Gli eventi catastrofici
possono provocare disorientamento e giudizi emotivi che presto
appaiono datati. George Orwell visse a Londra la seconda guerra
mondiale e in qualità di giornalista e commentatore scrisse diari e
testi che congiungono impressione e riflessione, sempre con molto
respiro. Le considerazioni e predizioni errate non mancano, come egli
stesso segnala, ma nel complesso questi scritti restano attuali anche
quali documenti di come una situazione in fieri appariva a un
uomo della sua acutezza e della sua capacità di sintesi.
Diari di guerra (a
cura di Guyda Armstrong, traduzione di Alessandra Sora, postfazione
di Bernard Crick, Oscar Mondadori) ristampa i Diari veri e propri
tenuti nel 1941-42, insieme a un importante pamphlet del 1941 inedito
in Italia, Il leone e l'unicorno: il socialismo e il genio
inglese, e le notevoli corrispondenze che Orwell inviò durante
il conflitto alla «Partisan Review» di New York, spiegando ciò che
accadeva nell'isola ai compagni di fede progressista. Fra queste tre
sezioni esistono sovrapposizioni, ma è istruttivo seguire Orwell,
sempre così lucido e chiaro, mentre assiste, giudica, si corregge,
guarda avanti e indietro.
Diari di guerra è
un documento nella storia del socialismo, che si sente attaccato
dall'esterno (il nazifascismo) ma è nel contempo minacciato
dall'interno (lo stalinismo, che Orwell aveva visto in azione in
Spagna, restando per sempre vaccinato). Poco dopo l'attacco tedesco
alla Russia, Orwell annota: «Il miglior esempio della superficialità
morale ed emotiva del nostro tempo è che siamo ora tutti più o meno
pro-Stalin. Questo disgustoso assassino per il momento sta dalla
nostra parte e così abbiamo istantaneamente dimenticato le purghe e
tutto il resto. Così sarebbe per Franco, Mussolini ecc., se alla
fine dovessero decidere di schierarsi con noi». La polemica qui è
diretta contro il governo inglese, e ritorna a proposito delle
atrocità commesse dalle varie parti, che secondo Orwell sono evocate
o taciute a seconda dell'inclinazione e soprattutto dell'opportunità
politica.
Se oggi pensiamo a
un'Inghilterra eroicamente monolitica nella resistenza solitaria
all'attacco nazista, il Diario rivela una situazione assai più
sfumata. Orwell considera Churchill poco meno che un nemico
conservatore e opportunista, e nei primi mesi di guerra ne anticipa
la caduta e l'avvento di un governo socialista. Questa è una delle
costanti del suo pensiero. Per quanto non sia uomo di facili
entusiasmi e autoillusioni, è convinto che la guerra sia preludio a
una rivoluzione sociale inevitabile, giacché essa non può essere
vinta da una società antidemocratica retta da interessi contrastanti
contro un nemico totalitario che aggredisce senza essere ostacolato
da profitti particolari.
Di questo Orwell scrive
agli amici americani nelle prime lettere alla «Partisan Review»,
augurandosi addirittura che la vittoria inglese non sia troppo rapida
perché il processo di democratizzazione possa compiersi fino in
fondo. E di questo scrive in Il leone e l'unicorno, un
ritratto dell'Inghilterra in un momento di crisi che si chiude con
sei proposte concrete: «1. Nazionalizzazione della terra, miniere,
ferrovie, banche e industrie principali; 2. Limitazione dei
redditi... 3. Riforma democratica dell'educazione... 4. Concessione
immediata all'India dello statuto di 'Dominion', con potere di
secessione al termine della guerra. 5. Creazione di un Consiglio
Generale Imperiale, in cui siano rappresentati i popoli di colore. 6.
Dichiarazione di alleanza formale con Cina, Abissinia e tutte le
altre vittime del potere fascista»...
Orwell crede nell'ideale
di eguaglianza che giudica centrale nella forma mentis inglese
e americana se non altro come idea che ha la capacità di
realizzarsi. E contesta la posizione estremista secondo cui «non vi
sarebbe differenza» fra democrazia imperfetta e totalitarismo, così
anticipando la visione di 1984: «L'intera concezione di uno
stato militarizzato continentale, con la sua polizia segreta, la sua
letteratura censurata e il suo lavoro coatto, è assolutamente
diversa da quella di una vaga democrazia marittima, con i suoi
bassifondi e la sua disoccupazione, i suoi scioperi e partiti
politici... E dovendo scegliere tra l'una e l'altra non si sceglie
tanto sulla base di ciò che ora sono ma di ciò che sono capaci di
diventare...».
Questo è stato scritto
quando tutti i giochi erano da farsi, e Orwell vedeva che l'Europa e
il mondo avrebbero potuto compiere una svolta totalitaria, e metteva
le mani avanti proponendo riforme radicali ma confermando la sua
fedeltà al regime parlamentare in crisi. È affascinante vedere
Orwell davanti a questo bivio della storia, che allora era
completamente aperto.
Ma la sezione più
istruttiva di Il leone e l'unicorno è il viaggio nelle
contraddizioni pittoresche del suo paese che Orwell compie nella
prima parte, «L'Inghilterra, la vostra Inghilterra». Egli mette in
luce le caratteristiche nazionali, quali la privatezza, la non
religiosità, la «gentilezza» che si congiunge all'antimilitarismo
e alla barbarie della forca e della frusta, la fede nella legalità.
È vero, il sistema elettorale è fraudolento, tuttavia «persino
l'ipocrisia è una protezione potente. Il giudice che impicca, il
vecchio malvagio in toga scarlatta e parrucca di crine, cui solo la
dinamite potrebbe far capire in che secolo vive, ma che comunque
interpreta la legge secondo i codici e non si lascia corrompere, è
una delle figure simboliche dell'Inghilterra».
È notevole che una mente
propositiva come quella di Orwell, proiettata verso il futuro, colga
così bene questi aspetti tradizionali vedendo una forza nella loro
obsolescenza, e questo senza sentimentalismo. Critico di vaglia, egli
rileva la scarsa attitudine artistica degli inglesi, che non hanno
prodotto musica e pittura, solo letteratura e poesia, genere che poco
si esporta: «Tranne Shakespeare, i migliori poeti inglesi sono
scarsamente noti in Europa, persino di nome. I soli a essere molto
letti sono Byron, che è ammirato per le ragioni sbagliate, e Oscar
Wilde, compatito come vittima dell'ipocrisia inglese». A questo
tratto si unisce, dice, «la mancanza di capacità filosofica».
Sicché la seconda parte
del pamphlet allude nel titolo al giudizio sprezzante di
Napoleone: «Bottegai in guerra». Perché un'altra caratteristica
inglese sarebbe il senso di unità nazionale nel pericolo, che si
poté avvertire durante la lotta per la sopravvivenza del 1940-41.
L'Inghilterra, conclude citando Shakespeare, deve essere «fedele a
se stessa»: «Gli eredi di Nelson e Cromwell non sono nella Camera
dei Lord, bensì nei campi e nelle strade, nelle industrie e nelle
forze armate». Questa la vera nazione che Orwell si augura venga
alla luce in seguito al conflitto.
Le lettere alla «Partisan Review» chiudono opportunamente Diario di guerra in quanto Orwell riflette sui suoi errori di giudizio e sulla resistenza della Destra che è rimasta al potere, per perderlo democraticamente a vittoria ottenuta. Passa in rassegna retrospettivamente le posizioni più diffuse sulla guerra e conclude che «sbagliavamo tutti», anche se «avevo ragione a non essere disfattista» (come l'estrema sinistra), «e dopo tutto la guerra non l'abbiamo persa». Con tipica disponibilità conclude invitando i lettori americani di passaggio a Londra a farsi vivi: «Il mio numero di casa è CAN 3751».
Le lettere alla «Partisan Review» chiudono opportunamente Diario di guerra in quanto Orwell riflette sui suoi errori di giudizio e sulla resistenza della Destra che è rimasta al potere, per perderlo democraticamente a vittoria ottenuta. Passa in rassegna retrospettivamente le posizioni più diffuse sulla guerra e conclude che «sbagliavamo tutti», anche se «avevo ragione a non essere disfattista» (come l'estrema sinistra), «e dopo tutto la guerra non l'abbiamo persa». Con tipica disponibilità conclude invitando i lettori americani di passaggio a Londra a farsi vivi: «Il mio numero di casa è CAN 3751».
"alias - il mamifesto", ritaglio senza data, ma 2007
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