6.9.16

Il mondo finirà a Taormina. Intervista a Tennessee Williams (Donald Ranvaud)

Tennessee Williams morì in circostanze non chiarite (un incidente medico collegato all'alcolismo? un suicidio?) il 25 febbraio del 1983 in un albergo di New York. Qualche mese prima, nell'ottobre del 1982, il grande drammaturgo americano era a Taormina, ove Daniel Ranvaud, collaboratore del quotidiano comunista “il manifesto”, lo intervistò nelle circostanze che lui stesso racconta. 
Nell'intervista non soltanto emergono l'amore di Williams per Taormina e la Sicilia, la sua inquietudine, la potenza critica della sua intelligenza artistica, ma c'è di più: vi viene raccontato l'abbozzo di un dramma che non poté essere scritto e che proprio a Taormina e in Sicilia aveva il suo svolgimento. Questo rende il testo assai particolare: l'ultima testimonianza che l'autore americano, assai parco nelle interviste, volle dare sul suo lavoro e sulla sua idea di America fu riservata a un piccolo quotidiano della piccola Italia, per di più comunista. (S.L.L.)
Tennessee Williams a Taormina con il pittore e scultore HenrY Falkner
TAORMINA. Ho incontrato Thomas Laurier Williams per caso nel chiostro del San Domenico a Taormina: si aggirava alla ricerca dell'ombra con quel famoso cappello di paglia che usa a mo' di ventaglio e una camicetta hawaiana fuori dai pantaloni. Borbottava qualcosa sul suo itinerario futuro e malediceva gli scalini che doveva fare per ritornare nella sua stanza dalla piscina dove amava restare il più possibile quando la calura glielo permetteva. Non sapevo che stavo chiacchierando amabilmente con Tennessee Williams. Sapevo solo che questo simpatico ed eccentrico turista americano dall'accento indefinito mi aveva incuriosito subito. D'altronde nessuno sapeva ancora che il sessantottenne commediografo americano fosse a Taormina e, se non fosse stato per l'arrivo della sua dama di compagnia (la signora Tony Smith) e del suo giovane collaboratore (lo sceneggiatore Peter Hoffman) che lo chiamarono affettuosamente «Ten», e per il ricordo delle leggende attorno al suo cappello, non credo lo avrei mal riconosciuto.
Tennessee ha infatti una pessima reputazione nei confronti della stampa che lo ha sempre dato per uno scontroso e burbero mangiabambini, uno che non rilascia mai interviste, che non si fa mai fotografare e che è capace di perdere le staffe per un nonnulla. Mi è parso subito che questi pregiudizi altro non potevano essere che una fantastica montatura. È un'operazione costruita probabilmente a partire da tutti quei grandi personaggi da lui creati per scandalizzare più di una generazione di benpensanti «middleamercans»: dalla inquietante, storpia, Laura dello Zoo di vetro (1948), ai fratelli/attori Felice e Clare nel Two characters play (1967); dalla celebre Bianche Dubois del Tram che si chiama desiderio (1949) al durissimo Brick di La gatta sul tetto che scotta (1955) assieme a tutti gli altri relitti umani, ai fantasmi senza pace di un «profondo sud» corrotto e maledetto nei vari La rosa tatuata (1951), Improvvisamente l'estate scorsa (1958), La notte dell'iguana (1961).
Forse è stato un modo come un altro per cercare di esorcizzare questa inquietante visione dell'America che mette a nudo, attraverso l'allegoria, la spaventosa paura dell'insuccesso, del fallimento morale e psichico, nel quale si può solo essere inghiottiti dal viscoso tessuto della società americana, composto da violenza, sessualità (fino alla morbosità) e giganteschi sensi di colpa. Invece la generosa cordialità e la limpida intelligenza di Williams si rivelano proprio il miglior antidoto contro tutte le maldicenze e le gelosie di cui è stato oggetto nella sua lunga carriera. Ormai si ritiene un uomo tranquillo che si rallegra di poter continuare a lavorare
Fissiamo amichevolmente un appuntamento per un colloquio più approfondito. È la mezzanotte dello stesso giorno nella sua stanza: farà senz'altro più fresco e a lui piace ricevere visite o uscire verso quell'ora dato che non può più lavorare.
Tennessee Williams con Anna Magnani
WILLIAMS: «Il negativo è dentro di me. 
E io lo racconto» (D. R.)
TAORMINA.
Come mai Tennessee Williams in Italia?
Mi piace molto l'Italia, soprattutto la Sicilia. Ci vengo abbastanza spesso. Sono stato a Taormina anche due anni fa; ero con un grande, caro amico scomparso di recente, lo scultore Henry Falkner. Mi sento molto vicino a questa terra così ricca di memorie felici per me e questo viaggio è per certi versi un pellegrinaggio che faccio con particolare devozione e amore.
Qui il mio lavoro non è lontano da me e sto lavorando con il signor Hoffman già da vari mesi all'adattamento di due miei racconti per il cinema. Amo viaggiare e lavorare nello stesso tempo: sono due cose che si completano molto bene e trovo molto stimolante scrivere durante i miei viaggi. Ma poi c'è un altro motivo che mi ha spinto a tornare in Sicilia. Vorrei scrivere una commedia usando come sfondo questa cornice italiana.

A causa di ricordi suoi personali o per via dell'ambiente?
Beh, per moltissime ragioni intrinseche, ma soprattutto per ragioni che né lei — e forse neanche io — si può immaginare, tenendo conto del tipo di commedia che ho finora prediletto. Si immagini una specie di rivolta della natura, con tutti i vulcani del mondo che esplodono uno dopo l'altro causando terremoti, squilibri atmosferici di tutti i tipi con grandini di fuoco e sconquassi irreversibili. Si immagini anche due storie romantiche tutte rivolte verso un passato di emozioni e di guai che si intrecciano confusamente nella memoria di vari personaggi. Bene, prima di tutti scompare, inghiottita dal mare, la California intera con Hollywood che precipita nei più profondi abissi, dove si merita di finire... L'azione comincia (e si sofferma) nella piazza principale di Taormina con un bar (il Mocambo o il Wunderbar ndr) che viene man mano sostituito da altri ambienti come la spiaggia, il rifugio e via dicendo.
L'Etna è l'ultimo del vulcani a esplodere ma è il più violento, e per i personaggi della commedia non c'è via di scampo. Gli annunci ufficiali incoraggiano i cittadini a recarsi sulla spiaggia dove dovrebbero essere salvati dalla Marina, che però non arriva mai. Chi si reca laggiù può scegliere soltanto fra la colata di lava o il mare In tempesta. In tutti gli ambienti prescelti si diffonde il panico meno che nel bar (che è un po' il posto più adatto per la «cultura» in Italia). Ma anche il bar alla fine rimane deserto, ad eccezione di un uomo che continua a bere, dato che gli hanno lasciato la scorta di alcool a portata di mano. È l'unica persona rimasta in vita — si immagina — in tutta la Terra...

Sarà lei, immagino.
Lo scrittore perlomeno.

Davvero lei vorrebbe sopravvivere alla fine del mondo?
Se vuol proprio sapere la mia opinione, personalmente non credo che ci sarà la fine del mondo, se non in termini di fiction teatrale... Non è possibile che i conflitti politici e militari contemporanei si risolvano con la distruzione del mondo, semplicemente perché ciò non farebbe comodo a nessuno.
Credo che le forti tensioni che continuano a preoccuparci esistano in funzione di una forma concordata, ad alti livelli di repressione, che permetta di mantenere certi rapporti di forza tra chi rappresenta l'autorità ufficiale e il popolo vero e proprio. E anche se questo non fosse vero, io credo che noi tutti non abbiamo altra alternativa che credere fermamente che sia così, non le pare? Ritornando al nostro discorso, però, mi sembra giusto che a livello di fiction la fine del mondo avvenga in Italia. Insomma viene spontaneo immaginarsi la fine del mondo qui, dopo che sia scomparso tutto il resto. Poi, però, c'è il fatto che lo scrittore è ancora in scena alla fine e si preoccupa di scrivere immediatamente qualche cosa d'altro...

Ma per chi? Per cosa?
Per se stesso, per le sue memorie.

Che cosa pensa di Reagan?
Mi sento profondamente americano e mi rammarico della fase di reazione che purtroppo stiamo attraversando. Sono convinto che non può durare a lungo e che presto torneremo ad una democrazia più consona agli americani. Bisogna tener duro, però.

Tempi duri anche per la cultura. Se non sbaglio la sua ultima commedia non è andata molto bene a Broadway...
Dica pure che fu un fiasco (questa parola va bene in italiano, è vero?).

Era Closed for Summer, vero?
Sì, una cosa del genere... È stato due anni fa a Broadway... Altrettanto male era andata prima a Chicago The House Not Meant to Stand. Allora pensai che forse era il caso di smettere. Basta con le commedie lunghe (a parte quella che sto scrivendo e di cui abbiamo parlato)... solo atti unici e novelle piuttosto che romanzi, sennò che palle!

Lei crede molto ai giudizi dei critici?
No. In generale li trovo molto poco attendibili. Una commedia può spesso ricevere recensioni completamente opposte da un "revival" ad un altro; Invece è molto difficile che si sbagli il pubblico pagante, se continua a essere tale... Camino Real è forse il mio caso più clamoroso in questo senso. È stata una bella soddisfazione!

Che cosa la spinge a continuare a scrivere; o — per dirla all'antica — da dove prende ispirazione?
Ci sono tanti misteri attorno all'atto dello scrivere! Vede, se si scava un pochino, i misteri svaniscono, ma allora ci troviamo tutti scontenti. Meglio lasciare che i misteri continuino a esistere...

Ma allora la sua recente biografia come dobbiamo prenderla, se non in senso demistificatorio?
Questo è un capitolo che mi ha dato quasi soltanto dispiaceri. Credo che mai nessun altro sia stato trattato così male dopo essersi esposto cosi tanto. Mi sento truffato economicamente e anche moralmente a causa della reazione di alcune persone. E pensare che ne avrei di cose da dire; ho appena cominciato. Vorrei poter raccontare un giorno tutta la verità su quello che ho visto e sentito nel mondo dello spettacolo durante la mia lunga carriera. Eh, sì... Ma almeno ho la consolazione di aver fregato tutti i miei coetanei, dato che sono sopravvissuto a tutti!

E per quanto riguarda il cinema?
Ah, io non mi stanco mai di vedere Il Falcone Maltese.

Veramente io volevo parlare dei suoi film...
Beh, Brando mi ha impressionato moltissimo: un attore veramente senza uguali. Ma ho anche avuto la fortuna di trovare delle interpreti eccezionali in Vivien Leigh e nella indimenticabile Magnani...
La cosa più traumatizzante però per me è sempre stato il mio rapporto con la censura che mi ha sempre perseguitato stravolgendo alcune tra le cose più belle e significative dei miei lavori. Vorrei raccogliere le mie sceneggiature e pubblicarle tutte insieme, anche quelle che, per una ragione o per l'altra, non sono mai arrivate allo schermo. Forse la mia opera meno perseguitata è stata The Roman Spring of Mrs. Stone (1961), tratta da un romanzo. In questo senso sono contento del risultato.

E nel teatro? Qui siamo nella terra di Pirandello e la sua ultima commedia sembra avere dei richiami pirandelliani come in altri suoi lavori, o sbaglio?
Pirandello era un abile, grande mattacchione. Mi piace moltissimo e perciò non mi dispiace affatto la sua affermazione. L'unica cosa, magari, è quella di temperare una materia che può esser definita pirandelliana con — non so — la cura e l'efficacia di un Cechov (forse il più grande drammaturgo di tutti i tempi), o magari anche di uno Strindberg. A teatro questi sono gli autori che mi hanno dato più emozioni e che mi hanno insegnato di più.

Che cosa l'ha ferita di più, nei tagli del censore: i sistematici cambiamenti dei finali o quelli apportati ai dialoghi?
Ma tutto! Cose incredibili! Mi hanno rovinato anche Streetcar...

Che è il lavoro che lei predilige?
Sì, ancora adesso.

E tra i suoi personaggi?
I personaggi fanno tutti parte di me stesso, nel bene e nel male. Soprattutto nel male, perché trovo che in uno scrittore — come in tutti, del resto — ci sono molti lati negativi che si vorrebbero nascondere. La differenza fra gli altri e lo scrittore è che lui, invece di nasconderli, deve farli venir fuori, i lati negativi, e farli crescere.


“il manifesto”, 17 ottobre 1982

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