2.5.16

Punture (S.L.L.)

Non ne posso più di punture.
Lasciamo stare le "normali" intramuscolari ed endovenose o quelle, oramai anch'esse normali, dei prelievi di sangue per accertamenti diagnostici, parlo di quelle "speciali", che per una ragione o l'altra fanno impressione.
Ho cominciato da piccolo, a sette anni, nel 1955. Mi fecero la "puntura lombare" perché sospettavano una meningite "specifica". Ero un bambinello, ma il mio mito era lo zio Gigi, paracadutista: volevo comportarmi da "uomo vero", non mostrare paura e non lasciarmi piegare dal dolore. Quando il dottore Ruggeri e il vecchio dottore Sillitti mi conficcarono l'ago (non lo ricordo ma l'immagino grosso) nella schiena, provai un dolore acuto e gridai "mamma". O meglio gridai "maaaa". Avevo mostrato debolezza, ma trovai un rimedio immediato, trasformai il grido di aiuto in canto: "Maaaa-mma, solo per te la mia canzone vola". Erano le parole di una celebre canzone che a me piaceva soprattutto nell'interpretazione tenorile di Beniamino Gigli.
Nel 72 arrivò la pleurite. Arrivò dopo che, alle elezioni, andai - da Gela - a votare al mio paese natale, dove avevo la residenza, con la febbre alta sotto una gran pioggia.
Non la curai bene: ero ancora precario e non potevo superare un mese di malattia, pena la perdita dell'incarico. Si formò un empiema, una sacca piena di liquido purulento, e durante l'estate fui ricoverato al "Cervello", l'ospedale reso famoso da Bufalino che vi ambientò la Diceria dell'Untore. Era però meno di un tempo "sanatorio per tisici" e sempre più "ospedale specializzato per le malattie dell'apparato respiratorio".
Venti giorni.
Ne approfittai per leggere integralmente il Furioso, e studiare meticolosamente il Canzoniere di Petrarca e il Decameron. Franco Russo, lo "zio Franco" (era zio di mia moglie), mi portava i giornali, l'Unità, Rinascita, il Sicilia, l'Espresso; ma io li trascuravo. Leggevo i classici e - nelle pause - mi dedicavo a studi di retorica. Avevo come compagni di stanza un ragioner Cinque, di Raffadali, integerrimo funzionario, moderato in politica ma grande amico del suo sindaco, il glorioso compagno Di Benedetto e un vecchio sottufficiale dell'esercito, un palermitano ottantino, anticomunista ma pieno di racconti, tra cui - affascinante - quello della prigionia nella Grande Guerra. Nella stanza degli infermieri, verso le sette di sera, chiacchieravo per una mezz'oretta con una compagna d'università, Maniscalco, ricoverata nel reparto "femminile". Non mi lasciavo, però, troppo coinvolgere in queste pratiche di socializzazione: più che altro studiavo; e tutti, inclusi i medici e i portantini, mi chiamavano "professore" con una punta di deferenza (e di ironia).
Non riuscirono a guarirmi: fecero una diagnosi più accurata e svuotarono, per tre o quattro volte, l'empiema. Mi dimisero con la convinzione che - molto lentamente grazie ai farmaci – il liquido si sarebbe comunque riformato e che, prima o poi, mi sarei dovuto operare, facendo raschiare la pleura di quel maledetto polmone destro. Il che avvenne quasi un anno dopo, e dopo periodiche punture e medicazioni (bimestrali) per le quali impegnavo il sabato libero.
Il ricordo più angoscioso di tutto quel periodo sono proprio le dolorose punture al torace ("toracentesi"), con un ago bello grosso e con una anestesia locale poco efficace. Svuotavano la sacca e medicavano con un antibiotico, la rifampicina se non ricordo male. Legato alle punture, ma più angoscioso ancora è il ricordo di un tal Bonsignore, medico, un aiuto capace e brillante già con la libera docenza (dunque "professore"), destinato a prendere presto il posto del direttore Spina. Non credo che lo facesse apposta, ma mi torturava: il giorno prima della toracentesi, prima ancora della visita rituale, si affacciava sulla stanza a tre letti e, rivolto a me, esclamava: "Professore, domani la pungo". Non contento ripeteva lo stesso rito il mattino seguente: "più tardi la pungo".
Ora mi pungono nell'occhio, all'incirca ogni quattro mesi. Dopo l'esplosione di un trombo nella vena centrale della retina destra, è rimasto un edema: una sacca di liquido si forma e si riforma. Non solo vedo pochissimo con quell'occhio, ma è disturbata la visione dell'altro, di quello buono. Perciò mi pungono e mi iniettano un farmaco che prosciuga. Mi controllano dopo un mese e mi trovano molto migliorato. Lo sono veramente: vedo molto meglio e soprattutto non c'è la grande nuvola che si muove. Mi controllano dopo due mesi e mi trovano nettamente peggiorato. Lo sono veramente. Mi fissano l'iniezione dopo due o tre settimane. Per un po' di tempo il medico che sovrintendeva ai controlli è stato lo stesso che faceva le punture. Faceva come Bonsignore, mi diceva: "Fra quindici giorni la pungo". Aveva una buona mano, come ce l'ha la dottoressa che ha preso il suo posto in sala operatoria. Adesso non usiamo più quella della chirurgia oculistica; ne usiamo una "multispecialità", ma in verità collegata alla clinica ostetrica. L'infermiere mi ha negato che sia normalmente usata come sala parto: "La usano gli ostetrici e i ginecologi, ma per altri interventi". Sospetto che ci facciano gli aborti.

Sono tutti gentili e, dopo quasi tre anni, abbiamo fatto amicizia. Ma io di punture non ne posso più.

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