20.8.16

Memorie da Salò. Anfuso, Graziani, Almirante, Romualdi (Francesco Germinario)

Il testo che segue, utile e ben costruito, è un ampio stralcio della relazione dello storico Francesco Germinario a un convegno su Salò e la RSI, organizzato a Fermo nel marzo del 2005. (S.L.L.)
Almirante e Romualdi tra i camerati del Msi
Nella memorialistica della Repubblica sociale sono presenti quattro casi paradigmatici, per il ruolo politico o militare dei protagonisti e per i tempi in cui quelle memorie furono pubblicate: le memorie di Filippo Anfuso, ambasciatore a Berlino, fondamentali per individuare quale «lettura» negli ambienti della Rsi si forniva dell’alleanza col nazismo; le memorie di Rodolfo Graziani, la carica militare suprema della Rsi; l’autobiografia di Giorgio Almirante, a suo modo una versione di estrema destra di «uso pubblico della storia»; le memorie di Pino Romualdi, ultimo vicesegretario del Partito fascista repubblicano e, nel dopoguerra, dirigente missino.
Alcuni autori mettono mano alle memorie della Rsi addirittura nelle settimane successive alla fine della guerra, nei primi mesi di latitanza o prigionia. A quali cause addebitare questa precocità? In un’Italia caratterizzata dal clima politico del vento del Nord, braccati, ricercati, fuggiaschi, gli esponenti della Repubblica sociale hanno bisogno di procedere a una forma di rielaborazione del lutto, di spiegare a loro stessi le cause di una sconfitta che avvertono come epocale, e non solo politica e militare. Avvertono la necessità di difendersi non solo in sede giudiziaria (è il caso di Anfuso, sotto processo con l’accusa di avere partecipato all’organizzazione dell’omicidio dei fratelli Rosselli nel 1937, ma anche di Graziani), bensì di difendersi dall’accusa politica di essersi schierati dalla parte del nazismo, appoggiando un regime straniero; proprio loro che del culto della «patria» erano stati i sacerdoti incontrastati.

Anfuso, afascismo a Salò
Su molti punti quelle di Anfuso sono memorie a dir poco reticenti. L’ambasciatore della Rsi a Berlino, diplomatico che aveva rapporti quotidiani con i maggiori responsabili della politica nazista, da Hitler a Ribbentropp, da Goering a Goebbels, per esempio non fa alcun cenno allo sterminio degli ebrei («questa è sapienza successiva!»). Ma le sue memorie sono da considerare fondative perché anticipano elementi conduttori che si ritroveranno nella memorialistica successiva.
Ad Anfuso. che giudicava se stesso, un «qualunque occidentale caduto sotto la mannaia degli avvenimenti del suo tempo», interessava scindere nazismo e fascismo, in polemica con quel concetto di «nazifascismo» da lui bollato come «splendido doppio aggettivo di marca Ehrenburg»; in altri termini, un’invenzione della propaganda dell’antifascismo stalinista e comunista.
Le descrizioni di Anfuso dell’aria allucinata che si respirava nella Fuhring e della personalità dei gerarchi nazisti tradivano come il suo fine fosse quello di sottrarre il fascismo di Salò al cono d’ombra del nazismo. Ai nazisti Anfuso imputava di non sapere condurre la guerra, anteponendo la logica nazionalista dell’Herrenvolk a una prospettiva europeista. Nel caso italiano era da imputare ai nazisti sia l’atteggiamento scettico nei confronti della politica socialisteggiante di Mussolini, che le «irrazionali ordinanze» che avevano determinato il clima politico nel Nord, agevolando la strategia partigiana.
Non solo lo sviluppo del clima di odio, per Anfuso, era stato provocato dall’insipienza nazista; ma accanto al Mussolini antiborghese, in Anfuso compariva quello aideologico: il Mussolini che aveva dato vita a uno scudo protettivo, a uno Stato cuscinetto adeguato a preservare gli italiani dalla vendetta nazista. Il Mussolini di Salò, stando ad Anfuso, era agitato dalla volontà di «servire da schermo fra gli italiani e l’ira germanica», per evitare «l’avviamento degli italiani alle condizioni dei polacchi e degli ucraini», quale reazione nazista al tradimento dell’8 settembre. (...) A fronte della cecità e del furore ideologico di Hitler e dei gerarchi nazisti, Anfuso collocava il Mussolini tote politìcus e a-ideologico che al Nord «operò (..) un miracolo politico: politica con i tedeschi, politica con i fascisti, gli antifascisti, i socialisti con tutte le varie categorie di tedeschi e italiani; politica dalla mattina alla sera, come il sindaco di un villaggio che voglia divenire città!», a cominciare dalla difesa dei confini nordorientali.
(....)
Se Anfuso preferisce il Mussolini di Gargnano, Graziani verso quest’ultimo formula pochi ma significativi giudizi tutt’altro che lusinghieri. Proprio sulla questione dell’unità delle forze armate della Rsi, Graziani ha occasione di osservare che, il limite maggiore di Mussolini (limite politico, prima che caratteriale) era la «perenne discordanza tra pensiero e azione, che fu uno degli aspetti caratteristici della sua mentalità, e forse il suo principale difetto». E tra gli errori fondamentali del Mussolini di Gargnano Graziarli registra la scelta di mantenere «ai posti di comando uomini del periodo pre-25 luglio». E’ un Mussolini, quello di Graziani, ancora legato alle squallide regole della politique politicienne, incline alle ragioni delia bassa politica e ai compromessi che un soldato, Graziarti, non riesce a comprendere e ad accettare.

I volontari di Graziani
E non a caso l’autobiografia di Graziani (ma sarebbe più giusto definirla una vera e propria memoria difensiva) s’intitola Ho difeso la patria. Se Anfuso depoliticizza e deideologizza la Rsi, in nome del disegno mussoliniano di evitare la polonizzazione dell’Italia, Graziani ambisce presentare la propria persona come un impolitico - anzi, come un antipolitico dedito al mestiere delle armi per la gloria della patria. (...) Ed è nella veste di soldato impolitico che Graziani pretende di avere aderito alla Rsi; in nome, insomma, degli «interessi (...) della comune Patria italiana» (...). Graziani respinge così le accuse di collaborazionismo: «mi si può oggi anche condannare in base a una materialistica e cinica legge; ma se le cose fossero andate diversamente, sarei stato acclamato eroe salvatore della patria alla pari di De Gaulle». (...) Graziani, dunque, come il generale francese che era riuscito a tenere accesa la speranza e il destino di una nazione, assumendo un comportamento che, ispirandosi a valori virili, era politicamente trasversale, e anzi superiore al terreno della politica. I soldati, per Graziani, - o almeno i soldati che aderiscono alla Rsi - non hanno valori politici da condividere, ma solo il rispetto di valori virili e guerrieri (onore, rispetto della parola data all’alleato). (...)
All’impoliticità della Rsi teorizzata da Anfuso, Graziani replica dunque riconoscendo il carattere ideologico di quello Stato, non foss’altro perché assicurato dalla presenza di fascisti di lunga data, ma rivendicando al tempo stesso l’impoliticità dell’esercito. In questo modo, Graziani creava un altro mito, destinato a futura celebrazione dalla memorialistica successiva; quello della Rsi come ultimo baluardo di un pugno di eroi tra un popolo che aveva perso la dignità, quasi a voler confermare, ancora una volta, che tra gli italiani non avessero quasi mai albergato i valori virili del coraggio e del sacrificio.
Graziani inaugurava quel tema memorialistico che avrebbe sempre denunciato il carattere badogliano del popolo italiano: scarso di eroi, ma ricco di opportunisti, incapace di reggere, come i sovietici, i tedeschi, i giapponesi, agli uragani della Storia. (...)
Scrivendo nell’immediato dopoguerra, e soprattutto per giustificare le loro scelte politiche, sia Anfuso che Graziani scontavano la situazione di riorganizzazione nell’area dell’estrema destra. Di conseguenza nelle loro pagine sono assenti alcuni temi della memorialistica successiva e dell’immaginario dell’estrema destra. In particolare due: la convinzione che la Resistenza fosse stato un movimento provocato dai comunisti; la caratterizzazione dello scontro fra il movimento partigiano e la Rsi come una «guerra civile».
Questi due motivi trovano un largo spazio nelle memorie dei due Dioscuri del Movimento sociale, Giorgio Almirante e Pino Romualdi. L’autobiografìa politica del primo, dal titolo provocatorio Autobiografia di un «fucilatore», del 1974, è la risposta alla campagna politica delle associazioni partigiane e dei partiti di sinistra che accusava il segretario missino di avere firmato un manifesto del 1944, in cui si minacciava di fucilazione i partigiani che non avessero deposto le armi.

I dioscuri dell’Msi
Quello di Almirante è un caso di eclatante uso pubblico della storia in versione di estrema destra: è un testo scritto per discolparsi dall’accusa infamante di essere stato un fucilatore di italiani, ma rivolto anche al proprio elettorato, nel senso che appone l’imprimatur della propria carica politica alla vulgata di estrema destra ormai già consolidata da quasi un trentennio, a cominciare dalla teoria della guerra civile provocata dal Pei e dall’«untuoso e accomodante» Togliatti.
A favorire le condizioni di sviluppo dello scontro fra italiani fu la presenza «degli stranieri in casa nostra (...) Se ( non ci fossero state le armate straniere entro i confini d'Italia, gli Italiani non si sarebbero ammazzati a vicenda nel nome del fascismo e dell’antifascismo». Erano presenti poi sia la consueta rivendicazione della necessità di scindere la Rsi dai nazisti — richiamandosi proprio alle memorie di Anfuso, Almirante scriveva che «Mussolini detestava i tedeschi, o più precisamente le autorità tedesche con le quali era quotidianamente a contatto» —, sia la versione dell’impoliticità della Rsi. (...) A coronamento non mancava la celebrazione della figura, esistenziale prima che politica, dei vinti, nel senso che chi aveva aderito alla Rsi era consapevole di essersi schierato dalla parte perdente.
Quello di Almirante era un esercizio di uso pubblico della storia, utile per l’elettorato e i militanti E tuttavia, proprio per questo, da considerare un vero e proprio vademecum della memorialistica della Rsi, perché in poche pagine erano condensati quasi tutti i temi cui la memorialistica di quell’area politica si sentiva più legata. Mancava solo il tema della Resistenza quale movimento esogeno, provocato da individui che, per comportamento sanguinario, per appartenenza politica o addirittura per la loro origine etnica e razziale tout court erano da considerare «slavi».
Il saggio postumo di Pino Romualdi ultimo vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano, nel suo situarsi a metà strada fra l’autobiografia e l’ambizione storiografica è un caso abbastanza frequente in quest’area politica.
Nel saggio, scritto alcuni mesi dopo il 25 aprile 1945, nel periodo della sua latitanza, Romualdi ribadisce quasi tutti i punti forti delle posizioni dei reduci, a cominciare dalla teoria della Rsi quale Stato cuscinetto per evitare la polonizzazione dell’Italia. È una posizione che Romualdi fa risalire allo stesso Mussolini, al quale, nel loro primo incontro da vicino, fa dire che gli italiani «devono convincersi che senza il grosso cuscinetto costituito da noi, i colpi che sono destinati a ricevere dai tedeschi sarebbero di gran lunga più pesanti e rovinosi». Allo stesso Mussolini, Romualdi, sulla scia della teoria di Anfuso sull’afascismo di Salò, riconosceva inoltre la volontà di costituire un governo con personalità indipendenti e non schierate politicamente. (...)

I pretoriani del regime
Le memorie di Romualdi presentavano qualche significativa novità rispetto alla memorialistica precedente - sia pure in una ricostruzione in cui, considerata la carica politica che l’autore aveva ricoperto, spesso predominavano le rimozioni - nella ricostruzione del dibattito sulla caratterizzazione più o meno politica dell’esercito della Rsi. Intanto, Romualdi giudicava un «indubbio errore politico» di Mussolini la costituzione delle Brigate Nere. La militarizzazione del partito, per Romualdi, si era conclusa nell’opera di smantellamento delle sue strutture politiche operanti sul territorio. Il secondo errore «gravissimo, forse il più grave» di Mussolini, fu la ricostituzione dell’esercito affidata alla chiamata alla leva. Una scelta che «incontrò immediata opposizione fra i fascisti, molti dei quali ritenevano, oltreché difficile, pericoloso costringere la totalità del popolo italiano a prendere parte attiva alla nostra rivolta repubblicana». «Sarebbe stato più opportuno lasciarli tranquilli gli italiani», scrive Romualdi, dando vita a un esercito ideologizzato di volontari ancora convinti del fascismo (....)».
Proprio nella ricostruzione, lacunosa e reticente, del dibattito interno alla Rsi sulle caratteristiche che avrebbe dovuto avere l’esercito, emergeva l’insostenibile aporia entro cui si muoveva la memorialistica: per un verso, si presentava la Rsi come uno stato afascista e aideologico; per l’altro, si sosteneva la necessità che questo stato aideologico, in cui avrebbero potuto riconoscersi tutti gli italiani, se non gli antifascisti, certo la zona grigia degli afascisti, desse vita a forze armate caratterizzate in senso ideologico e politico.
Inoltre, se c’è un teorico della «guerra civile», nella accezione peggiore del termine, quale situazione in cui si affrontano ideologie armate, questi era proprio Romualdi, convinto sostenitore del progetto che la guerra avrebbe dovuto essere fra due settori fortemente ideologizzati, con la nazione e gli italiani al tempo stesso come terreno di battaglia e come posta in gioco, con l’esercito di volontari fascisti a metà fra il vecchio squadrismo antemarcia e una Guardia Pretoriana dell’ideologia.
E tuttavia, con Romualdi e la sua adesione al progetto di dare vita a un esercito ideologizzato veniva al pettine il nodo forse fondamentale di tutta la vicenda della Rsi: la scarsa fiducia che ormai il fascismo repubblicano dimostrava di nutrire nei confronti degli italiani e dunque la consapevolezza, sempre più crescente e diffusa, di operare in una situazione di minoritarismo politico. Su quale terreno politico si radicava la proposta di un esercito ideologizzato, se non sul sospetto che, dopo che per un ventennio il fascismo aveva preteso che gli italiani si identificassero nel regime, sequestrando i concetti di «patria» e «nazione», ormai bisognava prendere atto che la serpeggiante domanda di pace tradiva l'avvenuta distinzione fra fascisti e italiani, fra fascismo e «nazione», con la definitiva conseguenza che le sorti del fascismo non potevano più essere affidate alla difesa degli italiani tutti?


“il manifesto”, giovedì 3 marzo 2005

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