22.9.16

Marguerite Yourcenar. Viaggio con la prozia (Maria Corti)

Marguerite Yourcenar, scrittrice franco-belga, saggista, poetessa, traduttrice di classici greci e latini, è una donna alquanto eccezionale. La cosa va detta sia perché le donne eccezionali non è che siano poi tante, sia perché il successo le è giunto, ohimè, molto tardi, attorno ai sessantacinque anni, e solo quest’anno è stata eletta (prima donna!) all’Académie Française. Forse tanto ritardo perché, da scrittrice di razza, era schiva, saggiamente riservata e solitaria? Può darsi. Certo è che appare dotata al massimo del colpo d’occhio individuale verso uomini e cose; inoltre, a leggere i libri della Yourcenar, fra cui il recente Memorie di Adriano, in cui lei si misura con l’antico pensatore e protagonista della storia romana, si sente che l’autrice è anche ben dotata di un proprio sistema di gravitazione. Ha perciò fatto benissimo l’editore Einaudi a tradurre i Souvenirs pieux del 1974, a cui è stato dato il titolo Care memorie, a prima vista titolo letterale, anche se più pertinente allo spirito dell’espressione francese e del contenuto del libro sarebbe stato «Reliquie».

Due ombre secolari
In apparenza l’opera è un’autobiografia, ma in realtà è qualcosa di molto più originale anche come genere letterario, perché l’autrice non ci racconta la storia della sua vita, bensì cerca di rispondere a una questione che riguarda tutti noi. In parole povere si domanda: quell’essere che è venuto al mondo il lunedì 8 giugno del 1903 a Bruxelles, da padre francese e da madre belga, posso dubitare che sia lo stesso che io chiamo «io»? Certo no, eppure l’identificazione lascia un senso di irrealtà, per vincere la quale è indispensabile risalire indietro, tanto tanto indietro, con sublime pazienza, e raccogliere informazioni su nonni e bisnonni, su zii e prozii, sugli avi immersi ormai nella Storia di tutti: da così lontano ciascuno di noi ha origine.
Un simile tipo di autobiografia non solo è speculare rispetto al genere letterario, perché va indietro nel tempo invece di andare avanti, ma in esso l’autrice tenta, con un sorprendente misto di curiosità storica e artistica, di ricostruire l’avantesto di quel testo che è ciascuno di noi. Interessante, al proposito, l’insieme di pagine, non a caso corposo, dedicate ai due fratelli Octave e Rémo Permez suoi prozii; due artisti, e ormai due ombre secolari, a cui lei si accorge con stupore di assomigliare in moltissimi comportamenti e in stati d’animo ricavabili dai loro scritti privati e pubblici: analoga difficoltà nel risolvere il contrasto fra la ricchezza felice della vita interiore e quel disastro che gli uomini al plurale hanno fatto della vita, anche se lei non è giunta a suicidarsi come Rémo; il fascino continuo, a volte esclusivo, dei classici greci e latini, soprattutto greci, la lettura delle loro opere sotto gli alberi! e via di seguito.
Ritrovate tante affinità fra i due fantasmi e lei negli anni Trenta, commenta: «Senza saperlo ho rifatto i loro viaggi in un mondo già più precario e più degradato del loro, ma che oggi, a quarant'anni di distanza, sembra per contrasto quasi decente e stabile». Suggestiva la postilla: «Il matrimonio fra consanguinei di Arthur e Mathilde avvicina a me quelle due ombre, poiché un quarto del mio sangue viene dalla stessa fonte che la metà del loro».
Presa dall’intrico dei recuperi familiari, la scrittrice giunge a vette di pura narrativa senza venir meno alla fedeltà dello storico del costume e del critico letterario. Si leggano le mirabili pagine sulle codificazioni della vita borghese di provincia, sulle sue futilità dolcissime; o le altre in cui all’ironia delle prime si sostituisce una forza sarcastica e drammatica, come là dove è detto che Cristo è il pupo del presepio o il crocefisso d’argento e d’oro nel quale non rimane quasi più nulla del dolore che ci sgomenta nei crocefissi medievali, mentre i «veri dei sono Pluto, principe dei forzieri, il dio Termine, signore del catasto, che vigila sui confini di proprietà, l’inflessibile Priapo, dio segreto delle spose, legittimamente eretto nell’esercizio delle sue funzioni» e poi Lucina che regna nelle stanze delle povere puerpere annuali, così spesso consegnate a Libitina, dea delle sepolture.
Stupende le descrizioni delle crisi matrimoniali, naturalmente destinate a restare segrete, fra le cortine dell’alcova, o a dare minuscoli segni di sé a tavola, dato che anche per i meno buongustai vivere insieme significa in parte mangiare insieme. Della propria madre l’autrice scrive che «c’era in lei qualcosa della fata, e niente è più insopportabile, a giudicare dalle fiabe, che vivere con una fata».

Quella croce d’avorio
Solo per poche pagine la Yourcenar inserisce se stessa in quanto personaggio della narrazione; e soprattutto si vede neonata, «vecchia di un’ora» e tuttavia già presa nella rete della vita, di cui fanno parte le notizie stampate sul giornale di quel mattino, giacente sulla panca dell’ingresso in quanto la sua nascita ha tolto a tutti il tempo di leggerlo. E qui la Yourcenar ci fa pensare al recentissimo libro di Renato e Rosellina Balbi, Lungo viaggio al centro del cervello; è arrivata per intuito artistico alle soglie di una modernissima visione scientifica; invece di descrivere se stessa, simbolicamente descrive la croce d’avorio che pende dalla culla: «Quella grande massa di vita intelligente, discendente di una dinastia che risale almeno all’inizio del Pleistocene, è approdata qui». Parimenti il latte di mucca dato alla bimba offre l'appiglio a una delle descrizioni più tremende che io abbia letto dell'egoismo e della crudeltà degli uomini nei riguardi di questa bestia-nutrice, simbolo animale della vita feconda. Le possibili morti della vacca sono offerte al lettore quali immagini della sua potenziale crudeltà affinché egli si senta coinvolto e veda la storia degli uomini passati come un gioco complesso di cause di cui lui risente ancora gli effetti. Allo stesso fine è descritto l’inverno dei poveri: «Nei rigidi inverni si distribuiscono ai poveri buoni legna e coperte; i poveri cattivi non ricevono nulla».
La Yourcenar dice di un suo personaggio che è fragile e non è fatto del materiale che produce i settantenni; ebbene, lei è di questo materiale, lo si sente in ogni pagina del libro: può dedicarsi ai giochi di specchi del tempo mantenendo intatto l’acuto spirito di osservazione, venandolo se mai di ironia o senso parodico delle cose, mai di patetismo: nemmeno un rigo che denunci debolezza, sempre pronta a sistemare trappole per fantasmi. Ha le sue predilezioni, questo sì, e le sue idiosincrasie: detesta le madri perfette perché sono soffocanti, detesta i sentimenti falsi, buoni o cattivi che siano, ama «quelle vite che si consumano in un desiderio strano e irrealizzabile», anche se prevede per esse una tragica fine. Rivela a volte una stupefacente forza stilistica: le bastano due righe per situare nella sua vita unica un bisnonno, una prozia, una balia, visti dall’interno; e questo è essere scrittore.


“la Repubblica", 24 ottobre 1981

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