14.8.16

Alzheimer. Lo strano caso di Augusta D. (Franco Voltaggio)

Monaco, 1909-10. Il gruppo di lavoro diretto da Alois Alzheimer (l terzo in piedi da destra)
Il primo e il secondo seduti, da destra, sono rispettivamente Gaetano Perusini e Francesco Bonfiglio
Appassionante viaggio 
intorno alla scoperta 
di un'oscura patologia
Il 25 novembre 1900 la Signora Augusta D. moglie di un impiegato delle ferrovie, viene ricoverata nella Clinica per dementi ed epilettici di Francoforte sul Meno. La richiesta di ricovero, stilata dal medico di famiglia, riferisce che la donna «da molto tempo soffre di debolezza di memoria, manie di persecuzione, insonnia, agitazione». Incapace di ogni lavoro fìsico e mentale è in uno stato che, nella richiesta, viene definito di «paralisi cerebrale cronica». Il sanitario che la ricovera, Dottor Nitsche, intuisce di trovarsi di fronte a un caso insolito. A rendersene pienamente conto è però il dottor Alois Alzheimer, primario della clinica, che la visita la mattina seguente. Da quel momento sino al 2 giugno 1902, quando lascerà la clinica di Francoforte, Alzheimer seguirà personalmente la malata, sempre più sicuro di essere entrato in contatto con una realtà patologica destinata a illuminare la complicata questione delle demenze. Comincia così ima straordinaria avventura scientifica che ora ci viene raccontata, in una ricostruzione nitida e documentatissima, da uno psichiatra tedesco, Konrad Maurer e da sua moglie, direttrice del Museo «Alzheimer» di Casel, in Alzheimer. La vita di un medico. La carriera di una malattia (trad. di L. Garzone, manifestolibri, 2000).
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Che cosa rende tanto insolito questo caso clinico? Certamente non la condotta della paziente, rimasta in clinica sino alla morte intervenuta il giorno 8 aprile 1906 per setticemia causata da piaghe da decubito, che è scandita dalla progressiva degenerazione della condizione demente: prima difficoltà di coordinazione mentale, poi un’agitazione sempre più intensa sino a sfociare in un comportamento violento, infine, frammezzo alla violenza degli atti, un decisivo rifiuto a comunicare e una totale perdita di controllo sulle funzioni urinaria e fecale. Sicuramente insolita è però la storia personale e medica di Augusta D. La malata è una tipica casalinga della piccola borghesia tedesca dell’epoca, sposa felice e fedele, magari incline a una pignoleria esagerata nel disbrigo delle faccende domestiche e, come riferisce il marito, sempre un po’ ansiosa e paurosa. Troppo giovane ancora perché possa esser definita affetta da demenza senile - al momento del ricovero ha appena 51 anni - non ha sofferto in passato che di malattie irrilevanti. I suoi genitori sono morti di mali comuni, comunque non psichiatrici e nessuno dei suoi ascendenti ha sofferto di disordini mentali. Assente, a quanto pare, una qualsiasi tara ereditaria, meno che mai quella, così comune all’epoca, risalente all’alcoolismo. Del resto la signora D., come suo marito, non beve. In definitiva, nulla che possa guidare alla comprensione del perché una mite massaia, tutta K.K.K. (Küche, Kirenhke, Kinder = casa, chiesa, bambini) sia caduta nella follia.
In qualche modo scatta una forte simpatia umana in Alzheimer. Uomo buono, gioviale, generoso, vede in Augusta D. la vittima di qualche cosa che il passato della paziente e della sua famiglia non giustifica. Esclude sin dall’inizio che la causa della strana malattia possa essere di natura somatica. Ritiene, e i fatti gli daranno ragione, che solo una grave e magari sconosciuta alterazione cerebrale sia all’origine del male, anche se non sa - e del resto ancora oggi non si sa con certezza - quale possa essere la causa dell’alterazione stessa. A guidarlo in questa convinzione sono due fattori, radicati nel suo vissuto di uomo e di scienziato: il timore che, se una bravissima persona come Augusta D. è in preda a un morbo sconosciuto, altri come lui, Alzheimer, appartenente al mondo ordinato della borghesia, potrebbe caderne vittima; una fede incrollabile nella scienza dell’epoca intesa a ricondurre tutte le patologie mentali a guasti somatici riscontrabili nel sistema nervoso centrale, in base a un quadro di riferimento che oggi si suole definire «paradigma anatomo patologico». Tra i due fattori ricorre una sorta di relazione virtuosa che si potrebbe riassumere così: «le persone per bene non diventano matte per colpa del loro passato o dei loro ascendenti, né, tanto
meno, sotto la spinta di inconfessabili passioni come sembra ritenere quel singolare personaggio che è il Dottor Freud. Se entrano nel girone infernale della pazzia ancora giovani, vuol dire che il loro cervello si è ammalato. Occorre riscontrare a livello istologico, cioè sul piano della situazione oggettiva presentata dalle cellule del cervello, quali alterazioni e guasti siano intervenuti. Di questi
danni un giorno si riuscirà a scoprire la causa. Per adesso vanno tutti in debita considerazione due assunti: tutti i pazienti in età presenile che manifestino una patologia identica a quella di Augusta D. e che abbiano un’identica storia medica non vanno inseriti nei quadri clinici delle altre demenze; tutti questi malati sono oggettivamente, e in tutti i sensi, non colpevoli del male che li affligge».
Quando, nel 1888, Alzheimer entra, in qualità di medico assistente, nella Clinica di Francoforte, diretta da Emil Sioli, ha già fama di eccellente istologo. Le tavole istologiche che corredano la sua tesi di laurea - un lavoro sulla patologia del cerume auricolare infantile - si fanno ancora ammirare per l’eleganza e la precisione del disegno. La sua competenza istologica lo aiuta a formulare corrette diagnosi anatomo-patologiche a carico dei dementi morti nell’ospedale, di cui analizza attentamente lo stato dei cervelli. Istopatologo di raro talento si cimenta con il problema cruciale della patologia della psichiatria del tempo: la follia, i cui segni e sintomi paiono essere sempre gli stessi, dalle manie di persecuzione al comportamento mentale confuso e delirante, ai disturbi del linguaggio, all’incontinenza, alla perversione, è una malattia unica o è piuttosto l’esito di distinte patologie?
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I rapporti autoptici dei folli, esaminati con la dovuta attenzione, mostrano come, da caso a caso, le alterazioni e i danni siano diversi: in taluni soggetti si riscontrano tracce evidenti di aterosclerosi , vale a dire placche di lipidi (grassi) nelle arterie; in altri si apprezzano fenomeni di arteriosclerosi, ossia forme di ispessimento e irrigidimento delle arterie che impediscono la corretta irrorazione sanguigna della corteccia cerebrale (un evento tipico dell’arteriosclerosi, che l’autopsia riscontra in un vaso, è quello del restringimento del lume - imboccatura - che impedisce il regolare flusso del sangue); in altri ancora i danni riscontrati sono del tutto diversi come nel caso dei malati di paralisi progressiva. Così, a misura che l’esperienza clinica e la sofisticazione dell’indagine istopatologica moltiplicano i dati a sua disposizione, Alzheimer riesce a dimostrare come la follia non sia affatto una malattia unica, ma piuttosto una fenomenologia morbosa unitaria prodotta da distinte malattie del sistema nervoso centrale.
A questo punto, tuttavia, Alzheimer, come Kraepelin, di cui fu allievo e collaboratore, come tutti gli psichiatri che esplicitamente credono in quello che loro stessi chiamano il «dogma anatomo-patologico», si trova davanti a un dilemma: perché la fenomenologia è sempre la stessa, se la patologia è diversa?
All’apparenza, la risposta fornita da quanti condividono la fede nel dogma è convincente. Al modo stesso in cui, nella normalità, l’attività mentale prodotta dal cervello si esprime nel regolare funzionamento dell’ideazione, della volizione, del linguaggio, così quando il cervello si ammala, quale che sia la sua specifica malattia, compaiono i medesimi disordini delle funzioni mentali. In realtà, perché questa fenomenologia, nella regolarità e nella situazione dei disordini, si presenti unitaria, occorre ipotizzare l’esistenza di ima realtà che, pur prodotta dal sistema nervoso centrale, sia da questo distinta. In altre parole, ipotizzare un epifenomeno, se non addirittura un vero e proprio continente sconosciuto, che è la mente o psiche. Ovviamente non si tratta di un organo, che non è, per ciò stesso, possibile studiare empiricamente né, tanto meno, anatomizzare, ma la cui concreta realtà – questa volta sì – è possibile riscontrare persino nei dementi all’ultimo stadio, quando i rari episodi di comunicazione linguistica fanno affiorare affetti e ricordi peculiari che scaturiscono dal remoto passato dei soggetti. Come sarebbe possibile una situazione del genere se, in qualche modo, la mente, la cui attività è sconvolta dalla patologia cerebrale, non continuasse ancora a funzionare?
Va detto che, ancora oggi, non sappiamo in concreto che cosa la mente o psiche realmente sia. Molti sospettano che si tratti per l’appunto di un epifenomeno prodotto dalla natura autospeculare dell’attività mentale. Un’ipotesi sulla quale non è certamente possibile pronunziarsi qui ma che, tuttavia, va presa in considerazione se non altro perché tiene per fermo il carattere di sostanziale autonomia della mente o psiche rispetto al cervello.
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Per una singolare congiura di circostanze, Alzheimer, che dal 25 ottobre è primario a Monaco presso la Clinica diretta da Kraepelin, presenta il caso di Augusta D. il 3 novembre del 1906 alla XXXVII Assemblea degli psichiatri tedeschi del sud a Tubinga, nella medesima sessione in cui Cari Gustav Jung, allora ritenuto il più fedele assertore della teoria di Freud, si appresta a discutere la peculiarità delle malattie psicosomatiche. Alzheimer, al momento di prendere la parola, è convinto del successo della sua relazione. Ha studiato a lungo il caso. Ha letto l’ormai voluminosa cartella clinica di Augusta D., e ne ha analizzato a fondo il cervello. Il suo lavoro è stato coadiuvato allora - e lo sarà ancora per altri casi simili - da due valenti ricercatori italiani, Francesco Bonfiglio e Gaetano Perusini. Dopo aver illustrato la storia medica della paziente, con l’aiuto di fotografie e diapositive formula gli elementi della diagnosi anatomo-patologica. Il cervello di Augusta D. è contrassegnato «da un’atrofia della corteccia cerebrale con una massiccia perdita di cellule e da una strana malattia delle fibrille nervose con una forte proliferazione della glia (neuroglia, l’insieme delle cellule di supporto del sistema nervoso centrale) fibrosa e la formazione di numerose cellule della glia a forma di bastoncelli». La corteccia cerebrale lascia altresì apprezzare la presenza di vistose placche contenenti prodotti metabolici. Pur trattandosi di alterazioni reperibili anche nei cervelli di dementi anziani, si tratta di fenomeni di portata ed estensione decisamente più ampia.
Nonostante la novità del caso, la fine della conferenza non suscita alcun dibattito. Tanto il presidente dell’Assemblea, quanto gli psichiatri presenti hanno l’impressione di trovarsi di fronte a semplici curiosità anatomo-patologiche quali, per solito, venivano comunicate nei congressi medici del tempo. La medesima disattenzione viene prestata a Jung anche se colorata dal forte scetticismo che allora investiva quello che veniva chiamato il freudismo. All’apparenza il trattamento riservato ad Alzheimer non ha nulla a che vedere con quello di cui è vittima Jung. In realtà la reazione dei congressisti è sostanzialmente unica e risponde alla medesima logica. Vediamo perché.
Accogliere con la più seria considerazione le comunicazioni di Alzheimer avrebbe significato porsi di fronte al dilemma dell’unitarietà della demenza e dell’ampia diversità della sua origine, ma questo avrebbe, a sua volta, comportato una diversa attenzione a quanti, come Jung e Freud, insistevano sulla concreta esistenza di una dimensione epifenomenica quale quella della mente o psiche. Paradossalmente se una sorta di miopia intellettuale non li avesse traditi, avrebbero recato un segnalato servizio al dogma anatomo-patologico del quale erano così convinti e, conseguentemente, avrebbero dato un forte impulso alla ricerca delle cause della malattia. Del pari, sarebbero stati costretti a prendere in esame la dinamica del caso di Augusta D. sulla scorta dei dati clinici forniti da Alzheimer e, coerentemente, correlare in modo virtuoso la dimensione psichiatrica classica e quella inedita, così «scandalosa», presentata da Freud. In un solo giorno, la psichiatria anatomo-patologica e la nascente psicoanalisi subirono una pesante sconfitta, che non avrebbe giovato né alla medicina scientifica, né, soprattutto ai malati.
La «malattia di Alzheimer» fu riconosciuta ufficialmente quale precisa individualità clinica nel 1910, quando Kraepelin ne inserì la definizione nel suo trattato generale di psichiatria. Per molti anni, anche in conseguenza della precoce scomparsa di Alzheimer, morto nel 1915, rimase tuttavia poco più che una singolare curiosità scientifica. Persino la cartella clinica di Augusta D, rimase a lungo ignorata, tant’è vero che fu rintracciata solo nel 1995.
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Le cose cominciarono a cambiare nel secondo dopoguerra. Ad agevolare la ricerca delle sue cause fu soprattutto, prevalentemente nel mondo anglosassone, il grande lavoro di indagine sull’mvecchiamento. Queste ricerche condussero ad esaminare con maggiore attenzione i casi di demenza senile e quelli di demenza presenile e, coerentemente, a studiare in modo specifico la «malattia di Alzheimer». Si scoprì, tra l’altro, come forme di demenza senile potevano essere con qualche ragione ritenute fenomenologie croniche di Alzheimer intervenute in età precoce. Per un certo periodo, dato il tempo di insorgenza del morbo, si pensò a infezioni virali, delle quali sarebbero stati responsabili i cosiddetti «virus lenti», così chiamati per il tardivo effetto delle loro azioni. Altre malattie neuropsichiatriche, come la sindrome di Creutzfeld-Jakob, apparentemente simili, ma in realtà assai diverse dall’Alzheimer, furono effettivamente ricondotte con sicurezza all’azione di virus lenti. Oggi, per quanto riguarda l’Alzheimer, si tende a escludere la causa dell’infezione virale.
La prospettiva di ricerca più solida pare, allo stato, essere quella di natura genetica. Nel campo neuropsichiatrico l’indagine che invoca un fattore genetico per l’insorgenza del morbo è stata enormemente favorita dagli studi dell’invecchiamento. In Italia, sulla scorta dell’influenza delle indagini geriatriche, specie per merito di taluni ricercatori come Claudio Franceschi, nell’esplorazione delle cause dell’Alzheimer sono entrati in campo fattori ambientali e culturali, come, ad esempio l’incidenza del livello di scolarità nei malati. Ci sembra che in questo modo si stia affacciando ima opportunità cruciale per il trattamento dei malati: intrecciare la loro storia medica a quella del vissuto personale. Chissà se non sia questa la strada per assecondare una collaborazione essenziale tra geriatria propriamente detta e quanti si occupano di dinamiche della psiche.


“il manifesto”, 2 marzo 2000

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