17.7.16

L’islam spiazza il terzomondismo e l'antimperialismo marxista (Donatella Di Cesare)

Minareti a Instambul
Questa di Donatella Di Cesare, sui rapporti tra l'islam e i movimenti anticapitalistici di ispirazione marxista, mi pare una riflessione intelligente, un utile punto di partenza per l'approfondimento. Forse andrebbe fatto un discorso generale sulle religioni. Neanche il cristianesimo, specie nella sua variante più universalistica, il cattolicesimo, sembra aver rinunciato del tutto all'idea di soppiantare la politica, al progetto di intervenire nelle contraddizioni fondamentali del nostro tempo sulla base di una indiscutibile fede religiosa. (S.L.L.)
Miliziani del cosiddetto ISIS
L’islam politico sembra essere oggi l’unico ideale in grado di mobilitare masse di donne e uomini e di sfidare l’ordine globale, l’unica bandiera per la quale migliaia di giovani sono pronti ad affrontare la morte dall’altra parte del pianeta. Sarebbero già oltre 20 mila i jihadisti, giunti dai cinque continenti, per combattere nelle file dello «Stato islamico dell’Iraq e del Levante». Le brigate del jihad mondiale, riunite nel 2016 in Siria, richiamano alla memoria un precedente, che si staglia, indelebile, nel nostro immaginario, quello delle «Brigate internazionali» — costituite da circa 32 mila stranieri — che dal 1936, in Spagna, lottarono contro il generale Franco, il fascismo e il nazismo. A giustificare il paragone è un impegno senza frontiere.
Si tratta, senza dubbio, di un paragone amaro, che suona quasi come un affronto per la sinistra, erede delle «Brigate internazionali». Che dire, infatti, se la solidarietà internazionale dei lavoratori, l’alleanza tra gli emarginati delle periferie del mondo, la lega tra gli oppressi delle metropoli occidentali, viene soppiantata dal mutuo soccorso della fratellanza musulmana? Difficile rispondere. Perciò la questione viene sistematicamente passata sotto silenzio. A meno di non scegliere una delle numerose scorciatoie interpretative che indicano nei jihadisti dei «mostri sanguinari», degli «psicopatici narcisisti», le «vittime della crisi economica», il «risultato immediato del disordine globale», la «prova del naufragio dell’integrazione», i «figli di internet e dei videogiochi»...
Sono forse i luoghi comuni a mettere sulla pista sbagliata. Anzitutto quello del «multiculturalismo», un termine abusato, che spinge a leggere il confronto tra mondo musulmano e Occidente come un conflitto tra un’identità particolare e un’appartenenza universale. Ma lo scontro — ha spiegato di recente il filosofo francese Étienne Balibar nel libro Saeculum. Culture, religion, idéologie, edito da Galilée — è piuttosto tra differenti universalismi, rivali e incompatibili. A contrastare l’egemonia del sistema capitalistico non è più solo la sinistra internazionalista. Lungi dall’essere il terzo incomodo, l’islam appare l’unica potenza capace di imporre un universalismo militante che si ripromette di essere l’avvenire stesso di questo mondo.
E la sinistra? Come legge questo scontro a tre? Considera l’islam un temibile avversario oppure un possibile alleato, lo ritiene un concorrente aberrante e perverso, sebbene temporaneo e caduco, oppure un complice necessario nella lotta contro l’arroganza del mercato? Perché questo è almeno certo: che da tempo il capitale, grazie anche alla tecnica, ha varcato i confini, estendendosi su scala planetaria.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, mentre andava delineandosi la vittoria incontrastata del liberalismo economico, in cui molti si sono affrettati a scorgere l’orizzonte ultimo della storia, le disillusioni si sono moltiplicate e la sinistra ha subito il contraccolpo restando sulla difensiva. Molte speranze sono state allora riposte nel terzomondismo, etichetta con cui, negli ultimi decenni del Novecento, si è indicato quel movimento che ha sostenuto le lotte di liberazione dei Paesi del Terzo Mondo dal dominio coloniale.
All’alba del nuovo secolo, però, il terzomondismo ha assunto contorni diversi: da Seattle a Bangkok, da Porto Alegre a Parigi, si è articolato in una galassia no-global che comprende organizzazioni non governative, associazioni ecologiste, sindacati e gruppi politici che rivendicano diritti dell’immigrazione, del lavoro, ecc. Senza dimenticare l’esperienza dell’anticolonialismo, passata, per motivi storici, in secondo piano, questa galassia si è coagulata intorno alla necessità di rispondere alla uniformazione del Mcmondo con una alternativa anti-liberista, indicando il bisogno di vivere in forme diverse, nel segno della solidarietà. L’«altermondismo», come viene chiamato il movimento no-global nella sua versione ultima, ha cercato di contrastare l’eterno trionfo del mercato, mostrando che, proprio se si muove dal «mondo altro» delle periferie dimenticate, un «altro mondo» appare possibile.
Sennonché, in mancanza di un chiaro progetto politico, la rivoluzione senza frontiere si è tradotta in una mobilitazione senza domani. Mentre l’internazionalismo tentava di scalfire la globalizzazione capitalistica, una nuova forza ha fatto una spettacolare irruzione sulla scena della storia: l’islam politico. E ben presto, con la sua logica transnazionale, la sua aspirazione trascendente, per un verso ha lanciato una sfida inedita all’immanenza profana del capitale, per l’altro ha tentato di spodestare la sinistra terzomondista. In un saggio pubblicato nel 2015, Marxism, Orientalism, Cosmopolitanism (Haymarket), Gilbert Achcar, uno dei pochi intellettuali ad aver toccato questo argomento scottante, è ricorso a espressioni taglienti: «L’integralismo islamico è cresciuto sul cadavere in decomposizione del movimento progressista».
A parte rare eccezioni, la sinistra ha reagito con una ambivalenza fatale. Già durante la guerra d’Algeria era emerso con chiarezza che l’islam non costituiva un semplice «di più» ma era piuttosto il cuore pulsante della rivolta. Via via che l’islamismo si è imposto nel paesaggio politico internazionale, la sinistra terzomondista è stata costretta a scegliere: o prendere le distanze dai movimenti islamisti, piccolo-borghesi, antimodernisti, per molti versi reazionari, schierandosi dalla parte delle donne, degli omosessuali, fino a coalizzarsi con le correnti liberali; oppure scegliere il «fronte unico» islamo-socialista, in nome della comune lotta anti-imperialista. Malgrado le frequenti oscillazioni, ha finito per prevalere la tattica rischiosa dell’alleanza, dettata da numerosi motivi. Anzitutto dalla convinzione che malessere e ideali dei giovani islamisti avrebbero potuto essere facilmente «canalizzati» verso obiettivi progressisti. Sostenuta a chiare lettere nel fortunato pamphlet The Prophet and the Proletariat, pubblicato nel 1994 dall’attivista britannico Chris Harman, questa tesi, che ha resistito almeno fino alle «primavere arabe», spiega il sostegno incondizionato all’islamismo inteso come movimento anti-capitalista e anti-imperialista. Il sostegno è giunto fino ad appoggiare organizzazioni fondamentaliste come Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, e a unire, nelle manifestazioni contro la guerra in Iraq, le proprie bandiere a quelle di gruppi vicini ai Fratelli musulmani.
Il criterio che ha preso il sopravvento è quello del nemico principale: dato che si deve sconfiggere l’imperialismo, sarà giocoforza essere dalla parte dei talebani. Al fondo si scorge una presunzione paternalistica mista all’ottimismo, molto occidentale, di riportare quei fratelli minori, non ancora emancipati, che si muovono sull’onda dell’integralismo religioso, all’interno della grande flotta socialista.
E la religione? L’islam politico non ha forse sempre rinviato al suo orizzonte teologico? Certo. Ma c’è un precedente, spesso sottovalutato, nella storia del terzomondismo, ed è la teologia della liberazione. Nell’America latina, a partire dagli anni Sessanta, la sinistra atea trova un formidabile alleato nel profetismo anti-imperialista di quei preti delle favelas che, appellandosi alla giustizia e alla uguaglianza, coniugano il Vangelo con la lotta di classe. Sembrano così realizzare quel vincolo tra socialismo moderno e antico messianismo ebraico-cristiano, evocato già da Rosa Luxemburg. Ecco che la religione appare — secondo il famoso e complesso passo di Marx — non tanto espressione della miseria quanto «protesta» contro la miseria, non tanto «oppio» quanto eccitante dei popoli.
Perché non dovrebbe accadere lo stesso con l’islam politico? Che la fiducia domini ancora nella sinistra latino-americana non è un caso. Molto presto, però, sembra evidente che l’islamismo non intende appoggiare i movimenti progressisti, bensì emarginarli e soppiantarli. Questo accade già nell’Iran di Khomeini. Nel 1978 Michel Foucault smette gli abiti del filosofo per recarsi a Teheran come inviato del più grande quotidiano italiano, il «Corriere della Sera». Critico verso il marxismo, è attratto dall’evento dell’insurrezione. Intervista operai e studenti: «Che cosa volete?». Si aspetta in risposta «la parola “rivoluzione”». Invece quelli replicano «il governo islamico». Per Foucault la religione non è il velo che maschera la rivolta bensì è il suo vero volto. «L’islam — che non è semplicemente religione, ma modo di vita, appartenenza a una storia e a una civiltà — rischia di costituire una gigantesca polveriera». Così scrive in un articolo dell’11 febbraio 1979.
Si capisce allora perché quei suoi testi rari e appassionanti, grazie ai quali Foucault si chiama fuori dal coro, siano ancora oggi fonte di discussione. Su questo tema è tornato di recente Slavoj Žižek nel suo volume In difesa delle cause perse (Ponte alle Grazie). Proprio Žižek fa parte di quei pochi che sollecitano l’abbandono di alcuni tabù, a cominciare dalla «proibizione di ogni critica dell’islam in quanto caso di “islamofobia”». Tanto più che — come ha osservato Jean Birnbaum nel suo ultimo libro — prevale ancora un «silenzio religioso». Come se fosse impossibile da un canto dissociare la fede musulmana dalla perversione islamista, dall’altro riconoscere la dimensione religiosa della violenza jihadista.
Non è facile per la sinistra terzomondista scoprire oggi che, seguendo una bussola ben diversa, altri hanno imparato a navigare meglio nell’oceano della collera universale e della speranza senza frontiere. Troppo tardi? Forse no. Purché si ammetta che i jihadisti del Levante non vogliono aprire un nuovo capitolo della storia umana ma chiudere una volta per tutte con la storia profana, non vogliono portare la politica alla sua apoteosi ma disertarla. E purché si riconosca che la fraternità del terrore non è la fratellanza dei popoli, che il califfato, a cui aspira il jihad mondiale concentrato in Siria, non è l’Internazionale per la quale combatterono i volontari di Spagna.


“Corriere dela sera - La Lettura” 3 luglio 2016

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