23.6.16

Il Gavazza renzista. Una mesta parabola (Alessandro Robecchi)

Un Robecchi di un paio di mesi fa, profetico (S.L.L.)
E così venne il tempo di Umberto Gavazza, personaggio memorabile che potrebbe restare appiccicato al militante renzista, una bella nemesi per chi continua ad agitare davanti agli avversari lo spettro di Tafazzi. Per gli immemori, o i più giovani si sappia: Umberto Gavazza è lo splendido Ugo Tognazzi de La marcia su Roma (insieme a un altrettanto superbo Gassman, ovvio, Dino Risi, 1962), quello che ad ogni curva del percorso, dal discorso di San Sepolcro all’ingresso a Roma, cancella punti del programma, vedendoli miseramente crollare sotto i colpi della realtà. Terra ai contadini. Riga sopra. Libere elezioni. Riga sopra.
Fatte le debite proporzioni, il militante renzista della prima ora, ascendente Leopoldo, con la luna in Boschi, vive la stessa catena tragicomica di delusioni. Promesse che si sfarinano, sorti luminose che si appannano.
L’elenco sarebbe lungo: dal Jobs act di cui cominciamo a capire costi (alti) e ricavi (bassi), ai tagli alla sanità, alla moralità della politica, non miglioratissima, alla cessione di diritti, alla manomissione della Costituzione con inconfessabili patti annessi. Si aggiungano certe cadute Berlusconi style (la stretta alle intercettazioni invocata e poi smentita, l’ira contro i giudici, il piagnisteo contro i giornali cattivi). Il Gavazza renzista vede vacillare anche dogmi di fede come “il grande successo di Expo”: proprio nel 2015 l’Italia è calata di una posizione (da settima a ottava) nella classifica mondiale del turismo, ahi, ahi, ahi. (fonte: World Travel & Tourism Council).
Sui dati si discuterà (e molto, vista l’abitudine di fornirli di fantasia, à la Poletti), ma un dato è sicuro: ciò che davvero è andato in mille pezzi, come una palla di cristallo, è la narrazione renzista. Quell’impasto di ottimismo da spogliatoio (dai, insieme possiamo farcela!), di disprezzo nei confronti del predecessori, di apparente decisionismo, di innovazione, di dinamismo euforico, di «adesso arriviamo noi e vi facciamo vedere».
Qui sì il nostro Gavazza leopoldo tira linee su linee e cancella, più che promesse, un intero affresco, un sistema di valori, una costruzione teorica. Ad appena due anni dall’innamoramento collettivo, ci sono parole che addirittura puzzano: dire “Rottamazione” oggi che il governo è sostenuto da Verdini, Montezemolo guida la corsa alle Olimpiadi, Marchionne è il modello imprenditoriale e le lobby si spartiscono emendamenti per telefono è quasi struggente. Quanto alla #buonapolitica, hashtag programmatico brillante di suadenti promesse, s’è visto: padri forse bancarottieri (Renzi e Boschi), ministri pasticcioni che, per cavarli d’impiccio, si è dovuti descrivere come succubi in un rapporto sado-maso-confindustriale col fidanzato; oppure giglio magico e nomine toscane, con affari toscani, banche toscane, eccetera, eccetera. E Gavazza, giù a tirare righe.
Ora qui c’è un problemino non da poco, anzi due. Il primo: chi si disamora, poi difficilmente si ri-innamora, e questa è una legge di natura in cui l’elettorato non fa eccezione. Il secondo: lo storytellig tanto accurato si rivela un discreto boomerang. Basta googlare le principali parole d’ordine del renzismo per constatare che sono ormai quasi tutte usate in dispregio e disdoro e presa per il culo di chi le ha lanciate.
Ai commenti ironici per le gaffes del Principe seguono puntuali, come per sberleffo aggiunto, gli hashtag della propaganda. Se chiude una fabbrica: #italiariparte. Se Renzi va dalla D’Urso: #grandepotenzaculturale. Se ne arrestano, o indagano o intercettano uno: #labuonapolitica. Una narrazione troppo trionfalistica si presta ad essere ribaltata dal sarcasmo quando ci si accorge che non si sta trionfando per niente. La contro-narrazione, insomma, è facile e feconda. Si ricordi, esempio cristallino, il ridicolo hashtag #classedirigentemaddeché, che certi guru renzisti indirizzavano ai Cinque Stelle. Ecco, alla luce delle recenti scoperte in campo di etica e petrolio, l’autogol è così evidente e conclamato da fare tenerezza: #classedirigentemaddeché. Appunto.
Eppure narratori così attenti ai nuovi media dovrebbero sapere che le costruzioni estetico-ideologiche passano in fretta (cfr. il loden di Monti dopo anni di mutande di Berlusconi). L’innamoramento per il tipo casual, in camicia bianca, riunioni alle sette del mattino, panini di Eataly e gelati di Grom, quello che girava in smart e che twittava “arrivo arrivo” dallo studio del Presidente Napolitano, si è come dissolto. Sarà l’affaire Guidi, o l’appannamento del mito Boschi, o il fatto che la ripresa non arriva e le grida di hurrà sembrano un po’ surreali e mascalzone. Ma la narrazione prevedeva che a rimorchio di quei simboli e segni e segnali e suggestioni venisse del nuovo, che invece non è venuto, non si vede, non c’è.
Gavazza scuote la testa: un pochino, in fondo, ci aveva creduto. Lo storytelling del nuovo che avanza e poi trama al telefono tra interessi e sottogoverno come ai tempi di Forlani potrebbe suonargli, ora, addirittura fastidioso.


Pagina 99, 16 aprile 2016

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