Aldo Palazzeschi |
Cos’è rimasto nella
versione televisiva di Sorelle Materassi dell’aerea perfidia
che anima tanta parte del romanzo di Palazzeschi; del movimento di
balletto tra malinconico e crudele che è il suo ritmo più interno,
pur dentro la cornice naturalistico-manzoniana; infine del celeste
cinismo in un personaggio come Remo, così superbamente imprendibile
e idolatrato dalle zie quanto amato dall’autore? Ben poco, credo: a
riprova che la vitalità di un libro non può essere impunemente
travasata nelle immagini dello schermo piccolo o grande, senza
esserne del tutto stravolta, nel bene o nel male. Né è forse un
caso soltanto che la nostra TV si sia interessata a uno dei testi
della fase mediana dello scrittore fiorentino, quella in cui, dopo la
geniale e spericolata giovinezza dell’Incendiario e del
Codice di Perelà, la , sua carica anticonformistica e
antiborghese pare come assopirsi, in concomitanza di climax,
si direbbe, con la torva ebetudine della trionfante bestia fascista.
Ma non si deve
dimenticare, comunque, la fermezza e la lucidità con cui Palazzeschi
seppe difendere pur negli anni più bui la propria indipendenza di
vedute e di coscienza morale: come pochi dei suoi colleghi in
letteratura. A regime appena caduto, Luigi Russo, che pure aveva
faticato a penetrare l'amarezza beffarda che sta al fondo - del
«divertimento» palazzeschiano, scrisse: «Il Palazzeschi è stato
uno dei più aguzzi, più taciturni e più dolorosi antifascisti che
io abbia mai conosciuto». Ora, è chiaro che già un romanzo come Il
Doge del 1967, che è il testo più alto della sua rigogliosa
vecchiaia e certo uno dei più ricchi della sua intera produzione,
sarebbe stato decisamente più scomodo, per il suo investire
direttamente certi temi ideologici di fondo dei nostri anni senza il
supporto romanzesco «tradizionale» che c’è nelle Materassi,
e in più per la sua sorniona, frizzante levità e irrisione delle
convenzioni sociali e narrative.
Nel Doge, certo,
lo scatto travolgente del Perelà s’è attenuato senza offuscarsi,
nel senso che la «saggezza» del vecchio poeta, a differenza
dell’esuberanza avanguardistica del giovane estensore del Codice
dell'uomo di fumo, procede per movimenti avvolgenti e mette in atto
una strategia aggirante: ma è sicuro che la fase inventiva del tardo
Palazzeschi è così ammirevole proprio per il gusto dell’avventura
e la assoluta mancanza di rispetto per il proprio simulacro che la
contraddistingue. Palazzeschi, insomma, è fortunatamente refrattario
alla prudenza; e se negli anni verdi seppe lanciare un irriverente
messaggio di guastatore delle certezze borghesi dell'Italia
giolittiana, irridendone certi capisaldi ideologico-linguistici
coagulati nel pomposo paganesimo carducciano, nell’arcaismo
imperialistico e magniloquente di D’Annunzio e nel morbido
populismo piccoloborghese di Pascoli (elementi, i due primi almeno,
che sotto altra forma passeranno nell’ala d’assalto del futurismo
marinettiano, ma da cui anche il Palazzeschi «futurista» andò
esente), in tempi più recenti lo scrittore fiorentino adopera il
nonsense come libero, sbarazzino piacere dell’invenzione, ma più
spesso come impavido rifiuto e derisione dei «sensi» e delle forme
di comunicazione linguistica e sociale comunemente accettati e
convenzionalmente trasmessi.
Sorelle Materassi
è del 1934. Lo precede di due anni un libro a suo modo «di
memoria», una memoria rievocativa affettuosa cd ironica della
piccola Toscana, ancora di tinta granducale ai tempi di Umberto I,
come Stampe dell’Ottocento. Palazzeschi sembra - aver messo
le briglie al suo temperamento, e al tempo stesso, quasi
automaticamente, si fa presente in lui l’esigenza di misurarsi con
la tradizione. Svevo è per quegli anni scoperta troppo recente, e la
nostra tradizione significa innanzitutto Manzoni e Verga. In Sorelle
Materassi se ne avvertono i segni, che non sono sempre felici. Ma
la grazia e il pathos del romanzo sono altrove: nell’irrinunciabile,
inguaribile amor vitae che è del Palazzeschi di sempre, fin
dai lontani esordi in versi dei Cavalli bianchi (1905);
nell'impermeabilità ai disinganni di Teresa e Carolina, le due
grottesche (e stupende) sorelle ricamatrici di Coverciano; nella luce
miracolosa e un poco sinistra nella sua perfezione che emana dal
bellissimo nipote Remo; nell’ambiguo alone di morbido, sfumato
erotismo che non viene mai enunciato ma s’intuisce di continuo tra
loro, trinomio imperfetto cui fanno da appendice la più giovane
sorella. Giselda, la domestica Niobe e gli infiniti comprimari e
comparse.
Poi c’è il paesaggio
di Firenze e dintorni: su cui, tra l’altro, s’apre il romanzo,
quasi celebrando un deliberato «omaggio» a «quel ramo del lago di
Como». Come per il Flaubert di Madame Bovary «Emma, c’est
moi», così per il Palazzeschi di questo romanzo sono « lui » le
due candide, disperate e vitalissime sorelle. Ma proprio perché il
procedimento narrativo dello scrittore introduce costanti
«distrazioni» alla presa diretta del tema conduttore, qua e là i
personaggi sembrano sfuggirgli pur nella generale saldezza del
racconto. Ove fallisce (parzialmente) il Palazzeschi «manzoniano» e
il Palazzeschi «naturalista», le vittorie più durature del
romanziere sono nel suo gran senso della commedia, che vira nel
tragico mediante la smorfia, il singhiozzo, lo sghignazzo. È qui la
profonda, drammatica serietà di questo cattolico sui generis,
la cui sola garanzia di fronte alla vita (e alla morte) consiste in
uno stato di grazia esistenziale che detesta tutte le ipocrisie.
l'Unità / giovedì 5
ottobre 1972
Guardate che detestava anche i comunisti e nelle "Sorelle Materassi" ironizzava su Lenin. In "Roma", poi, condannava la lotta di classe e gli agitatori sociali comunisti, e difendeva il Cattolicesimo: non quello dei preti alla don Zeno Saltini, ma quello dogmatico, da accettare senza se e senza ma. Il "Doge", infine, non è assolutamente una parodia su Mussolini: il Doge è Vittorio Cini, un grande amico di Palazzeschi, che nel dopoguerra rimise in sesto Venezia. Palazzeschi dichiarò poi che il romanzo in sé è una metafora sul mistero della nostra esistenza. Dimenticavo: votò monarchia al Referendum, ottenne persino il cavalierato da Umberto II e nel 1974, a maggio, si espresse contro il divorzio. Cordiali Saluti, Luca
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