5.5.16

Lingua e e ristorazione. Neologismi da ex osteria (Davide Paolini)

Il vocabolario delle ristorazione è in rapido cambiamento, viene da chiedersi se a questa trasformazione linguistica corrisponda una trasformazione dell’offerta nelle tavole. Lo stesso termine “ristorante” diventa sempre più nebuloso, addirittura così viene denominata anche una marca di pizza. Cosa ci azzecca non è ben chiaro, anzi confonde pure le idee del consumatore. Sempre più sono alla ribalta tutte le insegne che finiscono in “eria” che vanno a definire chiaramente il prodotto protagonista: così vediamo emergere termini come: bruschetteria, hamburgheria, tartineria, tramezzeria (chissà cosa avrebbe pensato Gabriele D’Annunzio, creatore della parola “tramezzino”), caffetteria, bracioleria, piadineria, prosciutteria, polpetteria, panineria (paninoteca), accanto al precursore, sempre sulla breccia: “pizzeria”. Che si voglia o no, queste insegne hanno preso il posto di trattoria, osteria, hostaria (chissà perché con l’acca) che, nel tempo, in verità hanno perso una loro precisa conformazione di ciò che offrono come menu e non dimeno in termine di prezzi, al punto che non è chiaro se il costo di un pasto in una trattoria è minore di quello in un’osteria. Mentre i nuovi locali in “eria” sono espliciti: il nome immediatamente riporta a un prodotto: bruschetta, hamburger, tramezzino, pizza, piadina, panino.
Dietro al nuovo linguaggio, oggi in uso, si nascondono dei cambiamenti nel mondo del mangiar bere molto significativi, che offrono uno spaccato della società dei consumi fuori casa. Siamo in presenza di un nuovo modo di alimentarsi, o meglio di nutrirsi: la possibilità di disporre in qualsiasi ora di un’offerta che possa esaudire la voglia di cibo, in tempi brevi e con modalità semplici, così come da sempre succede in paesi quali Stati Uniti e Gran Bretagna dove è nato il fast food.
Queste nuove realtà commerciali stanno invadendo le strade delle metropoli, soprattutto al nord d’Italia, con un ritmo impressionante perché non necessitano di grandi professionalità, non richiedono grossi investimenti e sono “appetite” dai private equity perché permettono una rapida diffusione in più luoghi (franchising). Il loro successo è altresì garantito dalle richieste dei consumatori, soprattutto da coloro che, nella pausa meridiana, cercano un pasto leggero, a basso costo e che sia di breve durata (in piedi o senza servizio al tavolo).
Accanto allo sviluppo dei locali in “eria” crescono quei locali (dietro al banco), originariamente luoghi di vendita di prodotti alimentari o di pane o di carni o di verdure o di vino che offrono dei piatti caldi, frutto dei loro prodotti in vendita, serviti “brevi menu”, dunque senza camerieri e tavoli apparecchiati con tovaglie e bicchieri di cristallo. Insomma una vera “riforma” del ristoro che mostra, dall’altro lato, una emergente difficoltà della ristorazione “tradizionale” (trattorie, osterie, ristoranti), di cui l’unica eccezione pare essere un locale tradizionale, ma che guarda caso, finisce in “eria”, ovvero la pizzeria.
Questa evoluzione soprattutto colpisce una fascia, che possiamo definire grigia, i locali che non hanno una precisa caratterizzazione di offerta (piatti tra il nuovo e il tradizionale, in cui si cerca di scimmiottare gli chef), prezzo non in linea con la qualità della cucina e del servizio. Insomma un posizionamento completamente non corretto, di cui la trasmissione Cucine da incubo (condotta dallo chef Antonio Cannavacciuolo) ha offerto, al di là del vero o del falso dei casehistory, uno spaccato molto significativo.
Il nuovo che avanza è dovuto, in parte, anche a diversi chef o meglio ai locali stellati (o presunti tali), posizionati su fascia alta di prezzo, che segnano il passo a causa di cambiamento delle abitudini della clientela, non più disposta a menu degustazioni, a lunghe attese, a piatti non leggibili, a ricarichi alti sul vino, a conti che toccano troppo il portafoglio in tempo di crisi. Sine qua non


“Il Sole 24 Ore Domenica”, 1° marzo 2015

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