4.7.16

Vitalità di Palazzeschi. Grazia e pathos di «Sorelle Materassi» (Mario Lunetta)

Aldo Palazzeschi
Cos’è rimasto nella versione televisiva di Sorelle Materassi dell’aerea perfidia che anima tanta parte del romanzo di Palazzeschi; del movimento di balletto tra malinconico e crudele che è il suo ritmo più interno, pur dentro la cornice naturalistico-manzoniana; infine del celeste cinismo in un personaggio come Remo, così superbamente imprendibile e idolatrato dalle zie quanto amato dall’autore? Ben poco, credo: a riprova che la vitalità di un libro non può essere impunemente travasata nelle immagini dello schermo piccolo o grande, senza esserne del tutto stravolta, nel bene o nel male. Né è forse un caso soltanto che la nostra TV si sia interessata a uno dei testi della fase mediana dello scrittore fiorentino, quella in cui, dopo la geniale e spericolata giovinezza dell’Incendiario e del Codice di Perelà, la , sua carica anticonformistica e antiborghese pare come assopirsi, in concomitanza di climax, si direbbe, con la torva ebetudine della trionfante bestia fascista.
Ma non si deve dimenticare, comunque, la fermezza e la lucidità con cui Palazzeschi seppe difendere pur negli anni più bui la propria indipendenza di vedute e di coscienza morale: come pochi dei suoi colleghi in letteratura. A regime appena caduto, Luigi Russo, che pure aveva faticato a penetrare l'amarezza beffarda che sta al fondo - del «divertimento» palazzeschiano, scrisse: «Il Palazzeschi è stato uno dei più aguzzi, più taciturni e più dolorosi antifascisti che io abbia mai conosciuto». Ora, è chiaro che già un romanzo come Il Doge del 1967, che è il testo più alto della sua rigogliosa vecchiaia e certo uno dei più ricchi della sua intera produzione, sarebbe stato decisamente più scomodo, per il suo investire direttamente certi temi ideologici di fondo dei nostri anni senza il supporto romanzesco «tradizionale» che c’è nelle Materassi, e in più per la sua sorniona, frizzante levità e irrisione delle convenzioni sociali e narrative.
Nel Doge, certo, lo scatto travolgente del Perelà s’è attenuato senza offuscarsi, nel senso che la «saggezza» del vecchio poeta, a differenza dell’esuberanza avanguardistica del giovane estensore del Codice dell'uomo di fumo, procede per movimenti avvolgenti e mette in atto una strategia aggirante: ma è sicuro che la fase inventiva del tardo Palazzeschi è così ammirevole proprio per il gusto dell’avventura e la assoluta mancanza di rispetto per il proprio simulacro che la contraddistingue. Palazzeschi, insomma, è fortunatamente refrattario alla prudenza; e se negli anni verdi seppe lanciare un irriverente messaggio di guastatore delle certezze borghesi dell'Italia giolittiana, irridendone certi capisaldi ideologico-linguistici coagulati nel pomposo paganesimo carducciano, nell’arcaismo imperialistico e magniloquente di D’Annunzio e nel morbido populismo piccoloborghese di Pascoli (elementi, i due primi almeno, che sotto altra forma passeranno nell’ala d’assalto del futurismo marinettiano, ma da cui anche il Palazzeschi «futurista» andò esente), in tempi più recenti lo scrittore fiorentino adopera il nonsense come libero, sbarazzino piacere dell’invenzione, ma più spesso come impavido rifiuto e derisione dei «sensi» e delle forme di comunicazione linguistica e sociale comunemente accettati e convenzionalmente trasmessi.
Sorelle Materassi è del 1934. Lo precede di due anni un libro a suo modo «di memoria», una memoria rievocativa affettuosa cd ironica della piccola Toscana, ancora di tinta granducale ai tempi di Umberto I, come Stampe dell’Ottocento. Palazzeschi sembra - aver messo le briglie al suo temperamento, e al tempo stesso, quasi automaticamente, si fa presente in lui l’esigenza di misurarsi con la tradizione. Svevo è per quegli anni scoperta troppo recente, e la nostra tradizione significa innanzitutto Manzoni e Verga. In Sorelle Materassi se ne avvertono i segni, che non sono sempre felici. Ma la grazia e il pathos del romanzo sono altrove: nell’irrinunciabile, inguaribile amor vitae che è del Palazzeschi di sempre, fin dai lontani esordi in versi dei Cavalli bianchi (1905); nell'impermeabilità ai disinganni di Teresa e Carolina, le due grottesche (e stupende) sorelle ricamatrici di Coverciano; nella luce miracolosa e un poco sinistra nella sua perfezione che emana dal bellissimo nipote Remo; nell’ambiguo alone di morbido, sfumato erotismo che non viene mai enunciato ma s’intuisce di continuo tra loro, trinomio imperfetto cui fanno da appendice la più giovane sorella. Giselda, la domestica Niobe e gli infiniti comprimari e comparse.

Poi c’è il paesaggio di Firenze e dintorni: su cui, tra l’altro, s’apre il romanzo, quasi celebrando un deliberato «omaggio» a «quel ramo del lago di Como». Come per il Flaubert di Madame Bovary «Emma, c’est moi», così per il Palazzeschi di questo romanzo sono « lui » le due candide, disperate e vitalissime sorelle. Ma proprio perché il procedimento narrativo dello scrittore introduce costanti «distrazioni» alla presa diretta del tema conduttore, qua e là i personaggi sembrano sfuggirgli pur nella generale saldezza del racconto. Ove fallisce (parzialmente) il Palazzeschi «manzoniano» e il Palazzeschi «naturalista», le vittorie più durature del romanziere sono nel suo gran senso della commedia, che vira nel tragico mediante la smorfia, il singhiozzo, lo sghignazzo. È qui la profonda, drammatica serietà di questo cattolico sui generis, la cui sola garanzia di fronte alla vita (e alla morte) consiste in uno stato di grazia esistenziale che detesta tutte le ipocrisie.


l'Unità / giovedì 5 ottobre 1972

1 commento:

  1. Guardate che detestava anche i comunisti e nelle "Sorelle Materassi" ironizzava su Lenin. In "Roma", poi, condannava la lotta di classe e gli agitatori sociali comunisti, e difendeva il Cattolicesimo: non quello dei preti alla don Zeno Saltini, ma quello dogmatico, da accettare senza se e senza ma. Il "Doge", infine, non è assolutamente una parodia su Mussolini: il Doge è Vittorio Cini, un grande amico di Palazzeschi, che nel dopoguerra rimise in sesto Venezia. Palazzeschi dichiarò poi che il romanzo in sé è una metafora sul mistero della nostra esistenza. Dimenticavo: votò monarchia al Referendum, ottenne persino il cavalierato da Umberto II e nel 1974, a maggio, si espresse contro il divorzio. Cordiali Saluti, Luca

    RispondiElimina