23.6.16

A ciascuno il suo Gramsci (Roberto Monicchia)

La figura di Antonio Gramsci sembra resistere all’oblio e/o alla damnatio memoriae a cui appare destinata l’intera elaborazione teorico-politica della sinistra novecentesca. Anzi, dopo la parziale eclissi negli anni della dissoluzione del comunismo e del Pci, l’opera del dirigente comunista riscuote un nuovo interesse, tanto sul piano filologico quanto su quello interpretativo.
Naturalmente Gramsci non sfugge al filone delle rivelazioni su “quanto erano cattivi i comunisti”: solo dal 2011 a oggi abbiamo saputo che a) Gramsci era un intollerante e totalitario che impedì alla sinistra di essere guidata dal riformista Turati; b) si convertì in punto di morte guardando un’immagine sacra; c) negli ultimi anni era uscito dal Pcd’I e il Quaderno che lo rivela è stato distrutto dal diabolico Togliatti; d) il quale, insieme a Stalin, era il vero carceriere di Gramsci. Tuttavia, anche in questi casi si può scorgere la vitalità di una presenza, poiché in certe improvvisate avversioni ritornano in forma “volgare” contrasti interpretativi che accompagnano da sempre la discussione sul grande sardo.
Della storia della ricezione di Gramsci dà conto approfonditamente la ricchissima ricostruzione di Guido Liguori (Gramsci conteso. Interpretazioni dibattiti e polemiche, Editori Riuniti, Roma 2012). Lo studioso, già coautore con Pasquale Voza del Dizionario Gramsciano 1926-1937 (Carocci, Roma 2009), mette in evidenza le ragioni molteplici della fortuna di Gramsci, cui hanno cooperato un’attenzione filologica costante (la storia delle due edizioni dei Quaderni meriterebbe una trattazione a parte) e la tenacia di un articolato gruppo di studiosi militanti.
Da un lato il dibattito su Gramsci è un prisma che consente di leggere la storia della cultura italiana del secondo dopoguerra, con implicazioni politiche vaste e ramificate; parafrasando lo stesso autore sardo, i quaderni sono una storia d’Italia in un’ottica monografica. Dall’altro Gramsci ha una vasta eco internazionale, e certi suoi concetti e termini hanno innervato esperienze di studio in molteplici direzioni anche fuori dal contesto del marxismo. È impossibile immaginare tutto ciò che Gramsci ha significato senza tenere conto dei modi e delle forme in cui la sua opera è stata divulgata, ovvero senza il lavoro approfondito e accurato, sempre sorvegliato politicamente ma solo marginalmente censorio, compiuto da Togliatti. Già esaltato come “capo della classe operaia italiana” subito dopo la morte, Gramsci diventa il punto di riferimento teorico politico e culturale del Pci nel momento della fondazione del “partito nuovo”. Nella pubblicazione delle Lettere nel 1947 e della prima edizione - quella tematica - dei Quaderni del carcere (1949), Togliatti utilizza la lezione di Gramsci come linea genealogica di un partito popolare e nazionale, erede di una tradizione democratica, in grado di fare da punto di riferimento per l’opinione progressista e in particolare per il ceto degli intellettuali. Su questa linea, che privilegia il “grande italiano” e l’uomo di cultura rispetto al dirigente politico (che però non viene mai misconosciuto), vi sono forzature e omissioni, e d’altra parte l’operazione è comunque di grande respiro e fondata su alcuni elementi di fatto, come l’attenzione specifica di Gramsci alla situazione italiana e il suo approccio prevalentemente storico-letterario. In ogni caso attraverso questa mediazione Gramsci diviene uno dei punti di riferimento dell’identità del Pci. Da questo momento ogni discussione, ogni svolta, ogni approccio diverso si avvarranno di rimandi, reinterpretazioni, riletture della sua opera. Ciò è evidente dopo il 1956, con il rilancio della “via nazionale al socialismo”, che Togliatti ricollega direttamente al Gramsci di Lione e del carcere, mettendo in secondo piano il periodo dell’Ordine Nuovo e gli esordi del Pcd’I. Ma il riferimento si ritrova anche nel dibattito su arretratezza/sviluppo del capitalismo italiano, sul rapporto egemonia-democrazia e sul problema della “conquista dello stato”. A queste tematiche si aggiungono negli anni ‘70 e ‘80 i nodi della storia del partito e del legame col comunismo sovietico, mentre l’approfondimento filologico, culminato nell’edizione critica dei Quaderni del 1975, offre materiali sempre più ampi alla ricerca e alla discussione. Nelle fasi finali del Pci, tra la caduta del muro e lo scioglimento del partito, anche se l’atteggiamento prevalente è quello di disfarsi dell’intera propria storia, non mancano i riferimenti a Gramsci come teorico della democrazia tout court, fin quasi a negarne l’effettiva militanza comunista.
Gramsci esprime una forte attrazione anche fuori dal Pci. Fin dall’immediato dopoguerra si apre la strada della linea interpretativa liberal-democratica, che tende a valutare l’opera di Gramsci a prescindere (o nonostante) la sua militanza politica: la frase di Croce “come uomo di cultura, Gramsci fu uno dei nostri”, è l’apertura di una tendenza che avrà in Bobbio un fondamentale sostenitore, sia pure con posizioni oscillanti: a tratti si sosterrà l’incompatibilità tra la nozione di egemonia e l’adesione alla democrazia, a tratti quella tra Gramsci e il materialismo storico. Nell’area culturale del Psi craxiano questa linea interpretativa assume la definitiva curvatura anticomunista che arriva fino ad oggi, con due varianti: a) il Pci non può rifarsi a Gramsci, teorico democratico estraneo al marxismo; b) Gramsci è un pensatore totalitario, da buttare con tutta la sua cultura politica. Nella sinistra marxista “eterodossa” molto varia è la ricezione di Gramsci; al rigetto del filone operaista - che ne critica l’organicismo e il produttivismo - fa da riscontro da parte di altre tendenze la valorizzazione del Gramsci “consiliarista” dell’1919-20, giocato in opposizione all’aggiustamento “nazional-popolare” della sinistra storica.
La fortuna di Gramsci è ampia e articolata anche a livello internazionale. Gramsci è in primo luogo un punto fermo del cosiddetto “marxismo occidentale”, preso in considerazione soprattutto come teorico di un possibile modello di socialismo alternativo a quello sovietico. Quando questo filone tende a divenire marginale, l’importanza di Gramsci cresce nell’ambito di tendenze di ricerca molto distanti, tra sociologia, antropologia, cultura popolare, in particolare nelle dinamiche post coloniali dei cosiddetti cultural studies. L’internazionalizzazione di Gramsci si manifesta in una miriade di riferimenti bibliografici, ma anche nel lavoro dell’Intemational Gramsci Society, che conta diverse sezioni nazionali, compresa quella italiana, che affianca la storica Fondazione Istituto Gramsci.
Se la presenza scientifica ed editoriale di Gramsci arriva fino all’oggi, il suo pensiero non è più oggetto di contesa nel dibattito politico, nonostante l’evidente pregnanza di certe sue categorie, come la rivoluzione passiva e il sovversivismo delle classi dirigenti. Non c’è da stupirsi: della “crisi organica” che stiamo attraversando fa parte - come ci ha insegnato Gramsci - anche l’incapacità di tenere insieme politica e cultura, azione contingente e strategia di lungo periodo.


“micropolis”, maggio 2013

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