22.8.16

Le facce di Raffaele Viviani (Giovanni Vacca)

Per decenni oscurato dalla fama di Eduardo De Filippo, a lungo considerato un «minore», Raffaele Viviani è ormai da tempo un autore che ha il ruolo che gli spetta nella storia del teatro italiano; ma non solo del teatro, perché Viviani fu anche poeta e compositore di straordinarie canzoni che hanno sempre marcato una sostanziale differenza con il mainstream della canzone napoletana. È quanto mai opportuna, dunque, la pubblicazione del volume Poesie - opera completa, amorevolmente curato da Antonia Lezza (Guida, pagg. 493, euro 29,50), che comprende l'integrale in versi dell'artista partenopeo, che ebbe due sole raccolte di poesie pubblicate prima della sua scomparsa nel 1950: Tavolozza, nel 1931, e ...E c'è la vita, nel 1940 (le successive antologie furono curate dall'amico Paolo Ricci, da Vasco Pratolini e poi dal figlio Vittorio).
Raffaele Viviani fu il rappresentante di una Napoli che non trovò grande spazio nella musica, nel teatro e nella poesia del suo tempo: quando egli cominciò la sua attività, con l'eccezione di Ferdinando Russo, che però aveva intenti diversi e si muoveva in una linea decisamente verista, la locale cultura borghese, ormai trionfante, aveva già da tempo portato a termine la sua opera di omogeneizzazione delle varie forme espressive presenti in città all'interno di un nuovo canone espressivo, marcato da una «giusta misura», da un'intonazione nostalgica e, soprattutto, dalla neutralizzazione di ogni imbarazzante testimonianza dei linguaggi della tradizione popolare a favore di uno sguardo benevolo e paternalistico sulla vita delle classi subalterne viste come «gente semplice e felice», componente pittoresca della Napoli «che se ne va». In Viviani non solo il dialetto utilizzato e le situazioni trattate rispecchiano invece la realtà dell'eterna plebe napoletana ma la sottraggono nello stesso tempo al rischio verista, «straniandola» e stilizzandola, per così dire, tramite l'adozione delle tecniche di scena derivate dal café chantant e dal varietà (di qui l'utilizzazione della canzone) che erano state centrali nella sua formazione. La sua Napoli, per di più, è una Napoli che recupera spesso le forme della tradizione popolare non tanto nella dimensione
quotidiana, quanto soprattutto in quella rituale (come in Festa di Piedigrotta, per esempio), e quindi nel loro momento di maggiore «verità» culturale, in un quadro d'insieme che già nelle premesse risulta totalmente avulso dal combinato di stereotipi che tanta parte hanno nella costruzione di quell'immagine usurata ma ancora attiva che è la «napoletanità».
Nell'opera di Viviani c'è una consapevole denuncia della difficile condizione esistenziale del proletariato e del sottoproletariato napoletano. Vengono mostrati esplicitamente, per restare alle poesie e alle canzoni contenute nel volume, la miseria (O sapunariello), lo sfruttamento (Gnastillo), il carcere (Canzone ‘e sotto ‘o carcere), la sopraffazione di classe ( ‘A canzone d‘a fatica) e, insieme a tutto ciò, si intravede una partecipazione all'interiorità femminile decisamente più avanzata rispetto a quella di altri autori a lui contemporanei (Tarantella segreta, O 'nnammurato mio), tutte tematiche che troveranno ancor più compiuta formulazione nel teatro, dagli atti unici dei primi anni alle opere più complesse e strutturate della maturità. In relazione a tutto questo, destano non poche perplessità alcune poesie recuperate e opportunamente pubblicate in questa edizione; una dedicata al re ('O benvenuto a ‘o re) e un'altra, dedicata a Mussolini (Saluto al Duce), entrambe precauzionalmente espunte dalle antologie uscite nel dopoguerra, quando Viviani fu a lungo etichettato e interpretato come autore «di sinistra». È noto che, per tutto ciò che abbiamo detto, oltre che per il fatto stesso di esprimersi in un dialetto «duro» e plebeo, Viviani fu osteggiato e boicottato dal fascismo, che naturalmente mal digeriva una simile rappresentazione di Napoli. È noto anche che l'artista dovette capitolare, scrivendo personalmente al capo del regime per evitare provvedimenti che in pratica gli avrebbero impedito di lavorare (la lettera è interamente pubblicata nell'articolo Appunti sul caso Viviani, di Francesco Cotticelli, in “Ariel”, Quadrimestrale di drammaturgia dell'Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Italiano Contemporaneo, anno VIII n. 2-3, maggio-dicembre 1993). Saluto al Duce, però, è qualcosa di più di un «ringraziamento» o di una «captatio benevolentiae» nei confronti di Mussolini: si tratta di un lungo panegirico che fotografa un'adunata in piazza Venezia e in cui si respira l'esaltazione collettiva di quelle occasioni («Nu squillo e subito/ scoppia l'applauso:/ appare l'idolo/ fore ‘o balcone! (...) Nu gran silenzio/ e po', scultoree,/ pronuncia massime/ ca so' sentenze (...) Sillaba a sillaba: parla l'Oracolo;/ songo
mill'anime:/ n'anima sola (...) Nasce Littoria/ nasce Sabaudia,/ nasce Pontinia/ 'ncopp' ‘o pantano (...) ‘E mamme eroiche,/ purtanno ‘o Zaino,/ sanno ca piantano/ n'atu guerriero! (...) P' ‘a santa causa/ tutte s'arruolano:/so' gghiute inAfrica/ pure ‘e madonne (...) Stella d'Italia,/ grazie all'Al-tissimo,/ Tu sì l'Artefice/ d'ogni Vittoria!»). Oltre a constatare la mediocrità dei versi, insomma, non si può non rilevare che Viviani ha pienamente assorbito tutte la più ignobile retorica della sua epoca (e, ahinoi, in gran parte anche della nostra). In realtà, dunque, queste due poesie, ma soprattutto quella scritta per il duce (sulla quale la curatrice «glissa» quasi imbarazzata, attribuendola al «forte dato reale che spinge il poeta»), lungi dal rappresentare cadute di stile o incidenti di percorso, illuminano invece anche altri aspetti ambigui della personalità di Viviani, dissipando le iniziali perplessità e chiarendo meglio il senso e la natura del suo lavoro.
Viviani fu certamente un sagace osservatore della vita popolare, e nelle sue capacità di osservazione, che seppero intuire «cosa» vedere e, nella sua abilità di autore a tutto tondo, «cosa» rappresentare,va cercato, in primis, il merito del suo teatro e della sua poesia. Se egli ebbe sicuramente una sincera partecipazione emotiva e un'autentica ansia di riscatto nei confronti delle classi subalterne, non è automatico che questo si sia tradotto in chiara e consapevole posizione politica. Già Alberto Asor Rosa molti anni fa, nel suo Scrittori e popolo, aveva constatato, resistendo al fascino dell'opera del drammaturgo, le sue zone d'ombra, descrivendolo come «fornito di un'incerta coscienza letteraria e culturale». E, infatti, prima ancora di soffermarsi su quella dedicata al duce, anche leggendo altre poesie troviamo dei momenti non proprio esaltanti,
per un artista che viene ricordato anzitutto come una sorta di «anticorpo» alla tradizionale oleografia napoletana: «tirate» municipalistiche (Campanilismo), banali rimpianti bucolici (Primitivamente,), esaltazioni di ciò che Marx chiamava «idiotismo del mestiere» ( A mano d'opera). A ciò si aggiungano anche gli sconfinamenti razzistici di O tripulino napulitano e di certe dichiarazioni della sua autobiografia, Dalla vita alle scene, pubblicata nel 1928, riguardo ai «ricordi eroici della nostra guerra coloniale».
Viviani, insomma, pur nella sua acutezza di osservatore del popolo napoletano, sembra incapace a cogliere quella «totalità» in cui si integrano i fatti sociali e che proprio in quegli anni Gyorgy Lukàcs, in Storia e coscienza di classe, riteneva indispensabile per la conoscenza della realtà. E la «coscienza» è esattamente quello che distingue, nonostante le numerose analogie formali (l'antinaturalismo, l'uso della musica, la rappresentazione della miseria, la drammaturgia «per quadri») Viviani da Bertolt Brecht, al quale un duraturo equivoco lo ha voluto tenacemente accostare. Viviani aveva la capacità di vedere le contraddizioni sociali e riusciva a descriverle con efficacia, Brecht le comprendeva nella loro globalità e le mostrava sarcasticamente nella loro essenza grottesca («che cos'è l'effrazione di una banca di fronte alla fondazione di una banca?», ci dice ne L'opera da tre soldi). Viviani poteva, nonostante la sua partecipazione ai drammi della parte più misera della popolazione, assimilare senza problemi l'ideologia coloniale e poi quella fascista, pur apparentemente negandole nella sua opera. Brecht, che avrà fatto anche lui i suoi errori, aveva invece chiaro lo scenario della sua epoca e mai sarebbe scivolato in una simile trappola, perché il suo filtro critico era maggiore e la sua visione delle cose più ampia e strutturata. Tutto ciò, ovvio, nulla toglie alla bellezza dell'opera di Viviani, che la meritoria pubblicazione di quest'opera omnia può aiutarci a conoscere meglio e a riposizionare criticamente.



Alias il manifesto - 13 novembre 2010  

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