, la cerata lustra sopra il cassone, la rossa cabina brillante e odorante di petrolio all'interno. Infilò la manovella nel buco, Agatone, girò con tutta la forza, e il motore, sussultando, cominciò ad andare. Si mise al volante, ed io in mezzo, tra lui e mio padre.
Al balcone, erano madre e sorelle, ansiose e attente; sul marciapiedi, i fratelli, le mani in tasca, il sorriso beato. Le donne agitarono le mani nel salutare, i due «Ciao, pa'» dissero con le voci fonde e insieme stridule, e a me «Ciao, Zigaca», ch'era il soprannome che da tempo m'avevano dato.
Partiti, vidi nello specchietto mia madre che si passava sugli occhi il dorso della mano.
Andammo lungo la costa, fra la piana e i colli d'agrumi, d'ulivi e il mare. Dalla torre del Lauro sopra lo scoglio, da quella di Torremuzza, Raisigerbi, al nostro passaggio, si levavano in volo gracchiando aironi e calandre. Lontana, sporgente sul mare, era la gran rocca rotonda di Cefalù. I lunghi ponti sopra le fiumare erano stati distrutti, e al Furiano, al Tusa, al Pollina, andammo giù fra le pietre e la fanghiglia dei letti. In quel mezzo settembre, le fiumare erano ancora secche, fiorite alle sponde d'oleandri e di agavi.
Passata Finale, cominciammo a salire, andare su per i monti, verso i pizzi e i vasti altipiani delle Madonie.
Cambiava man mano il paesaggio. Gli ulivi possenti e contorti divenivano sempre più radi e lasciavano il campo ai faggi, ai lecci, agli olmi, ai sugheri, che man mano infittivano, si facevano bosco. Scampanìi di mandrie s'udivano qua e là, frullìi d'uccelli, abbai di cani.
Mio padre indicava e nominava le vette, Torretta Carbonara Cervi, e gli affastellati paesi sugli altipiani scoscesi, Pollina San Mauro Castel di Lucio Collesano Caltavuturo Polizzi Scillato, il fiume Imera giù nella valle.
«Cambia marcia, adagio, frena!...» intimava ad Agatone mio padre. E quello, ridendo «Principale, mi lasciasse guidare». Il radiatore poi si mise a bollire, a fumare. «L'acqua ci vuole, l'acqua. Ferma!» Eravamo fuori dal bosco, su una sella calva dove, da una parte e dall'altra s'aprivano valli. In una, nel fondo, sovrastato da rocche, era una masseria con alte mura intorno, con grate, feritoie, e, dietro, stazzi, recinti di mandrie. Uomini si muovevano nel baglio, dai comignoli s'alzavano fumi. Agatone, versata l'acqua nel radiatore, con la tanica in mano, guardò giù e «Ah che ricotta, che formaggio devono fare!...» esclamò. «Ho capito, hai fame. Andiamo, vah.» Lasciato il camion sul bordo, dietro la carcassa annerita d'un carrarmato tedesco, andammo giù per il viottolo. Varcato il portale del baglio, i pastori, tacitando i cani, ci vennero incontro.
«E chi siete, da dove venite, che cercate per queste montagne?» cominciarono a chiedere. Ci fecero entrare nel magazzeno fumoso, accomodare sugli sgabelli di fèrula. «Dalla marina veniamo» disse mio padre, «dalle parti di Capo d'Orlando, dov'è tutto limoni, aranci e ulivi. Cerchiamo granaglie, orzo fave frumento. C'è tanta penuria da noi, affamati siamo, uomini e bestie.» «Granaglie?» dissero. «Le trovate più avanti, a Geraci, a Petralia, a Gangi, o più giù a Leonforte e Villalba.»

Agatone intanto fissava la mensola con sopra a colare caci e ricotte dentro fiscelle. Il pomo aguzzo gli andava su e giù per il collo. Puntò poi gli occhi su una cesta con dentro bei pani tondi colore dell'oro. «Ci vendereste un po' di pane e formaggio, pane e ricotta?» chiese mio padre. «Vendere?» fecero quelli, «che siamo alla bottega al paese? Favorite, favorite!» e stesero un tovagliolo di lino sopra una cassa, vi posero sopra pane, ricotta e formaggio. Agatone tirò fuori dalla tasca il coltello, afferrò il pane, l'affettò. Lo stesso fece con la ricotta, che, molle e odorosa, s'adagiò sopra le fette di pane. Il pecorino col pepe emanò poi un odore più forte, pungente. Sapori nuovi erano per me, come di erbe, di fiori, di frutta. Riprendemmo quindi la strada, coi pastori che nel mezzo del baglio là in fondo ci salutavano.
Traversammo un boschetto di frassini, gli alberi della manna, prima di giungere a Castelbuono. Un paese, questo, dominato dal vasto e possente castello. Ci fermammo in mezzo alla bella piazza per riempire alla fontana la tanica. Tutti s'affacciarono, da vicoli, case, per guardare, guardare noi e il camion col suo lungo muso, il cofano, i parafanghi, la cabina coperti di polvere. Poi le soste furono a Geraci e, oltre il Salso, a Sperlinga, a Nicosia. Passando ancora per boschi, per infinite distese desertiche pezzate di giallo o di nero. Poi verde e verde di vigne nelle vallate. Sopra le alte rocche, scabre, precipiti, erano castelli diruti, immensi palazzi solitari. E pure i paesi, Gangi Sperlinga Nicosia stavano sopra o contro le rocche, le case sembravano come germinate dalla pietra, con essa si confondevano, tranne i castelli in alto, le chiese e i conventi che spiccavano contro il cielo con le loro masse imponenti, coi loro aguzzi campanili di smalto.
In ogni piazza, mio padre ordinava ad Agatone di fermarsi. Si recava dal commerciante locale, e così caricava sul camion qua uno o due sacchi di orzo, là di grano duro. «Le fave più belle sono a Leonforte» disse, e proseguimmo per Leonforte. Erano belle davvero, larghe e bianche, con la striscia nera sulla testa. «Sono fave da 38» disse orgoglioso il commerciante.
Era già sera, e sostammo a Leonforte. Mangiammo alla bettola, dormimmo nel fondaco dov'erano tanti paglioni, e tanti a dormire. Mio padre mi tenne con sé, stretto per non farmi scivolare a terra.
«Le lenticchie più belle sono a Villalba» disse l'indomani. E partimmo per Villalba, ch'era lontana, molto lontana da Leonforte. Passammo sotto la rocca di Castrogiovanni, bianca di nebbia, riattraversammo il Salso e, dopo ore e ore, dopo petraie e deserti arrivammo a Villalba. Là il commerciante ci disse che aveva sì le lenticchie, da 26, 24, ma solo due sacchi, non più. Appena caricati, spuntò il maresciallo dei carabinieri che ordinò: «Alt, da qui le lenticchie non partono. Anche qui c'è penuria». Il commerciante poi, nell'orecchio a mio padre: «Venisse con me». Mio padre allora lasciò Agatone a guardia del camion, prese me per la mano e «Andiamo» disse a quello. Il commerciante dopo un po' bussò a un portone. Nell'ingresso apparve un vecchio con gli occhiali e il bastone. «Che c'è?» chiese. Il commerciante, afflitto, cerimonioso, raccontò la vicenda delle lenticchie e del maresciallo. Il vecchio stette zitto, scrutandoci bene. Poi, risoluto, battendo il bastone sull'impiantito, «Fra mezz'ora potete partire con le lenticchie».
Mio padre non volle, in piazza, fece scaricare subito i due sacchi. «Mi dispiace» disse al commerciante.
E lungo la strada, a me: «Lo vedi? In questi paesi ci sono persone che comandano più dei marescialli. Quando tornerai a scuola, lo scriverai questo in un bel copiato».
Il copiato, più o meno bello, è questo che ho scritto qui, dopo quasi sessantanni. A scuola, nei libri imparai poi a leggere le Madonie, la storia dei paesi suoi medievali, del latifondo, dei conflitti che in quei luoghi s'erano svolti tra contadini e feudatari, contadini e gabelloti, imparai della ribellione dei Fasci del 1893 e dei morti di Caltavuturo; delle lotte contadine nel secondo dopoguerra e dei contadini e capilega ammazzati dalla mafia. Imparai del grande capomafia di Villalba, don Calò Vizzini, quello che comandava più del maresciallo, che insieme a mio padre avevo incontrato in quel lontano 1943.



"Viaggi", supplemento de "la Repubblica", 2 marzo 2000 – ora in La mia isola è La Vegas, Mondadori 2012

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