21.7.16

Il mio amico Mercurio. Intervista a Michel Serres (Enrico Filippini 1984)

ROMA - Due anni fa, un sabato mattina, esaurite le fatiche di un'inchiesta per cui avevo trafficato tutta una settimana in giro per Parigi, andai alla Sorbona a sentire una lezione di Michel Serres, che avevo appena sentito nominare. Fu una bellissima lezione su alcuni prodigi descritti da Tito Livio, e ciò che mi colpì fu la qualità del linguaggio e dell'esposizione: in un certo senso era come ascoltare uno scrittore antico, un discorso infinitamente diverso dal normale discorso filosofico francese, una prosa all'aria aperta, ricca di evidenze e suggestioni, intensamente evocativa.
Ora Michel Serres (di cui queste pagine si sono ripetutamente occupate), è venuto a Roma per parlare di Roma, e coraggiosamente ha tenuto la sua conferenza nel pomeriggio dei funerali di Enrico Berlinguer. Nel frattempo sono andato a trovarlo all' Ambasciata di Francia, e me lo sono trovato lì come me lo ricordavo: alto, asciutto, solido, con la bella faccia squadrata e insieme puntuta, due intensi occhi da uccello, e armato di una squisita cortesia. Molto diverso da un normale professore francese. 
Ho sentito dire, oppure ho letto da qualche parte, che lei ha fatto il marinaio.
“E' vero. Nella mia famiglia c' era una tradizione marinara. Così a diciotto anni entrai alla Scuola navale, che forma gli ufficiali di marina".

Non è una cosa abituale per un filosofo...
"No. Però colui che in Francia parlò per la prima volta di Freud era un ufficiale di marina. Più tardi, navigai nell' Atlantico, nell'Oceano Indiano, nel Mediterraneo. E quell'esperienza ha avuto una grande influenza su di me. Dopo Sartre abbiamo avuto un attaccamento unico al linguaggio filosofico: tutto avveniva dentro il gergo della filosofia. Per me non è così: io sento molto il legame con le cose, coi paesaggi, coi luoghi. Mi piace trovare le cose tra le cose, e non le cose dentro la lingua".

E poi cos'è successo?
"Lasciai la marina per ragioni per così dire politiche. Non accettavo più che la mia vita fosse legata a qualche cosa che aveva a che fare con la guerra. Nel 48-49 adottai un atteggiamento che oggi si direbbe da obiettore di coscienza".

A quell'epoca la filosofia francese era dominata, oltre che dall'accademia, da Sartre, da Merleau-Ponty e dal marxismo.
"Sì. Il marxismo era dominante, in forme molto diverse da quelle italiane. Althusser fu mio professore tra il ' 52 e il ' 56, ma presto venni a trovarmi in disaccordo con lui, soprattutto sulla questione della scienza. Non capivo le sue teorie ipermarxiste su questo punto. Il fatto è che nella marina avevo studiato matematica, ero soprattutto un matematico, e i miei interessi andavano alla storia della scienza. Come lei forse saprà, ho scritto un libro su Leibniz, cioè sull'inventore delle matematiche moderne, e uno su Lucrezio, l'inventore della fisica".

Ma agivano su di lei, come a un certo momento qui da noi, influssi anglosassoni?
"No. In certo modo mi sono formato da solo, sono un po' un autodidatta, ho costruito la mia 'cosa' in solitudine, a partire dal problema della comunicazione e delle macchine per calcolare, e all'insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea".

In che senso?
"Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l'economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell'assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi".

Ma comunicazione che vuol dire?
"All'inizio, all'epoca dello strutturalismo, davo del termine "struttura" un' interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell'informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia è raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall'una all'altra. E' quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile".

In Italia c' è stata una forte tradizione idealista e marxista. L' interesse per la scienza tende a diventare scientismo.
"Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c'è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c'è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un'opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D' Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E' come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero".

Ora sta scrivendo qualche cosa?
"Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. È un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?".

L' ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di "crisi" di quell'idea e di quella tradizione. C'è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c'è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici.
"Sì. Nessuno scienziato si occupa per esempio delle ripercussioni sociali e culturali della scienza. Quanto alla difficoltà, di fatto, a un certo momento, tutto il discorso scientifico si mette a girare intorno a un solo concetto... In fondo, vede, il mio discorso è morale: tutta la mia filosofia, il mio tentativo di alleanza, 03034 è nato da Hiroshima, dall'anno zero della cultura occidentale".

All' inizio del suo ultimo libro, questo che ho in mano, Rome, Le livre des fondations - di cui sul nostro giornale ha parlato Pier Aldo Rovatti - lei dice che, a un certo momento, fu espulso dal mondo filosofico francese...
"Già, è un ricordo penoso, non ne vorrei parlare. Ancora adesso insegno non al dipartimento di filosofia, ma a quello di storia. Sa, la filosofia francese è dogmatica: bisogna essere o marxisti, o freudiani, o strutturalisti, o idealisti. Io sono soltanto un autore che va per le sue strade".

Per questo è approdato a Roma?
"Da tempo voglio fare un libro sulla fondazione antropologica della scienza, capire che cosa è successo all' origine della scienza fisica. I greci si occupavano di numeri e di categorie. Io vorrei risalire, da Lucrezio, al Seicento, alla nascita di una scienza dell' oggetto concreto".

Ma che vuol dire fondazione?
"Fondazioni. Essenziale è il plurale. Roma è una comunità che torna sempre alla sua fondazione. Se ne stacca, come una mosca che si allontana da un punto, e poi ci ritorna, continuamente. Si tratta di ripercorrere questo movimento. Forse nella storia agisce non soltanto la logica, ma anche la probabilità. Forse vi agisce un accoppiamento mostruoso tra l'ordine e l'aleatorio. È un po' un matrimonio tra Newton (la legge) e Democrito (la vibrazione confusa degli atomi). All'inizio del libro, come vedrà, introduco l'immagine delle termiti che costruiscono un termitaio: sembra un insieme che si muove a caso e tuttavia a un certo punto si organizza, acquista una forma...".

Questo ha a che fare con quella parola arcaica che lei usa nel libro precedente e che è "noise"? Che vuol dire "noise"?
"Come lei sa, oggi noise in inglese significa rumore. Nel Medioevo, in francese, noise significava chercher querelle. Come lo tradurrebbe?".

Con "attaccar briga".
"Ecco, nel senso in cui lo uso io, noise vuol dire sia l'una che l'altra cosa. Il disordine, il contrasto, il tumulto, e il rumore di fondo, il rumore originario. Diciamo così: in Hegel il problema era: c'è una legge nell'attaccar briga, nella contraddizione? Il mio problema è: c'è un ordine a partire da quel confuso rumore di fondo? Il caso può portare ordine nel sistema sociale? Legga qui, nella quarta di copertina, l'ho scritta io...".

Leggo: "folle romane infuriate, legioni sparpagliate nella pianura, contadini un po' sbronzi in piena mietitura, mandrie di buoi al pascolo in riva al fiume, la cavalleria nemica in piena carica, forze disseminate, clamori, acclamazioni...". E poi: l' ordine romano. Sembra di leggere un autore antico...
"Il mio tentativo è di scrivere un' antropologia reale. I miti romani sono straordinariamente profondi. Io vedo nel mito romano qualche cosa come la scatola nera: descrivendolo si può sperare di dire tutto ciò che si può dire quando non si sa".


La Repubblica, 15 giugno 1984

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