14.6.16

Un grande poeta, carnevalesco e filologo. Belli al Campidoglio (Nello Ajello)

Roma - Si conclude oggi il convegno intitolato Giuseppe Gioachino Belli nel bicentenario della nascita. Quattro giorni, decine di relazioni, un corteo di dotti che indaga a fondo la personalità dello scrittore, un finale in Campidoglio, dedicato al Belli nella tradizione del Novecento. In Campidoglio! "Un miracolo grosso", avrebbe esclamato il poeta rifacendosi al titolo d'un suo sonetto. "Abbiamo cominciato a sdebitarci con lui", dice Carlo Muscetta, belliano illustre, autore di un saggio ispirato e minuzioso sul cantore della plebe romana. "Ce n' era bisogno. Mai al Belli toccò un riconoscimento in vita. Riuscì a veder pubblicate soltanto le sue poesie in italiano. Venne considerato uno scrittore notevole, tranne che per la sua opera più importante, che restava ignota al pubblico". Uno scherzo del destino, cui d'altronde contribuì lo stesso poeta. "Era ben consapevole di aver scritto cose pericolose. I sonetti romaneschi li recitava solo davanti a persone 'sicure' . Nel l835 un editore parigino gli propose di pubblicarli in Francia: rifiutò. Capiva che, una volta resi noti i sonetti, lui avrebbe dovuto emigrare da Roma. Quando Giuseppe Mazzini nel '49, nei giorni della Repubblica romana, lo fece cercare, considerandolo l'unico letterato popolare a disposizione, si barricò in casa. Era insomma, spaventato dal proprio sovversivismo e, di conseguenza, prudente". La prima edizione integrale dei Sonetti risale al 1886, ventitré anni dopo la morte del loro autore. Ma la fortuna critica, che è stata a lungo stentata e controversa, ora è un dato acquisito. Siamo, anzi, alla celebrazione. Questo anno belliano, il 1991, che cosa porta di nuovo? "La consapevolezza che, dopo Eduardo De Filippo, Belli è il nostro scrittore dialettale più tradotto nel mondo. In Germania, per esempio, dove Otto Ernst Rock ha pubblicato un centinaio di sonetti, è ormai un best seller, oggetto di culto. C' è un'associazione di Amici del Belli. È come se, tutto d' un colpo, fosse stato vendicato della relativa noncuranza che gli avevano riservato i suoi connazionali".
Poi, per tornare in Italia, c'è l' avvenimento dell'edizione nazionale dei sonetti. "Sarà completa entro l'anno prossimo. Dodici volumi in tutto - ne sono già usciti sette - a cura di Roberto Vighi, uno studioso oggi ottantatreenne che al Belli ha dedicato la vita. Per ogni singolo sonetto, si risale al manoscritto e si fa la storia di tutte le interpretazioni che ne sono state date lungo il tempo. Ne viene fuori una sorta di enciclopedia belliana. Se i sonetti sono, come voleva il loro autore, un monumento alla plebe di Roma, questa edizione possiamo definirla un monumento al monumento". E lei, Muscetta, rispetto al suo libro Cultura e poesia di G.G. Belli la cui ultima edizione risale a dieci anni fa, ha concepito qualche nuova idea? Le è nato in mente qualche nuovo approccio interpretativo? "Ho ripensato al Belli sulla linea di un grande marxista dissidente, il russo Michail Bachtin, il quale ha dedicato uno studio alla 'letteratura carnevalizzata' , analizzando quegli scrittori che un tempo si definivano serio-comici. Di questa genìa Belli è un esponente tipico. Nella sua biblioteca trovavano posto tre autori della letteratura carnevalizzata: Boccaccio, Voltaire, Hoffmann. Ma ciò che più conta è che a Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore insieme: in quella compagine politica e umana al tramonto che era lo Stato pontificio, l'allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l'una accanto all'altra. Il poeta usa spesso, per ciò che va scrivendo, il termine "dramma", proprio nel senso shakespeariano di una forma d' arte in cui la buffoneria si sposa al tragico".
Da certi tratti della sua vita - soprattutto dall' attività di censore pontificio, svolta fra il '52 e il '53, in cui gli capitò di condannare Macbeth e Rigoletto - si potrebbe desumere che Belli fosse un reazionario. O almeno, si direbbe oggi, un clerico-moderato. Lei, invece, lo considera - così ha scritto - "un poeta obiettivamente rivoluzionario"... "Io posso dirle che in tutta la vita del Belli c'è una costante: l'egualitarismo. Da vecchio, quando leggendo “La Civiltà cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro Il Manifesto di Carlo Marx, scrisse una poesia in italiano intitolata ' Il comunismo' . Vi si rifletteva il suo rifiuto dell'esistenza di 'due generi umani' . Quel rifiuto che aveva espresso in versi eloquenti. 'Quer chi tanto e chi niente è 'na commedia - che m' addanno ogni vorta che ce penzo' . Va ricordato che, in due circostanze, Belli conobbe la povertà vera: da piccolo, quando gli morì il padre, e da adulto quando scomparve sua moglie Maria Conti, una donna ricca e anziana che lo aveva a lungo sollevato da preoccupazioni economiche. Perciò, quando parlando dei poveri dice 'noantri' , si coglie nei suoi versi un accento di verità. Più d'una volta assunse atteggiamenti che oggi si direbbero liberal-progressisti: intorno al 1830, allorché nello Stato pontificio ci furono dei tentativi insurrezionali, e poi con Pio IX, un papa al di fuori dei canoni abituali per un suddito della Chiesa".
Eppure, in quella che si può definire la sua commedia, non si trova mai la parola "Italia". "Anche se l'Italia non si vede mai, neppure sullo sfondo, tutte le note che egli fa seguire ai propri sonetti sono indirizzate a un ideale lettore non romanesco ma italiano. Certo, per lui il mondo è Roma. Un mondo prossimo a sfasciarsi, che entra in colloquio con altre parti del globo. Nei sonetti si parla dello zar. Si evoca New York, detta 'Agliorca'".
La plebe di Roma parlava davvero così? "Il fondo lessicale dei sonetti è romanesco autentico. Poi ci sono invenzioni poetiche: una parola come ' puttanicizia' non è rintracciabile per esempio, in natura". Un grande belliano, Giorgio Vigolo, parla della "lunga lotta" del poeta con il dialetto. Una lotta che finisce nel 1849, quando Belli indirizza un sonetto a sua nuora Cristina: "Sora Crestina mia...". Qui s' interrompe, fino alla morte dello scrittore (1863), l' uso del dialetto, che egli - scrive Vigolo - aveva adoperato "come personaggio estremo e turpe, come maschera infima e tenebrosa". In quei quattordici anni che gli restano Belli scrive in italiano. Il suo italiano com' è? "Come scrittore in lingua si collocava nella buona media del tempo. E dell'italiano aveva una conoscenza che non si esagera a definire mostruosa. Redasse un'aggiunta al dizionario del Carnevali, un classico dell'epoca, con tutte le parole che l'autore aveva omesso. In italiano un filologo attentissimo. In dialetto, uno sperimentatore irrefrenabile".


“la Repubblica”, 9 novembre 1991  

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