28.7.16

La Toscana per Timpanaro, il rivoluzionario erudito (Beatrice Manetti)

Un grande solitario lo era stato sempre, però negli ultimi anni, anche prima della malattia che il 26 settembre dello scorso anno lo avrebbe portato alla morte, Sebastiano Timpanaro si era praticamente autorecluso. Tra via dei Ginori, dove abitava, e via degli Alfani, dove frequentava l'Istituto di filologia classica, il suo cappotto grigio non si vedeva quasi più. Erano diventate rare anche le sue torrenziali telefonate agli amici. «Cosa esco a fare? - diceva a Marcello Rossi, il direttore del «Ponte», con cui aveva lavorato per più di vent'anni alla Nuova Italia - Incontro solo una gran massa di imbecilli, che per di più mi salutano».
Alla fine di una vita di studi e di battaglie, rimanevano l'ironia e lo sdegno. Rimaneva Leopardi. Non il Leopardi dell'equivoco romantico, ma quello che lui stesso aveva contribuito a rivelare nei suoi saggi sull'Ottocento italiano e nel quale in fondo si identificava: il pensatore ateo, materialista, pessimista, convinto che la felicità sia il fine di tutte le creature e l'infelicità il loro destino. Contrariamente alla sua irruenza di timido e alla sua impazienza di rivoluzionario, l'eredità di Timpanaro è un farmaco ad azione lenta e a largo raggio, come tutte quelle che toccano l'essenziale della condizione umana. Se ne accorgono, a un anno dalla morte, le due città della sua vita, Pisa e Firenze, che gli dedicano una mostra a Palazzo Lanfranchi e un convegno di due giorni organizzato dalle rispettive università, dalla Scuola Normale Superiore e dal Gabinetto Vieusseux (domani a Pisa, nella sala azzurra della Normale, intervengono tra gli altri Vincenzo De Benedetto e Tullio De Mauro; sabato mattina, nell'aula magna dell'università di Firenze, tocca ad Antonio Rotondò e Michael Reeve, mentre il pomeriggio a Palazzo Strozzi è la volta di Alessandro Pagnini e Romano Luperini).
In questi giorni, inoltre, è in libreria un numero speciale del «Ponte», intitolato «Per Sebastiano Timpanaro» e corredato di una preziosissima bibliografia (entrambi a cura di Michele Feo). L'indice della rivista e il programma del convegno parlano da soli della vastità e della complessità del «continente Timpanaro»: filologia classica, studi latini, letteratura italiana, linguistica, filosofia, psicanalisi. «Ognuno ha il suo Timpanaro - è il commento di Marcello Rossi - I filologi esaltano il filologo, i letterati il letterato, i filosofi il filosofo. Ma nessuna delle discipline che Sebastiano ha frequentato basta ad esaurirlo. Personalmente ricordo un grande redattore, che ogni pomeriggio teneva lezioni memorabili nel suo ufficio della Nuova Italia. Quanto a lui, sosteneva di essere solo un dilettante, che si era occupato di troppe cose e le aveva fatte tutte male».
«Nella sua modestia Timpanaro tendeva a minimizzare i suoi lavori - interviene Luca Baranelli, che con Timpanaro ha condiviso amicizie e passione politica - ma appena si cercano verifiche o riscontri specifici, si ha la conferma che era uno studioso eccezionale, un grandissimo filologo e un latinista sommo. Io ho conosciuto e apprezzato di più l'uomo politicamente impegnato, appassionato alle sorti del mondo, ma non mi sognerei di ridurlo a questo». E tuttavia Timpanaro è stato anche questo. Un militante di base, come amava definirsi.
«Si dichiarava marxista - prosegue Baranelli - sia pure sui generis, come del resto ogni marxista che abbia pensato e detto qualcosa di originale e di nuovo. A un certo punto, mi pare nel suo libro sul materialismo, si è definito "marxistaleopardista". Non si faceva nessuna illusione sulle "magnifiche sorti" dell'umanità». Però non rinunciava a combattere.
Il suo grande nemico aveva un nome che oggi la sinistra si vergogna a pronunciare: capitalismo. Per questo forse la vicenda politica di Timpanaro è un susseguirsi di esodi, prima dal Psi al Psiup, poi, a metà degli anni Settanta, l'esperienza brevissima col Pdup, quella traumatica col gruppo del Manifesto, più di recente le simpatie per Rifondazione, e infine, ancora una volta, la solitudine. «Lo hanno definito un pensatore inattuale - è ancora Rossi che parla - Era un socialista nel vero senso, uno che voleva cambiare il mondo. Certo, in questo secolo si trovava male, ma i rivoluzionari non stanno bene da nessuna parte».


“la Repubblica”, 22 novembre 2001  

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