16.8.16

Cavalieri d'altri tempi. Ricchi con la 'bella' guerra (Franco Cardini)

Un cavaliere della seconda metà del XIII secolo, 
con elmo chiuso, camaglio e cotta in maglia di ferro, 
sopravveste recante l'effigie araldica, spada ed ascia.
«Ah! Dieu, que la guerre est jolie... ». Credevamo che espressioni come queste fossero del tutto tramontate ai giorni nostri, che fosse ormai impossibile riciclarle e rispolverarle. Definitivamente tramontati, ormai, i tempi della guerra giovane e fresca, della bella guerra, della guerra igiene del mondo, delle Belle Idee per Cui si Muore, perfino dei mozartiani Bella Vita Militar e Cherubino-alla-vittoria-alla-gloria-militar. Via, nel più remoto e deprecabile angolino delle nostre soffitte, coi tamburi di latta e la paccottiglia futurista, le tempeste d’acciaio e i proscritti, Junger e von Salomon, e magari quel trovatore del XII secolo cui tanto piacevano i prati primaverili fioriti di primule e di sangue, quello che a sua volta piaceva tanto — et pour cause — a Ezra Pound.
E invece no. Basta poco, sapete, a far rivivere qualsiasi tipo di passato, magari perfino a evocare qualunque demonio. Basta conoscere la formula adatta, e il tempo e il luogo in cui essa va recitata. E, dopo il diluvio fra l’altro alquanto conformista e stucchevole — lasciatelo dire a un vecchio guerrafondaio — di pace sempre e comunque e a qualunque costo, ecco che l’ancor giovanissimo XXI secolo ci reca in dono, l’avreste mai creduto?, marziali panoplie e belluini accenti. E giù tutti a discettar di martiri e di eroi, di guerre sante e di guerre giuste, del bello dell’Iliade — complici l’Achille Pitt e il rilettore Baricco — e perfino della legittimità e magari del fascino del mercenariato: con l’alibi — ma è mai stato niente d’altro? — della locazione d’opera. Non sarà dopo tutto un altro modo di "crear posti di lavoro", cavalier Berlusconi?
Ma, se non altro, questo tempo di nuove guerre e di nuovi bellicismi ci regala ogni tanto — sarà magari una coincidenza — qualche buon libro. È il caso di Cavalieri e cittadini di Jean-Claude Maire Vigueur (Il Mulino, Bologna, 2004), che non ha mai lasciato la terra di Francia ma che si è ormai radicato nell’Università di Firenze e che in questo lavoro — frutto distillato da una trentina d’anni di ricerche sull’Italia comunale — ci pone con straordinaria dovizia di documenti e di esempi (anche molto affascinanti e divertenti da leggere) di fronte al problema della militia nei centri urbani dell’Italia comunale: vale a dire di quei cittadini, in gran parte proprietari terrieri (ma non solo), ch’erano fisicamente ed economicamente in grado di combattere a cavallo e pesantemente armati, e che costituivano pertanto un’élite ben conscia di esserlo e dotata di una sua precisa coscienza e cultura, se non di classe, quanto meno di stato e di qualità di vita.
Quello della cavalleria nella nostra società comunale è stato a lungo, tra i medievisti, un territorio se non evitato quanto meno affrontato sempre o quasi lateralmente, di striscio. A prenderlo di petto, almeno per quel che riguardava la storia fiorentina, ci provò oltre un secolo fa il grande Gaetano Salvemini con un saggio rimasto classico; più tardi ci son tornati sopra in molti e a vari livelli, anche di recente. E si potrebbero fare alcuni nomi di valenti studiosi, da Stefano Gasparri a Duccio Baiestracci a Errico Cuozzo, ad altri, a parte gli specialisti di storia delle istituzioni militari e delle armi o quelli di letteratura cavalleresca.
Ma il libro di Maire Vigueur, che pur accoglie e discute tutti questi contributi e molti altri, ha la particolarità di proporsi — e lasciamo perdere se questa sia o meno histoire totale o roba del genere — come una sintesi a trecentosessanta gradi. Vi si esamina la militia come strato superiore della società cittadina, almeno tra XII e buona parte del XIII secolo analizzando i profitti della guerra (ch’era "bella", per chi la faceva, anche perché e nella misura in cui era redditizia), il senso di coesione interna fra i milites e i meccanismi dell’insorgere delle fazioni e della vendetta, la cultura della fratellanza d’armi e quella dell’odio — due facce della stessa medaglia — delle quali i cavalieri erano portatori, il rapido ascendere e il sovente non meno rapido cadere delle fortune politiche ed economiche di molti fra loro, infine il tramonto della dignità cavalleresca e delle pratiche nonché del prestigio sociale a ciò connesso mentre nuovi ceti dirigenti, nuovi modi di produzione, nuove forme di profitto e nuovi modi di far la guerra andavano progressivamente imponendosi tra seconda metà del Duecento e primo Trecento. Un libro pieno di fascino, ma anche solido e autorevole: frutto in gran parte di ricerche archivistiche di prima mano e profondamente radicato nella discussione storiografica più recente e aggiornata. Una nota per chi, attratto da questi temi, si arrestasse intimorito per il fatto di trovarsi di fronte a un’opera scientifica, scritta da un rigoroso "addetto ai lavori". Niente paura. Maire Vigueur è il direttore della rivista italiana di medievistica divulgativa di maggior successo, «Medioevo». E uno che sa parlare anche al pubblico dei non-specialisti. Lasciate perdere la paccottiglia dei finti storici, degli scopiazzatori esoterici e/o massmediali, degli "esperti" da pomeriggio televisivo: che non sono affatto più "semplici", sono solo ignoranti e disonesti. Fidatevi di chi se ne intende.


Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2004

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