6.9.16

Vonnegut, un Jonatan Swift USA (Goffredo Fofi)

Dalla fantascienza a Nixon
Un'America reale e assurda in cui Mark Twain si mescola con Groucho Marx

L'ambizione di Kurt Vonnegut è, dichiarata o no. quella di diventare il Jonathan Swift dell'America dei nostri giorni. Naturalmente la critica ufficiale Italiana non si è ancora accorta di lui, forse respinta dalla dispersione delle sue opere tra più editori (Mondadori, Rizzoli) e ancor più dalla sua passata qualifica di «scrittore di fantascienza», cioè di genere. In realtà, per quello che se ne può capire non essendo americanisti, Vonnegut è assieme a Kosinski il più interessante, eterodosso e «pubblico» degli scrittori americani contemporanei. Pubblico in che senso? Perché parla della «cosa pubblica» che è l'America, il suo mito, la sua vitalità, la sua o le sue mostruosità e riesce a darcene via via un ritratto sfaccettato, iperbolico, paradossale: dove il ricorso al paradossale e alla deformazione si configura come una delle poche strade frequentabili per rendere l'«idea» dell'America, un'essenza e una sintesi.
A modo loro, i romanzi di Vonnegut sono «storici» (si muovono agilissimamente nel tempo e sono pieni di riferimenti nonché di personaggi della storia americana), «fantastici» (sviluppano una tensione tra il reale e l'assurdo sul filo della probabilità, eredità del tirocinio nella fantascienza; e per il tramite di Kilgore Trout, personaggio di pazzoide scrittore di fantascienza che compare in quasi tutti i suoi libri, confrontano le regole di vita di mondi immaginari con quello del mondo americano), e «morali» (sono pieni di parabole, magari sotto forma di barzellette, che cercano di ricavare dalla mescolanza dell'assurdo e del concreto indicazioni di comportamento, linee di valori, ciò che è giusto e ciò che non le è). Il tutto con una andatura galoppante di narratore orale scaltrito dallo show americano: un conferenziere-entertainer, versione yankee della narrazione di tipo orale cara al Benjamin commentatore di Leskov. Come dire un po' di Irving e Twain, un po' di Hawthorne o Bierce, un po' di Sheckley (e naturalmente del Vonnegut dei romanzi di fantascienza degli anni sessanta!) e un po' di Groucho Marx e di Lenny Bruce. All'ombra certamente divertita e benedicente, di Jonathan Swift. Si sarà capita l'originalità del percorso derivata dalla poco edita fusione di questi elementi, ma non ancora dove Vonnegut vuole arrivare, che America risulta da questa combinazione.
Dopo Mattatoio 5 o la crociata dei bambini (il suo capolavoro) e Dio la benedica, signor Rosewater o le perle ai porci, questo suo romanzo, Un pezzo da galera, l'ultimo tradotto in italiano (Rizzoli, lire 8000, nel coacervo indigesto della collana «La scala»), perfeziona la formula vonnegutiana attraverso la vicenda di Walter F. Starbuck, un anziano e divagante signore che ha amato quattro donne nella sua vita (la propria madre, una ragazza ebrea reduce dai lager conosciuta a Norimberga all'epoca del processo, una signorina di buona famiglia industriale in decadenza, e infine una agitatrice proletaria che Starbuck ritroverà da vecchio sotto gli stracci di una mendicante e l'identità di una multimiliardaria padrona di un immane monopolio mondiale, misteriosa, barbona alla ricerca di «giusti» cui affidare le sorti, con i soldi, di una rivoluzione altrettanto mondiale); che ha studiato a Harvard grazie all'aiuto di un magnate balbuziente con cui giocava a scacchi da bambino; che è stato pluridecorato per meriti, burocratici, di guerra; che ha un passato anni trenta di comunista e ha collaborato non volendo alla caccia alle streghe di MacCarthy; che è diventato inutile consigliere di Nixon per i problemi della gioventù; che si è ritrovato dentro lo scandalo del Watergate e in galera perché i superiori politici gli hanno nascosto nel sottoscala della Casa bianca dove ha l'ufficio un valigione di soldi compromettenti; che, ritrovata la mendicante-miliardaria, è diventato dopo la morte di quella, dirigente del monopolio prima che lo stato lo faccia suo sfasciandolo con l'efficienza; che è sbattuto di nuovo in galera ma è infine circondato da amici come in un finale alla Frank Capra, perché ha nascosto a ragion veduta il testamento della vecchia.
Eccetera eccetera, in un eontinuo gioco di flash-back, di inserti storici, di personaggi minori di immaginosa e rapida messa a tondo. L'uomo comune Starbuck (come il Pilgrim di Mattatoio 5) è prigioniero suo malgrado della storia, non riesce a tenersene fuori perché quella, tra agnizioni e casualità (tutto si tiene, tutti i personaggi prima o poi si incontrano tra loro, incrociano i loro destini e Vonnegut commenta: «Figurarsi!», così come commenta con un «Pace» gli avvenimenti più atroci in cui la storia si fa carnefice di innocenti) gli è sempre addosso ed esige una sua partecipazione, sia pure secondaria, sia pure ritrosissima.
La storia non è solo storia di magnati e politici; essa è soprattutto la storia delle loro vitti- I me, delle vittime — si sarebbe detto una volta ! ed è bene continuare a dire — del «sistema»: compaiono nel libro, ossessione ricorrente e simbolica, Sacco e Vanzetti e le vittime di un massacro di minatori negli anni dieci, immaginario ma ricostruito mettendo insieme pezzi di massacri ben reali, di fronte ai loro carnefici (spesso harvardiani), a Nixon e ai suoi consiglieri, a giuristi, politici, industriali dai nomi altrettanto reali. (E' questo un punto di contatto, tra Vonnegut e Kosinski, che per esempio, in un terribile romanzo che l'editoria italiana ha voluto ignorare, Blind date, fa comparire come personaggi Jacques Monod, Charles Lindbergh, Sharon Tate, ecc. ecc. mentre che oscilla autobiograficamente tra descrizione spietata della società «socialista» e degli Usa: ma Kosinski è in definitiva un cinico, Vonnegut un «buono»).
Da quest'altalena di reale e immaginato, da questa satira stridente e assai spesso esilarante (si ride molto leggendo Vonnegut), esce un'America assai più veritiera di quella dei romanzieri sociologizzati e psicologici, e esce, come ovvio, una morale. Banale, forse, e minima ma l'unica che Vonnegut, da inveterato idealista nonostante tutto, si sente di poter esprimere. È quella di un sindacalista dell'epoca eroica (harvardiano anche lui) che risponde a chi gli chiede in sede di processo perché si è messo a fare il minatore e a organizzare i suoi compagni; quella stessa che Starbuck fa sua rispondendo in sede di processo al giovane Nixon che gli chiede perché negli anni trenta è stato comunista: «Per via del Sermone della Montagna, signore».
Nella prefazione, spiritosa e personale e già pienamente «romanzesca», Vonnegut riferisce della lettera di uno studente che ha analizzato i suoi romanzi. «Crede di aver colto l'idea che ne costituisce il nucleo, il fulcro; è disposto ad enunciarla con parole sue proprie, in questo modo: L'amore può fallire, ma la gentilezza infine prevarrà» commenta Vonnegut: «A me questo sembra vero e completo». È poco? Si tratterebbe però di sapere chi oggi riesce a dire e proporre molto di più.

il manifesto, 28 gennaio 1981

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