28.6.16

Caritas Perugia. Rapporto sulla povertà (S.L.L. - micropolis, giugno 2016)

Pranzo speciale alla mensa  Caritas di San Costanzo, a Perugia.
Sotto il gran quadro il sindaco Romizi versa da bere a un prelato 
La Caritas diocesana di Perugia e Città della Pieve ha in questo giugno diffuso in forma di opuscoletto a stampa e presentato pubblicamente (ma non ancora messo in rete) il Primo rapporto sulle povertà nella Diocesi di Perugia.
Il titolo, in verità, promette assai più di quanto il testo non dia: non si tratta infatti – e i curatori lo riconoscono – di una ricognizione sistematica ed esaustiva, ma dell'elaborazione, peraltro abbastanza accurata, dei dati reperiti attraverso i Centri d'Ascolto della Caritas operanti nell'ambito territoriale della diocesi. Il tipo di povertà di cui prevalentemente si tratta – come è spiegato in apertura – è la “povertà assoluta”, quella che, secondo la definizione dell'Istat, “impedisce l'accesso ai beni essenziali”, in aumento in molti paesi europei. In Italia il numero di persone che si trova in questa condizione, secondo il Rapporto 2015 della Caritas nazionale, è passato dal 2007 al 2014 da 1,8 a 4,1 milioni di persone, così come è aumentata l'area del rischio di povertà e di esclusione sociale, che ormai comprende circa il 28% della popolazione italiana. Secondo la Caritas l'Umbria e il perugino non si sottraggono a questa condizione, anche se mancano dati specifici relativi alla povertà assoluta.
Il rapporto della diocesi ha appunto l'ambizione di colmare, parzialmente, una lacuna di conoscenza e di informazione pubblica. Esso riguarda gli anni 2014 e 2015 ed è perciò più aggiornato rispetto al rapporto nazionale che si ferma al 2014. Il campione a cui si riferisce è abbastanza vasto: 987 sono state le persone che hanno richiesto aiuto ai Centri d'Ascolto nel 2014 e 971 nel 2015, un dato abbastanza stabile (ma nel 2013 erano state un po' meno di 900). I richiedenti aiuto sono più donne (circa il 55%) che uomini, più stranieri che italiani: 522 nel 2014 e 590 nel 2015. Le nazionalità prevalenti sono Marocco (134), Albania (67) e Nigeria (62); relativamente pochi (37) sono gli utenti romeni, i primi a livello del dato globale delle Caritas italiane.
La sezione dedicata dal rapporto alle caratteristiche personali e familiari di chi chiede aiuto, oltre ai dati su sesso, età e nazionalità, offre numeri, tabelle e percentuali sulla convivenza o meno dei soggetti in coabitazioni familiari, sulla tipologia delle abitazioni, sulla condizione professionale. Mancano di tutto ciò convincenti chiavi di lettura; il commento spesso si ferma all'ovvio, al generico o al banale e nessuna ipotesi di spiegazione si avanza rispetto alle evidenze rilevate. L'unica valutazione meno generica riguarda i “nuovi volti che la povertà si trova ad assumere”, soprattutto tra i nativi: anziani autosufficienti non protetti dalle pensioni, famiglie con tre o più figli minori, lavoratori con salari insufficienti.
Più dettagliata risulta la parte relativa ai problemi-bisogni più avvertiti dagli utenti dei centri d'ascolto Caritas perugini. Risultano centrali per tutti quelli della mancanza di lavoro, spesso dopo un licenziamento, del disagio lavorativo legato a sottoinquadramento, dei bassi redditi, delle conflittualità interne alle famiglie, dell'abitazione, dell'istruzione. Alcune tra queste criticità (l'abitazione per esempio) ed altre relative alla vita quotidiana dei poveri sono, secondo gli estensori del rapporto, sottostimate anche perché i problemi “vengono posti (se vengono posti) in contesti diversi dai CdA, con richiesta di servizi specifici”, nelle mense per esempio.
Un breve capitolo è dedicato al tipo di intervento realizzato nei CdA in risposta alle richieste. L'aiuto prevalente consiste in sussidi economici per il pagamento di tasse e bollette, ma la tipologia dell'assistenza è molto variegata e va dai sussidi per l'affitto, al cibo, ai beni distribuiti nei cosiddetti “empori”, alla salute.
Il testo prosegue con l'appello a un maggiore impegno, a tutti i livelli, per il contrasto alla povertà. Vi si legge tra l'altro che, tenendo conto delle esperienze compiute dalla Caritas nelle Unità pastorali della Diocesi, la cosa più urgente sarebbe la “garanzia di un reddito minimo di inclusione”, cui dovrebbe concorrere la comunità locale, “in presenza di un contributo sostanziale (oggi assente) dell'Amministrazione centrale”. Sarebbe interessante capire se questo reddito di cui parla il caritatevole osservatorio debba riguardare soltanto i cittadini italiani o anche i poveri di nazionalità straniera, ma è tema su cui è difficile strappare un pronunciamento chiaro a chicchessia.
Concludono l'opuscoletto tre storie di vita, diverse, ma dello stesso segno, di persone che dal limite estremo della povertà si sono rimesse in moto e riaperte alla speranza grazie all'ascolto e all'aiuto della “Caritas” perugina. È giusto: l'Osservatorio ci tiene a far sapere che non di numeri o di “casi” si tratta, ma di persone in carne ed ossa, con i loro drammi e i loro sogni. Va peraltro notato che i compilatori dell'opuscolo mostrano di comprendere che le azioni di solidarietà, per quanto positive, non hanno un carattere risolutivo: in tutto il rapporto costantemente si sottolinea che la povertà pur “essendo un fenomeno non privo di soluzioni” non scomparirà da sé ed ha bisogno dell'intervento pubblico.
Quello che invece manca del tutto è la consapevolezza del legame necessario tra povertà e modo di produzione capitalistico. In verità, da quando – con la fine ingloriosa dell'esperimento del comunismo novecentesco – sembra scomparsa dal campo del possibile un'alternativa di società, anche nelle aree avanzate del mondo, che - attraverso lo stato sociale - avevano conosciuto una forte riduzione delle povertà, tornano disoccupazione, esclusione, redditi bassi, ignoranza. Le previsioni del vecchio Marx sulla polarizzazione e sulla “miseria crescente”, che gli apologeti del capitalismo garantivano smentite dalla realtà dello sviluppo, sembrano trovare oggi, in forma nuova, conferma. Gli interventi caritativi vanno bene (e andrebbero anche meglio se non venissero, come in gran parte vengono, da denaro pubblico), ma, senza la consapevolezza che la povertà è figlia dello sfruttamento, possono perfino essere controproducenti, consolidando un sistema che produce povertà giorno dopo giorno. Non si combatte la povertà senza combattere la ricchezza, cioè il capitale e le sue logiche.

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