8.9.16

Futuriste. La donna con i fulmini in testa (Maria Corti)

Maria Ginanni tra i futuristi. A destra Filippo Tommaso Marinetti
Altro è guardare la distesa dell'acqua marina, metti, dell'Adriatico, altro quella di un oceano: qui la massa liquida incombe di maniera che può dare un senso di smarrimento, di horror Claude o vertigine dell'acqua. L'analogia vale per chi passi dalla lettura di un libro sul futurismo italiano alla visione sconcertante dell'intera raccolta di Manifesti futuristi, 1909-1944, curata da Luciano Caruso per le coedizioni S.P.E.S. - Salimbeni.
L'opera è composta da oltre quattrocento manifesti riprodotti nel formato originale e raccolti in quattro contenitori di cartone, di cui il primo raccoglie i manifesti composti dal 1909 al 17; il secondo dal 18 al 33; il terzo dal 34 al 44, con tre Appendici dedicate rispettivamente a proclami, locandine, volantini, polemiche, ecc., quindi alla rivista “Il Futurismo”, la cui direzione fu a Milano dal gennaio '22 al gennaio '24 e a Roma dal dicembre '24 al febbraio '25; e infine a riviste minori e numeri speciali di gruppi d'avanguardia vicini al futurismo.
Il quarto contenitore contiene cose a loro modo interessantissime. Per esempio, i curiosi manifesti dei pittori Circumvisionisti o dell'Unione Distruttivisti Attivisti (del 1929, con nota autografa di Ungaretti), il bizzarro e un po' fastidioso proclama degli scrittori e artisti Viristi, che certo non possedevano il senso dell'humour, il numero unico “Artecrazia” del '33, dove fra l'altro è riprodotto in parte il proclama del 1914 di Sant'Elia sull'architettura, di fianco al bla-bla fascista, o il numero speciale del 39 di “Campo grafico” definito «aeroporto della rivoluzione futurista» e dedicato alla poesia pubblicitaria. Infine da segnalare nel fruttuoso contenitore alcuni volumetti oggi introvabili, stampati nel 27-28 dalle Edizioni Sindacati Artistici di Torino e riprodotti anastaticamente con tale abilità tecnica da parere originali: per esempio, Vetrina futurista di letteratura, teatro, arte (due volumetti).
Si può affermare tranquillamente che questa grandiosa impresa è uno dei contributi più seri e artisticamente eleganti che siano usciti in questo periodo di tempo in cui si dibatte il problema dei significati della cultura degli Anni Trenta; e naturalmente, uno dei meno citati, salvo dagli specialisti. Che la riproduzione di manifesti, riviste, libretti sia stata effettuata con tecnica avanzatissima e sotto l'occhio attento di una storica dell'arte esperta di queste cose come Paola Barocchi della Normale di Pisa, editrice in passato della lunga serie delle Esposizioni futuriste, non è solo un fatto da segnalare in sé, ma è condizione necessaria a intendere in generale l'altissimo livello della grafica italiana di quegli anni, e in particolare a rendersi bene conto dei caratteri di quel «genere» artistico che è il manifesto o affiche. Un genere che, dopo la stampa di questa raccolta, potrà essere oggetto di utili studi interdisciplinari linguistico-iconici.
È d'altronde palese che con questa raccolta a portata di mano, o di biblioteca, è possibile raggiungere una visione diacronica, cioè storica, del movimento italiano futurista in funzione degli aspetti teorici e programmatici che sono normale contenuto del genere manifesto; e a questo proposito va segnalato il quaderno introduttivo dal titolo Notebook del curatore Luciano Caruso, noto studioso del futurismo oltre che critico letterario.
Benché Caruso dichiari di voler offrire solo degli «assaggi» critico-teorici, in effetti il saggio mette in luce alcuni aspetti assai stimolanti dell'operazione futurista, alcuni titoli di novità: i futuristi furono i primi «a sentire, isolandolo da altri possibili, il fascino e l'ossessione lirica (=poietica) della materia». Di conseguenza procedettero al rovesciamento della proposizione «fare della vita un'opera d'arte»: donde il fondamentale ottimismo che circola nel movimento e l'influsso che, secondo Caruso, queste teorie avrebbero avuto su molta filosofia e sociologia del dopoguerra.
Uno studio approfondito dei manifesti dimostrerà il lento e progressivo calo della carica trasgressiva, dovuto non tanto a una diminuzione dei programmi eversivi, quanto all'aggancio di questi programmi alle forze politiche, cioè al fascismo. Se è vero che ogni opera d'arte ha in sé una forza «politica», questa forza sussiste fin quando non entra nel determinismo di una prassi politica particolare; la confusione dei due fatti squisitamente diversi ha nociuto parecchio al futurismo.
A questo piatto forte del convito futurista diamo come contorno l'intelligente libretto di Claudia Salaris, Le futuriste. Donne e letteratura d' avanguardia in Italia (1909-1944), Edizioni delle donne (pagg. 266, lire 12.000). Come si vede, il percorso cronologico è lo stesso, copre l'identico arco di tempo dei manifesti; la Salaris ci dà un'antologia di testi preceduti da cappelli esplicativi ben fatti e illuminanti nei riguardi dei successivi brani antologici. Alla lettura però ci si accorge che questo volumetto è addirittura complementare alla grande impresa. Un esempio: se là il primo manifesto è quello di Marinetti, uscito nel Figaro del 20 febbraio 1909 e ristampato nella rivista “Poesia” (manifesto in cui al n. 9 si dichiara le mépris de la femme, «il disprezzo della donna»), la Salaris apre l'antologia con Madame Aurel, che nello stesso numero di “Poesia” pubblicò il simpatico e ironico manifesto personale Propos des femmes.
Certo le donne, come ben documenta la Salaris, non ebbero vita facile a quell'epoca, in quanto si sovraimprimevano ad esse due immagini entrambe potenti e nocive, anche se contraddittorie: da un lato quella della donna istintiva, priva di doti intellettuali, «fatto di natura» (cfr. Moebius, gli aforismi di Kraus ecc.); dall'altro quella della donna ideale, dell'Eterno Feniminino, saldamente codificata dal petrarchismo al romanticismo, a D'Annunzio. Tuttavia Marinetti corresse la rozzezza e quasi brutalità di alcune affermazioni sul «valore animale» della donna, accogliendo nella rassegna internazionale di “Poesia” molte donne, futuriste e no, fra cui quella Elda Giannelli cui si deve proprio una teorizzazione in poesia del versoliberismo. Il libro della Salaris è importante in quanto la studiosa non si limita alle solite firme femminili illustri dell'epoca (Valentine de Saint-Point, Benedetta), ma scava e recupera le firme di secondo piano, le «minori»; e ben si sa che sono i «minori» a costituire in ogni epoca il tessuto connettivo della letteratura, quello che Manganelli chiama «il thè delle cinque».
Se la prima poetessa futurista italiana è la naive Manetta Angelini, il primo coagulo di futuriste si ha nel 1916 sulla rivista fiorentina “L'Italia futurista”; ecco Maria Ginanni bella anche, il che non guasta, che avrà un seguito di imitatrici e scriverà: «Ho per capelli dei fulmini». Ecco scatenarsi la polemica contro il marinettiano manuale Come si seducono le donne: ohimè!, varie futuriste a buon diritto protestano e fra esse brilla per argomenti contestatari Rosa Rosà. Ma ben altri sono in genere i discorsi delle futuriste, che affrontano il problema del voto alle donne, quello sessuale e l'altro della cooperazione sociale e culturale con l'uomo; oppure si arrabbiano, come Elda Norchi (Futurluce): attenzione, le convenzioni crollano, sono finiti i tempi delle «donne-bambole», ora «sono balzate fuori le donne-operaie, donne-tranviere, donne-carrettiere, donne-spazzine» e via di seguito per molte righe infiammate di un certo sagace furore.
Negli Anni Venti le futuriste tornano anch'esse più strettamente all'universo letterario: Aurelia Del Re, Alzira Braga, Benedetta e le rappresentanti dell'aeropoesia, sovreccitate come i colleghi maschi dal topos della macchina, della velocità, da nuove parole in libertà. Forse poetessa può dirsi Benedetta, col suo assillo di «perforare l'Ignoto», di guardare «i curvi respiri verdi del suolo». La Salaris fa da ottima guida attraverso una terra in parte sconosciuta, dove ci si incontra con l'ardore di vita e di intelletto di alcune protagoniste del femminismo, si assiste a una danza voluttuosa di princìpi e di parole, alla grande utopia di un mondo senza catene e soprattutto senza sciocchezze.

“la Repubblica”, ritaglio senza data, ma 1982


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