16.8.16

All'Albergo del Sole (Paolo Volponi)

Maleo chiude a sud la terra milanese sulla sponda destra dell’Adda: un antico castelliere di pianura prossimo a un confine e a un guado. Tenuto e trapassato da tante parti lungo la storia padana, anche nel nome, che potrebbe venirgli da un console romano che l’avesse ricomposto e munito come dalla conformazione rotonda e sporgente del suo approdo fluviale. In ogni momento e caso sempre fermo e vivo, carico di gente e di cose che si rinnovano di continuo nelle soste e nei transiti. Tipico luogo di ricovero e di fuochi, attrezzato per le riparazioni, le refezioni e gli scambi.
Un inventario dei beni di Maleo datato 1464 riporta: «Taberna iacens in burgo loci Malei; pred. I, ubi dicitur in Girlo». Oggi quella taverna, cioè il ristorante che si impone a distinguere ancora Maleo, si chiama Albergo del Sole. Il nome gli fu probabilmente dettato dalle luminose pacificazioni rinascimentali e giustamente è stato confermato oltre l’estinguersi del servizio di alloggio a causa della fine del guado e della novità delle vie di comunicazione della regione.
Nel 1893 l’Albergo del Sole fu acquistato dal nonno dell’attuale proprietario, che si sistemava in paese e con un lavoro dopo essere stato per una quindicina d’anni in giro per il mondo come militare. Era un uomo d’iniziativa e d’esperienza e sortiva da una famiglia di osti che aveva tenuto banco in vari paesi e centri della regione, di qua e di là dall’Adda e fino al Po.
La gente della regione mangiava soprattutto ciò che producevano i suoi campi: minestroni di verdure, minestre di riso e rape, risotti, salumi, bolliti, formaggi, e beveva un vino rosso senza nome che gli arrivava dall’Oltrepò piacentino. Giacomo Marchesi migliorò e variò quei piatti con le conoscenze di altri prodotti regioni e cucine che aveva fatto da soldato, e anche con i ricordi e le voglie di chi aveva visto il mondo e la bellezza della sua varietà, e aveva imparato ad essere moderno e a saper guardare il futuro. Si dedicò al mestiere di albergatore e cuciniere con ogni capacità, sostenuto da una premura morale e ispirato a una solerzia proprio culturale, quale si rivela dal quaderno delle ricette che scriveva nitido e puntuale come un diario a lato degli esperimenti e delle innovazioni pratiche.
Resta manoscritto il ricettario secolare dell’Albergo del Sole con più di cento piatti esemplari, tipici della cucina locale tradizionale, corretti dalle influenze dei tempi e delle novità di ogni tipo, riferiti per quanto possibile alle regole più raffinate della grande cucina francese.
Uno studente di ingegneria a Pisa che vi fosse giunto a metà degli anni Cinquanta dai campi profondi di Maleo, sortito da quella famiglia dell’Albergo del Sole, con il liceo classico tutto fatto avanti e indietro in bicicletta da Codogno per una strada imparata in rima, doveva in quel tempo, a metà materno e a metà di crudele strappo, sentirsi contrastato e costretto a una scelta.
Franco Colombani tornò a casa, davanti alla cucina del Sole, ritrovandosi nella decisione di continuare a farla andare e di renderla capace di assecondare la sua vita. Cucinare era un’arte riconosciuta e scritta, molto vicina alla letteratura e alla politica. Riprese il manoscritto di centoventi pagine con tutte le ricette nella bella calligrafia del nonno e andò a cercare nelle biblioteche e nelle librerie antiquarie libri di cucina antichi e moderni, sempre conservati come testi fondamentali di storia e di cultura. Colombani cominciò a raccoglierli, dapprima quelli di ambienti prossimi al suo, Milano, Mantova, Venezia, e appresso qualsiasi altro che lo incuriosisse e che gli piacesse, francese come napoletano.
La cucina di Colombani è un’operazione di cultura; non solo per la verità che esiste al mondo e circola tra la gente, ma perché è studiata e istruita in ogni sua fase, sapientemente portata al confronto con la natura e con i testi. Colombani ha lavorato e studiato secondo questo principio e adesso si compiace di saper estrarre antiche ricette, per esempio dai libri dei Gonzaga, e di versarle eseguendole alla lettera e assecondandole ricreando i modi tempi ambienti confacenti, fino alle ultime note della confezione. Egli stesso si apparecchia per consumare quella vivanda, monumentale o medicamentosa che sia, a cibarsene e a valutarne ogni effetto, così da penetrarla e conquistarla in pieno fino a poter decidere di ripresentarla al presente e di distribuirla.
Prima di arrivare a Maleo e di entrare nell’Albergo del Sole ero piuttosto indifferente verso quella novità che mi toccava e anche un poco diffidente come per una sorta di sofisticazione edonistica, arrosto e fumo del privilegio, essenza sottile del potere, esclusiva ed elusiva. Io mangio sempre volentieri e anche molto, ogni volta più che a sazietà. Ho quasi tutti i giorni fame a mezzogiorno e al tramonto e spesso anche durante il giorno e la notte, e sempre mi rivolgo con affetto e riconoscenza ai cibi, pane, formaggio, legumi, pesci, uova, frutta e con maggiore concentrazione alla pastasciutta nel piatto, alle zuppe nella scodella, agli umidi nei tegami. Un buon piatto è come una buona lettura o un’azione ben riuscita: rinforza la presenza materiale e possibile della libertà.
Tuttavia, non sono uno che faccia viaggi anche brevi per andare a mangiare e che spesso si conceda pranzi e cene nei ristoranti raffinati. Mi dispiace spendere più di 15.000 lire per un pasto e almeno da tre anni a questa parte ho limitato le refezioni fuori casa. Ho una concezione rurale e un poco conventuale del cibo. Non spreco e non butto mai via niente di roba da mangiare. Gli sfarzi eccezionali li accetto per devozione, o li devasto con l’avidità della colpa di una trasgressione o di una sfida.
Considero ancora la frutta, di qualsiasi tipo, una portata gratificante: festa, malattia, fortuna. I mandarini me li portava la befana. Non ero povero né abitavo in un luogo sperduto e di grave depressione, ma la prima banana l’ho presa in mano dopo la guerra, a vent’anni. Dai miei nonni possidenti di campagna, i filari di uva moscatella, riservata ai pranzi illustri o alle ceste di tributo o di riconoscenza, erano nascosti, irraggiungibili tra gli altri: bisognava diventare adulti e responsabili per conoscerne il posto.
Così nell’Albergo del Sole, mentre mi accomodavo dopo il primo impatto, subito grato per la verità, nella nitida, tenera umiltà dell’ambiente (il cotto del muro esterno, la dimensione docile della casa, la compostezza appena sonora dell’insegna) mi pareva proprio di arrivare a conoscere il posto di una bontà. Mi avvicinai alla tavola lunga con tanti posti ai lati, in fila verso il camino centrale della cucina.
Dai miei nonni, nel comune di Frontone alle rampe del Capria, in una tavola simile ci si sedeva normalmente in più di venti, secondo il gruppo dei lavoranti stagionali: una o due volte nell’anno anche in sessanta-settanta, per qualche evento non del tutto straordinario. Ogni cosa che veniva servita era di casa e fatta in casa: il caffè veniva tostato nel camino e il mistrà distillato davanti al fuoco con l’aggiunta di una cartina di drogheria.
La cena della vigilia di Natale era l’unico pasto rituale dell’anno, che si apriva con un brodo di ceci liscio con poco olio e rosmarino; seguivano diverse portate di pesce, comprato con devota larghezza da pescivendoli di affidamento tradizionale: dapprima la severità del baccalà e dell’aringa, companatici molto noti e frequenti, poi la varietà dei roscioli e delle sogliole in graticola, della razza e della batraccola lessate, il calore odoroso dell’anguilla allo spiedo. Potevano anche esserci, secondo l’annata, gamberi di acqua dolce presi nei torrenti vicini e salmone affumicato o in scatola mandato dai parenti del Canada. Indispensabile era un enorme sampietro tutto sano, visitato con devozione per tutto il giorno sulla tavola in cucina per quell’impronta ben chiara del pollice del santo pescatore che l’aveva tirato fuori di sua mano dal mare e convertito al mondo degli uomini.
Colombani mi si rivelò presto con la stessa compenetrata sapienza e generosità di quelle convinzioni e usanze. Non mi sentivo in un posto lontano e tanto prezioso da essere un punto dell’ostentazione più alta della ricchezza e del gusto. Cominciavo con animo libero a notare la verità e la nobiltà del sito: vani luce attrezzi mobili stoviglie corredi dipinti alle pareti; la precisione e la sicurezza di ogni cosa, come di ogni rapporto e funzione.
L’ultimo adattamento dei locali fu fatto nel 1960. La dimensione è rimasta la stessa, nella misura di un gruppo di uomini che cucinano e mangiano nella pubblica locanda di un centro mandamentale della Lombardia. Alcuni, forse i meno accreditati, allo stesso tavolo davanti al fuoco; altri, individualmente o in compagnie discrete, nelle stanze e a tavoli distinti. Questi possono guardare il tempo e la campagna fuori e tener d’occhio il cortile. I mobili sono ancora quelli, oppure come quelli. Colombani li ha scelti e accordati uno per uno acquistandoli nei palazzi e nelle ville intorno delle vecchie casate. Ancora quelli sono i posti: trentotto coperti per ogni fuoco, pranzo o cena. Il trentanovesimo avventore non deve nemmeno aspettare: non sarebbe ospitale servirlo dopo, in modo e con vivande fuori dell’unità di tempo e regola.
Eppure la cucina di Colombani non ripete, rigidamente sacra a se stessa: può confezionare e imbandire quattrocento piatti diversi tra primi, secondi, contorni, dessert, sorbetti. Fra questi spiccano le sue specialità magistrali, ma anche tutti gli altri sono ciascuno di pregevole qualità. Colombani sceglie misura mette aggiunge controlla di persona ogni giorno ogni cosa per ogni razione, dalla materia prima di base a quella degli ingredienti complementari, dai fornelli ai recipienti, dagli aromi al tempo di cottura. Così ha imparato l’arte di trasformare alcuni materiali e impasti in cucina originale e di stile, valida come parametro. È diventato un maestro con una propria concezione dei cibi, della cucina e del mangiare secondo la linea storica della cucina italiana. Anche per merito suo la cucina italiana è ben riconoscibile nella sua vasta e fertile unità sopra i limiti e le indulgenze regionali, sia sociali che materiali, nei climi e nelle economie produttive.
Alla tavola del Sole si sentirebbe a suo agio, sereno e con buon appetito, qualsiasi italiano d’ogni regione e condizione: vi si può affidare a un’aria sua, ritrovarvi sapori buoni al massimo del timbro, gustarvi novità attese.
Quella di Colombani è una cattedra per un corso complementare ma non secondario di storia: da riconoscere e frequentare come tale. Egli deve continuare a spiegarla con questa coscienza, nella sua linea di sapienza e di ricerca, di analisi e di confronto delle materie prime, degli strumenti, dei consumi, dei cambiamenti di produzione e di gusto. Egli è impegnato a lottare proprio culturalmente contro le sofisticazioni e le adulterazioni dei cibi come degli artificiali modelli di suggestione e di successo.
Dopo averlo conosciuto e visto il suo Sole, capisco meglio la verità del cibo e della cucina e dell’importanza non solo animale e materiale del mangiare. Capisco di più il lavoro della cucina come operazione fondamentale perché tutto non diventi «razione» o «dose» e nemmeno pasticche e bevande da masticare e succhiare tra l’una e l’altra delle inquadrature del mondo-rama.
Ogni mattina buona io riconosco il pane, la fiamma del gas, il caffè e quando non mi accade vuol dire che la cecità di un’insonnia o il riflesso di uno scontro imminente mi accalcano verso la finestra a cercare nel cielo spazi provvidi e languidi, o lucidi spiragli come binari nell’aria industriale delle sette a Milano che va forte verso i grattacieli del potere. Augurerei a Colombani di riconoscere sempre le sue vivande e di trattarle in modo che ciascun altro possa sempre riconoscerle come materiali beni della propria giornata.


“La Gola”, Anno I n.1, ottobre 1982

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