7.7.16

L'ultima fiamma di Muhammad Alì (Alberto Caprotti)

Il mese scorso, in occasione della morte di Muhammad Alì “Avvenire” lo ha ricordato - tra l'altro - con un articolo di Alberto Caprotti molto coinvolgente. Ne posto qui un ampio stralcio. (S.L.L.)

Tremava come un budino mentre provava ad accendere l’Olimpiade. Gonfio, spiritato, morsicato dal Parkinson che non gli ha chiesto chi fosse prima di iniziare a prenderlo a pugni. Certe malattie sono vigliaccamente ignoranti: dovrebbero sapere prima di aggredire. Dovrebbero informarsi, per rispetto di chi hanno deciso di distruggere. Magari cambierebbero idea. Magari. Ci vuole cuore comunque per presentarsi così. Ci vuole tanto amore per se stessi, per il messaggio che si vuole ancora spedire al mondo. Che in quella notte di fuochi ad Atlanta 1996 avrebbe voluto aiutare il suo eroe stanco.
Era uscito dal letargo Muhammad Alì, ma non poteva svegliarsi del tutto. Un orso telecomandato al quale avevano chiesto di accendere la fiaccola di Olimpia. Per la prima volta nella storia dei Giochi, l’ultimo tedoforo non arrivava di corsa, ma barcollando. Non aveva muscoli, ma occhi spenti dalle medicine. Non aveva bisogno di avere futuro, ma viveva del suo straripante passato. Può bastare, per qualcuno. Per chi, anche se non ce la fa più a dire, ha ancora maledettamente tanto da dare. Eccolo “The greatest”, il pugile più grande della storia se ne va, dopo aver commosso prima per la sua forza e poi per la sua disarmante debolezza. L’America dei rimorsi si ricaccia le lacrime in gola e capisce che ci sono momenti che ancora fanno battere il cuore per qualcosa che non sono le strisce della bandiera o la paura di una bomba. E si sdraia ai piedi di questo monumento di resistenza umana, il suo padre nero, il ribelle storico, il soldato che non volle andare a uccidere i vietcong, il testardo musulmano fuori dal mondo e fuori dal tempo che in un altro tempo ha ripudiato, amato, sopportato, tradito. Muhammad Ali non è più nulla di quello che è stato. Ora paradossalmente è molto di più. Adesso ha la faccia dell’amore stampata sotto gli occhi liquidi, quell’amore che regali volentieri quando la compassione supera tutto.
Ci ha lasciati ieri per una crisi respiratoria, appesantito dalla vita, intontito dai cazzotti inutili presi per poter finanziare la sua causa [...]
Questo ex nemico dell’America, il fuorilegge che convocato in caserma il 28 aprile del 1967 per essere arruolato nella guerra in Vietnam, malgrado tre anni prima lo avessero destinato ai servizi sedentari, rifiutò recitando una poesia perché lui contro quei musi gialli non aveva niente. E che quando gli chiesero se aveva capito bene cosa voleva dire rifiutare l’arruolamento, rispose “benissimo”. Si prese l’equivalente di 10 milioni di euro di multa, e cinque anni di carcere.
Ne aveva 25 di anni in quei giorni il giovane Alì, battezzato Cassius Marcellus Clay, nato a Louisville come un altro grande nero della storia. Ma quella non era la sua musica, non era la sua guerra. E nemmeno il suo nome. Aveva un’altra battaglia da fare, un’identità da cambiare, un conto da pagare, un ruolo da rivoluzionario da difendere, un’altra religione da abbracciare. Un fenomeno sul ring, un diavolo fuori. Uno che si accanì su Ernie Terrel che per irriderlo durante un match continuava a chiamarlo “signor Clay”. Dopo ogni pugno, lui aggiungeva una domanda: «Come hai detto che mi chiamo, fottuto bastardo?». Uno a cui il Ku Klux Klan mandò i sicari a casa, a scaricare i fucili sul portone. Uno che è stato amico di tutti quelli che non piacciono all’America, soprattutto quella bianca: Malcom X, Saddam Hussein, Fidel Castro. Che pregava la benedizione di Allah prima di infilare i guantoni. E che ha sopportato anche il furto più ingiusto: quello del tìtolo mondiale. Gli presero pure quello, dichiarandolo decaduto. Troppo indegno lui per poterlo mantenere, troppo terrorizzata la societàin cui viveva per consentire che l'uomo che prendeva a cazzotti il mondo potesse anche parlare e dire cose che facevano male.
Non è stato un santo Alì, ha picchiato con cattiveria anche fuori dal ring. E ancje chi non se lo meritava. Negli anni ha fatto ammalare di depressione una moglie che tradiva con la naturalezza con cui ballava davanti agli avversari, ha divorziato da un’altra perché non accettava di mascherarsi il viso come impone l’islam, ha contribuito a fare eleggere un governatore corrotto solo perché così gli aveva chiesto Don King, suo potente e smaliziato manager di allora. Soldi, amicizie, scelte. Molto ha sbagliato e molto ha sprecato. Come molto ha pagato. Arrogante, sincero, eccessivo. In prigione un giorno lo chiamò il filosofo Bertrand Russell per offrirgli la sua solidarietà: «Cercheranno di spezzarla perché lei è il simbolo di una forza che non riescono a distruggere. ..». Alì gli rispose: «Grazie, lei è meno idiota di quello che sembra».
Tornò sul ring dopo 43 mesi di pugni incatenati: a danzare, a rivincere, a fare una cosa mai riuscita prima: conquistare due volte il titolo mondiale dei massimi. «Vola come una farfalla, pungi come un’ape», gli ricordava sempre Drew Bundini Brown, il suo secondo all’angolo. E lui volava e pungeva facce piene di pugni. Così diverse dalla sua di allora, intensa e senza ferite. Ma così uguale a quella di oggi, tumefatta dalla malattìa e da troppe cicatrici nascoste. «Avrei preferito non vederlo conciato così. Per rispetto, per quello che è stato...», dirà di lui Nino Benvenuti pensando alla notte infinita di Atlanta.
Non è così. Perché la pietà ha sempre un senso. E l’emozione che trasmette un simbolo non merita mai di essere oscurata. L’emozione di un uomo che la medaglia conquistata nel 1960 la buttò in un fiume. Per il colore della sua pelle negli Stati Uniti gli avevano rifiutato l'ingresso in un bar. «La medaglia d'oro? L'ho buttato via. Perché se non mi serve nemmeno per bere una birra, vuol dire che conta davvero poco...».
Alì dopo nove figli e quattro mogli, ha avuto sino a poco tempo fa ancora una vita pienissima. Finché è riuscito a farlo da solo, si è caricato in spalla poveri, drogati e carcerati, ha devoluto ad associazioni umanitarie l’equivalente di almeno 55 milioni di euro, non ha mai smesso di schierarsi, di farsi tirare la vestaglia da chiunque avesse un diritto da rivendicare, un sopruso da denunciare. E anche adesso che parlava solo con gli occhi, riceveva ancora centinaia di lettere al giorno. Perché amava la vita che doveva ancora prendere a pugni, e soffriva per quella a cui doveva sopravvivere, garantisce chi gli stava vicino.
Alla fine, nel buio infuocato di Atlanta 1996, la regia dei Giochi inventò uno stacco televisivo buono per impedire di vedere che le Olimpiadi si erano accese anche senza il tocco di Ali. Ma nessuno l’ha saputo. E nemmeno avrebbe voluto. Questione d’amore, anche questa. In una notte nera di fiamme che stentavano a bruciare, il mondo ha guardato stordito solo quel suo braccio che tremava. Riconoscendo un eroe, giusto o sbagliato che fosse, in un tempo senza fuochi. Dove gli eroi, quelli giusti come quelli sbagliati, da un pezzo hanno finito di esistere e di danzare la vita e lo sport.

“Avvenire”, domenica 5 giugno 2016

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