14.9.16

Cuore, maestro di poesia. Incontro con Amelia Rosselli (Adele Cambria, 1981)

L'articolo che segue fu pubblicato su “Quotidiano donna”, un settimanale femminista dalla vita incerta e avventurosa che fu pubblicato dal 1978 (in origine come supplemento del “Quotidiano dei lavoratori”, ma presto autonomizzatosi) a tutto il 1981. Amelia Rosselli, la figlia poetessa di Carlo Rosselli, aveva appena ricevuto il premio di poesia “Pier paolo Pasolini”. (S.L.L.)
Amelia Rosselli (foto di Dino Ignani)

«...Ha due grandi occhi azzurri, capelli biondi (molti), un naso che appartiene alla famiglia delle patatine... Il primo giorno sono stato realmente indeciso se chiamarla Amelia; mi pareva di sentirla, la zia Gì, dire tra sé e sé: ma con che coraggio hanno dato a questa pupa il nome di una nonna così bellina, fine e perfetta?».
Insomma, Carlo Rosselli non trovava abbastanza «bella» la bambina che gli era appena nata, il 28 marzo” 1930, nell'esilio di Parigi. per farle portare lo stesso nome di sua madre, Amelia: profondamente affascinato com'era stato sempre (e con lui il fratello minore. Nello) da quella figura di donna, Amelia Pincherle Rosselli, che aveva cresciuto, da sola, i figli, in un clima di insolita (per quei tempi, per quell'Italietta) ricchezza di fermenti culturali e politici, educandoli al gusto irrinunciabile, e tuttavia, severo, della libertà e preparando quindi il terreno del loro antifascismo davvero militante, dove i due fratelli, Carlo e Nello, avrebbero poi trovalo insieme la morte, a Bagnoles de L'orne, il 9 giugno 1937, per mano di una banda di sicarii francesi di Mussolini.
Se nella vita della bambina che nasceva allora, in quella primavera parigina di un esilio già inquinato ma ancora addolcito dagli agi e soprattutto, dalla possibilità di coltivare antichi e nuovi legami di tenerezza (l'amore di Carlo per la moglie, la fragilissima inglese Marion Cawe, l'idolatria per la madre rimasta a Firenze, l'allegria, per l'appunto, di una nascita, quella di Amelia, che seguiva di poco più di un anno l'altra del primogenito, John, detto il Mirtillino), se dunque non ci fosse stato altro, nella vita di Amelia Rosselli — questa Amelia che noi conosciamo, che scrive poesie d'una bellezza lancinante, le più significative, dicono, nei panorama della produzione poetica italiana di oggi — forse già l'ombra leggendaria della nonna avrebbe un poco schiacciato, premuto col sottile tremore dei confronti (sarò abbastanza bella? sarò abbastanza straordinaria, come lei, nonna Amelia?) sulla crescita di una personalità nuova, già segnata, fin dalla nascita dall'affettuosa diffidenza del padre. (Il quale, tra l'altro, avrebbe preferito subito un altro maschio...).
Comunque Amelia, detta, in famiglia, Melina, si conquistò presto anche l'amore di quel padre, con lucida intelligenza votato ad un destino d'eroe. E quando dovrà dividersi dai figli piccoli restati, per prudenza, in Italia, nella villa della nonna, a Frassine, Carlo scriverà a Melina: «E tu Melina ti ricordi i balletti e i bacini nel letto...? Quando tornerete, ora che avete imparato a parlare l'italiano., rideremo, salteremo, staremo ritti... sempre in italiano! ».
Questa lingua italiana che Amelia ha dovuto conquistarsi poi, già adolescente, faticosamente, caparbiamente, e che costituisce, con la sua persistente «stranezza» — come una vena sempre di lingua straniera, inglese, francese, che lo percorre — uno dei fascini (del resto sapientemente amministrati da lei stessa, Amelia) della sua poesia.
«Mia madre mi diceva sempre: ricordati che una ragazza deve possedere almeno un armadio grande, pieno di biancheria ordinata, profumata... Ho inseguito tutta la vita il sogno di un armadio...». Questa è una delle prime frasi — e mi è restata per sedici anni in testa — che Amelia Rosselli mi disse, quando la incontrai per la prima volta, nel 1965.
E subito la sua esistenza rappresentò per me il segno rovesciato della mia: io fuggivo, o perlomeno ero fuggita a vent'anni, da lutto ciò che lei (ma quasi timidamente, chiedendo scusa per il disturbo) invece inseguiva: un armadio carico di biancheria ordinala, la sicurezza. La sua infanzia falciata dalla tragedia, lo sbarco di tutta la famiglia Rosselli in lutto negli Stati Uniti, dove Max Ascoli provvide anche agli studi dei ragazzi, e sempre questa sensazione, in lei, di non avere radici, il bisogno caparbio di reinventarsi una patria, l'Italia (i suoi due fratelli, invece, hanno rifiutato questa identificazione, per sempre: come portando rancore, e chi potrebbe non dar loro ragione? per ciò che noi, dopo, abbiamo fatto del sacrificio dei Rosselli). A Sedici anni, dunque, Amelia è tornata a vivere da sola in Italia, a Roma. La madre era morta di cuore in un ospedale di Londra, i beni della famiglia Rosselli quasi tutti esauriti, consumati nella lotta antifascista prima, nella sopravvivenza almeno fisica dei superstiti, dopo.
Amelia vive oggi con due pensioni dello Stato italiano. Con la suprema eleganza delle persone per molti versi «fuori del comune», mi mostra i due libretti intestati del Ministero del Tesoro, uno che le assegna una somma attualmente «rivalutata» (sic!) a centomila lire al mese, come «orfana di Carlo Rosselli», ed il secondo che gliene elargisce altre 40.000, «per benemerenza».
«Pare che non si possano indicizzare», osserva con una lievissima ironia. «La prima pensione mi fu data per iniziativa di Saragat, nel 1966, ed era, mi sembra, di sessantamila lire al mese. Ora me l'hanno portata a centomila, ma di più pare che non sia possibile».
Siamo nella sua mansarda, tutta legno, arredata quasi unicamente di libri, con un balconcino stretto, barocco, che s'apre vertiginoso, sui tetti della vecchia Roma, in vista della cupola della Chiesa Nuova. Amelia non possiede altro, né può avere un lavoro stabile, perché da sempre (certamente da quando io la conosco) è insidiata da quel male che noi donne sappiamo bene, con cui contrattiamo, giorno dopo giorno, la nostra sopravvivenza: ed anche Amelia combatte e non cede. Puoi fare con lei un lungo discorso perfettamente lucido — e io le devo, per esempio, l'idea che ho poi perseguito in tutti questi anni, di tentare di stabilire qual è il costo della politica in termini di vita, e quanto pagano, soprattutto, coloro che non hanno scelto, le donne degli eroi, i loro figli... — e poi improvvisamente, quietamente, ti dice: «Stamattina sono dovuta uscire molto presto di casa, perché loro mi perseguitavano.
Loro, in questo momento, ci vedono... Hai sentito questo sibilo?». «Credevo fosse il televisore». «No, vedi bene che il televisore è spento». (E davvero il sibilo l'ho sentito).
Storia di una malattia s'intitola il raccontò che Amelia ha pubblicato qualche anno fa su «Nuovi argomenti»: ed è la storia della sua persecuzione. «Da dove partano certi attacchi — inizia il racconto — a volte resta un mistero, o un mezzo mistero: ne seguono ipotesi a dozzine, alcune probabili, altre scartabili. Ma in questo caso (di cui intendo dare descrizione) fu un medico ad avere il coraggio di accusare e specificare l'origine del mate. Questo nel 1971, le noie duravano dal 1969, il male si fece specifico nel 1971, la malattia si fece acuta nel 1973 e peggiorarono le condizioni nel 1976-77. Poi vi fu un brusco calo della febbre. La malattia era la CIA, il suo corrosivo o punto d'attacco il SID o l'Ufficio Politico o ambedue...».
Iscritta al PCI, quasi subito dopo il suo ritorno in Italia, Amelia è dunque l'unica, dei tre figli di Carlo Rosselli, che s'è caricatale su spalle tanto fragili, il peso di una appartenenza, anche politica, al paese per la cui «liberazione» (impossibile?) la sua famiglia s'è distrutta. Certo, anche le donne, di quella famiglia, in qualche misura sceglievano la via del sacrificio per la Grande Causa, e senza dubbio — è lei stessa a riconoscerlo — «la nonna Amelia ebbe un grandissimo peso nel modo di essere di mio padre e di mio zio...». «E tua madre?». «Oh, mia madre era una donna bellissima, e molto più avventurosa, forse, anche di mio padre... Non lo trattenne mai; eppure lei, con discorsi di prudenza... Soltanto gli ultimi anni mi faceva quei discorsi, diciamo, da donna: un armadio, un corredo, un marito... Chi sa...».
Fino ai venticinque anni, Amelia studiò musica: scriveva già, ma, specialmente, suonava: il pianoforte, il clarino, il violino. Ha elaborato, in quell'epoca, una grossa tesi su Beethoven, ha partecipato ad alcune performances di Nuova Consonanza.
«Poi ho smesso: non si può fare musica e poesia. O l'una o l'altra. Entrambe sono discipline severe». E poi, a proposito dei suoi Primi scritti, poesie e prose in tre lingue, pubblicate da poco da Guanda: «Ho smesso anche di scrivere in inglese, perché ero diventata, in questa lingua, di un virtuosismo diabolico. Vedi questi sonetti elisabettiani? Il virtuosismo uccide, a lungo andare, la poesia». E, ancora, bruscamente: « Per un certo periodo loro mi hanno impedito di scrivere, poi anche di leggere... Ora va meglio. Ho ricominciato anche a scrivere. Del resto, ho ancora della roba inedita, non mi va di pubblicare tutto... però guarda questo... L'ho chiamato Diario ottuso, e, secondo me, è il mio testo più auto-biografico».


“Quotidiano donna”, 20 marzo 1981

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