8.7.16

Ernestina a pezzettini. Un femminicidio della Belle Époque (Nello Ajello)

Si può fare a pezzi la propria moglie subendo una pena irrisoria e continuando a sentirsi un galantuomo e un esteta? Oggi forse no: e se dico forse è perché la storia degli assurdi giudiziari è purtroppo lontana dal concludersi. Nel 1904, comunque, si poteva. Risale infatti a quell'anno la composizione del memoriale di Alberto Olivo riesumato in questi giorni dalle edizioni Bollati Boringhieri con il titolo Ira fatale - Autobiografia di un uxoricida (pagg. 153, lire 16.000). È un'opera insolita non soltanto per il suo significato giudiziario, ma anche perché apre uno spioncino su certi aspetti amari della Belle Époque.
La via Manzoni a Milano nel 1903
Se mai si poté parlare di libro scritto di getto, è questo il caso. L'autore si accinge alla sua fatica il 24 giugno 1904; il 4 luglio ha finito. L'altra sua incombenza l'eliminazione della moglie Ernestina Beccaro risale al 16 giugno 1903. Quando scrive l'autobiografia, Olivo è già in libertà da un paio di settimane, assolto e felice. Questo uxoricida-narratore è insomma l'opposto esatto d'un pentito. Non è solo autoindulgente, è anche vanitoso.
Quarantottenne, nato a Udine in una famiglia povera e poi trasferitosi a Milano, impiegato alla Richard Ginori, si considera un uomo di cultura. Il suo libro trabocca di richiami letterari: sedici citazioni da Dante, sette da Manzoni, tre da Petrarca, due da Foscolo, due da Giuseppe Giusti e una ciascuno da Schiller, Vincenzo Monti e Lorenzo Stecchetti. Seguono tre poesie dello stesso Olivo, deprimenti. Di latino ne mastica poco, ma non rinunzia a citare, spropositando. L'ambizione culturale, insomma, lo divora: e in questo senso l'etichetta di narratore naif che ora si tenta di applicare all'autore di Ira fatale risulta incompleta. Si tratta, tutt'al più, di un naif del genere pomposo. Quanto di peggio. Alla smania di poetare Olivo accoppia la passione per la matematica. Sognai, confessa, la gloria letteraria e scientifica. Sogno non disgiunto da quei princìpi di sana morale, di onestà, di probità, di carità del prossimo, di amore al sapere e al lavoro che devono essere la base di ogni religione, il catechismo di ogni uomo dabbene, il fondamento di ogni società civile. Per lui letteratura, scienza e religione vanno d' accordo. E l' anima? Altro non è che la corrente elettrica che si svolge nel nostro organismo.... Un' insalata di umanesimo e positivismo spiccioli, in salsa edificante.
Ma questo istruito, virtuoso, moralista e raziocinante Olivo non ha accoltellato e sminuzzato sua moglie? Questo è il punto. Dovrebbe esserlo. Però il memoriale indugia ad arrivarci. Sorregge la narrazione una surreale, verbosa, enigmatica follia. Olivo è matto? Ci è (si direbbe a Roma) o ci fa? Ciò rimarrà controverso fino all' epilogo del caso. E anche dopo, per noi posteri. Quando conosce Ernestina, Alberto Olivo ha trentanove anni. Lei venti e mezzo. È molto bella. S'è trovata in procinto di venire travolta dai vortici della prostituzione e, se non travolta, ne è stata lambita. È allora che Alberto, mezzo poeta e mezzo matematico, facendo sua la ragazza diventa un filantropo intero. Veste (come dire?) la divisa del sollevatore dal fango. Senonché, Ernestina non si lascia sommergere dalla gratitudine. Perché Alberto la sposi si atteggia a brava cuoca e donna di casa. Ma subito dopo le nozze (lascia intendere Olivo) è come se in lei il tarlo postribolare si rimettesse all'opera. Pettegola, spendereccia, vendicativa e violenta, Ernestina fa nascere nel marito il sospetto che voglia sopprimerlo. Come? La ragazza verserebbe nel vino che gli porta a tavola il proprio sangue mensile nella speranza di promuovere un'infezione e una malattia: il che sembra una stupidaggine disgustosa. Meno irreali appaiono i sospetti di avvelenamento, connessi a una tresca che Ernestina intratterrebbe con un giovane medico, presunto fornitore di sostanze letali. Comunque, non se ne fa nulla. 
La giovane sposa che qualche volta si sottrae ai doveri coniugali trova il marito vecchio e brutto e per di più segaligno, spilorcio, avaro. Quanto al brutto, passi. Tous les maris sont laids, diceva (come forse Olivo ignora) Montesquieu. Ma avaro! Alberto ama piuttosto considerarsi uno spenditore matematico. E si abbandona a un noiosissimo delirio contabile. Dal primo gennaio 1895 al 30 aprile 1903, riferisce, io guadagnai ventunmilaquattrocentoventisette lire, delle quali duemilaottocento andavano spese in affitti e traslochi, e duemilasettecento circa furono investite in mobilio; talché quindi quindicimilanovecentoventisette furono divorate dalle spese di mantenimento, il che porta la spesa totale a lire ventunmilaottocentoventisette.... Va avanti a lungo. 
Oltre ad essere avaro e noioso, Alberto è animato da un granitico maschilismo d'epoca. Crede in alcune norme basiliari che ripete, quasi in extremis, a Ernestina: “Il Codice dice che la moglie deve star soggetta al marito, lo deve seguire dappertutto, gli deve obbedienza e rispetto... Sei avvertita: e uomo avvisato... con quel che segue”.
Quel che seguì fu atroce. Olivo era in linea con i suoi tempi. Ernestina li precorreva. Fu questo a perderla. Si susseguirono alterchi nel corso dei quali lei usò epiteti che oggi in verità farebbero sorridere gli spettatori di Mixer-cultura: rompiscatole, impostore, vigliacco, porco, stupido (mi vomitò in faccia la parola stupido!!!). La serie, purtroppo, culminò nell'espressione quella vacca di tua madre. Allora più di oggi, di mamma ce n'era una sola: quella di Alberto, per giunta, era morta. Tutto ciò accadeva il giorno 16 giugno 1903. L' ultimo giorno della ventottenne Ernestina. Più che dal racconto di Olivo, i particolari dell' uxoricidio emergono dal resoconto del primo processo, che si celebrò fra il 31 maggio e l'11 giugno 1904. Rapido nell' uccidere sua moglie a coltellate, Alberto sarà assai pacato nelle incombenze successive. Per quattro giorni convivrà (se il verbo è adatto) col cadavere. Solo il cattivo odore lo indurrà a procedere oltre, nei modi che desumo dalle attente Notizie supplementari che Ermanno Cavazzoni pubblica in calce al libro. L'assassino vuota il torace della donna, ne scarnisce le ossa e butta le più piccole in ciò che oggi chiamiamo il water. I pezzi più grossi li chiude in una valigia. Dopo vari altri giorni raggiunge Genova. Lì noleggia una barca con un barcaiolo ai remi, e getta a mare il contenuto del suo bagaglio: un grosso pacco avvolto in carta blu. Ernestina è tutta lì. Saranno questi resti, venuti a galla, ad accusarlo. Lo arrestano. Dopo un anno di custodia preventiva, per Olivo il processo è un trionfo. La difesa sostiene l' infermità mentale, che l'accusa nega. La giuria popolare si comporta in modo strano solo in apparenza. Esclusa la follia, assolve l'imputato dal delitto di uxoricidio, infliggendogli undici giorni di carcere e 135 lire di multa per sottrazione e scempio di cadavere. Olivo se ne torna a casa. L'accusa ricorre in Cassazione, ma nel dicembre 1904 un nuovo processo rende l' assoluzione definitiva. Se il movimento femminista disponesse di un proprio archivio, il caso Olivo ne sarebbe il pezzo forte, nella sezione mostri storici. Maschilismo, perbenismo, ipocrisia sociale: nel perdono elargito all'uxoricida c' è tutto. Il messaggio che emerge dalle due sentenze è chiaro: Olivo non è matto; matto sarebbe se non l' avesse uccisa, quella donnaccia. È, in fondo, la logica del delitto d' onore, un'infamia dalla quale solo di recente la nostra civiltà giuridica s' è liberata.
Cesare Lombroso
Su tutta questa storia di ottant'anni fa aleggia lo spirito di Cesare Lombroso. E' lui lo studioso e il consigliere di Olivo, il quale anche come scrittore lombroseggia. Ma, durante il caso, il criminologo cambia più volte idea. Ha esordito coprendo Olivo di elogi ingegno acutissimo, mente lucida e sostenendo che non di un delinquente si tratta, ma di un semplice criminaloide. Ha proseguito affermando che la iracondia morbosa epilettica che lo ha spinto al delitto è stata provocata dal contegno di Ernestina, epilettica a sua volta (il vero assassino è sua moglie: lo stesso Olivo se ne convince, insensatamente). Poi, parlando come perito nel processo conclusivo, Lombroso ha dipinto l'uxoricida come un povero matto. Finirà per criticare la sentenza: avrebbe preferito per l'imputato il manicomio criminale a vita. Ma ormai l'enigmatico Olivo è quasi beatificato. In aula (racconta Cavazzoni nella sua appendice documentaria) le signore eleganti lo applaudono. Lui piange di gioia. Un solo nemico gli rimane: la stampa, assai critica verso il verdetto. Se servisse a qualcosa, a quegli antichi colleghi grideremmo: “Bravi!”.


“la Repubblica”,14 maggio 1988  

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