Fedele alla sua ritrosia,
lo scrittore americano ha ricevuto martedì a New York il premio
Grinzane-Masters e se n'è andato senza concedere interviste. Il
discorso preparato per l'occasione e le poche parole scambiate
dimostrano quanto il mondo della finzione gli sia più congeniale di
quello della realtà.
In una New York
piovigginosa e tagliata dal vento, la figura allampanata di Philip
Roth ha fatto una delle sue rare apparizioni alla Italian Academy
della Columbia University, dove aveva promesso di materializzarsi per
ricevere il Grinzane-Masters Award, che oltre ai suoi meriti
letterari lo ha premiato, martedì scorso, per avere contribuito a
diffondere le opere di Primo Levi in America.
Ed è al suo incontro con
lo scrittore torinese che ha dedicato le poche parole promesse,
raccogliendole da quel serbatoio di ricordi già fissati nella sua
introduzione all'intervista che gli fece nel settembre dell'86,
quando lo raggiunse in Italia dopo averlo conosciuto a Londra, la
primavera precedente.
Con Levi davanti
agli «spettri»
Guidandolo nella visita
alla fabbrica dove aveva a lungo lavorato, Levi commentava quella
«avventura» indicando a Roth le poche persone che ancora
riconosceva e sembravano tornare su dal tempo come «spettri».
Allora come oggi, lo scrittore americano veniva colpito dalla
capacità di ascoltare che Primo Levi evidentemente esibiva «con
tutto il volto»; e si compiaceva di avere percepito, in lui, quella
«animazione interiore che mi fece pensare a una sorta di brioso elfo
in vitale contatto con i più profondi segreti della foresta».
Il testo della sua
intervista sotto gli occhi, Philip Roth ha raccolto una a una le
parole che meglio gli restituivano l'immagine dello scrittore
scomparso vent'anni fa, e sembrava non avere in serbo nessuna
sorpresa; ma quel che la sua ritrosia aveva programmato non aveva
fatto i conti con le motivazioni che Soria ha elencato nel
consegnargli il premio. E al sentirsi descrivere i suoi romanzi come
meritevoli, tra l'altro, di avere trainato nelle loro pagine potenti
metafore del sesso, ha risposto: «Qualsiasi uomo che trasformi il
sesso in una metafora dovrebbe essere ucciso». Un boato di risate
liberatorie ha accolto la sua unica battuta.
La rivolta di
Zuckerman
Del resto, già quando
Philip Roth decise di confidarsi pubblicamente con se stesso, vale a
dire con il suo alter ego Nathan Zucherman, parlò di sé come di un
uomo schivo e tuttavia non del tutto alieno dalle pubbliche
apparizioni. «Diciamo che fra i due estremi compresi tra
l'aggressivo esibizionismo di Mailer e la maniacale ritrosia di
Salinger, io occupo una posizione mediana: cerco cioè di non
pavoneggiarmi nella pubblica arena e di rintuzzare la gratuita
curiosità della gente, senza però fare della riservatezza un
feticcio sacro e inviolabile». Era la primavera del 1987 e lo
scrittore americano usciva malamente da una operazione trascurabile,
la cui convalescenza si era protratta oltre ogni previsione,
riducendolo al fantasma depresso di se stesso: un uomo vulnerabile e
vagolante nel caos mentale che lo faceva oscillare tra attacchi di
panico e tentazioni suicide. Questo, almeno, è quanto scrive nei
Fatti, la sua pretesa autobiografia nata, appunto,
dall'esigenza di riprendere il controllo della sua vita, e il cui
manoscritto aveva immaginato di indirizzare a Zuckerman perché
vagliasse se gli conveniva pubblicarlo o no.
Si diceva, allora, «stufo
di maschere e travestimenti, contraffazioni e menzogne»: era venuto
il momento di offrirsi in tutta la trasparenza che il suo inconscio
gli consentiva. Ma il suo alter ego, sollecitato a essere franco, non
si faceva pregare, e dopo avergli somministrato una serie di
reprimende sui passaggi più disdicevoli dei suoi racconti di vita,
cercava di dissuaderlo dal pubblicare quella autobiografia, e gli
notificava che meglio avrebbe fatto a riprendere l'invenzione di
storie che avessero lui, Nathan, come protagonista: «scommetto che
hai scritto tante di quelle metamorfosi di te stesso da non sapere
più chi sei e chi sei stato. Ormai non sei altro che un testo
ambulante». Per confrontarti con te stesso, proseguiva, ti conviene
servirti ancora di me. Quell'anno dovette imporsi ai ricordi di
Philip Roth come un anno del tutto speciale, perché vi ambientò,
poi, uno dei suoi romanzi più vulcanici, facendolo precedere da una
avvertenza nella quale chiariva come si fosse trovato coinvolto, suo
malgrado, in una operazione di controspionaggio per il Mossad, il
servizio segreto israeliano. Introdotto da pagine che tornano a
ricapitolare il suo collasso emotivo - dove si descriveva come «un
che di forsennatamente maniacale, repellente, angosciato, odioso,
allucinante, la cui esistenza è un solo lungo tremito» - Operazione
Shylock era dedicato alla sua compagna di allora, Claire Bloom,
l'attrice che Chaplin rese celebre in Luci della ribalta e che
figura nel libro come la sua fedele consigliera, le cui
raccomandazioni vengono puntualmente disattese. Ciò che Philip Roth
non avrebbe dovuto fare è cedere alla curiosità, alla tentazione, e
in definitiva alle sue istanze paranoiche, per mettersi sulle tracce
di quello che aveva scoperto essere un suo sosia. Ma lui lo fece.
Il libro racconta,
appunto, il reciproco pedinamento dei due Philip Roth, entrambi
confluiti a Gerusalemme, dove l'impostore si serve della celebrità
acquisita dallo scrittore per diffondere la sua causa, ossia una
diaspora che da Israele riporti in Europa tutti gli ebrei
askhenaziti, che verrebbero così ricongiunti ai loro luoghi di
origine e salvati dal secondo Olocausto: inevitabile conseguenza - a
suo dire - del fallimento politico e ideologico del sionismo.
Al suo sosia Philip Roth
regala una coscienza politica, per quanto scellerata, la cui
latitanza evidentemente si rimprovera; e gli mette in bocca parole
che gli rinfacciano l'individualismo di ogni scrittore: «Philip,
nessuno potrebbe apprezzare i tuoi libri più di me. Ma siamo a un
punto della storia ebraica in cui forse c'è qualcosa di più dei
tuoi libri di cui dovremmo parlare». Tra quelle pagine, inoltre,
Roth aveva seminato una sintesi di tutto ciò che più gli piace
degli ebrei, che notoriamente gli piacciono poco. «Scetticismo verso
le cose terrene. Affascinante verbosità. Passione intellettuale.
L'odio. Le menzogne. La diffidenza. La mondanità. La sincerità.
L'intelligenza. La malizia. La comicità. La resistenza.
L'istrionismo. La ferita. La menomazione». Questi e altri attributi,
insieme a tutte le virtù che non ha coltivato, tutti i vizi che ha
nutrito, tutte le idiosincrasie nelle quali si è crogiolato, lo
scrittore americano li ha proiettati sui suoi personaggi, spesso
enfatizzandoli oltre ogni misura; così che, a volte, sembra
insidiato dalla minaccia che quegli stessi suoi alter-ego - tutti gli
Zuckerman, i Kepesh, i Tarnopol, i Portnoy - si sollevino dalla carta
dei libri, trasformino l'inchiostro in sangue, prendano corpo e
schizzino fuori dalle architetture dei suoi romanzi per vendicarsi di
tanto impertinenti fantasie. A proposito delle quali, Philip Roth è
davvero, superlativamente incontenibile.
Scherzi
dell'immaginazione
In un lungo racconto che
fin dal titolo lascia prevedere in quali eccessi vada comicamente a
parare, si esibisce nella sua personale variazione della metamorfosi
kafkiana e immagina di trasformarsi in una enorme, femminile
mammella. Tutto comincia con un innocuo formicolio all'inguine
dell'invidiato personaggio di nome David Kepesh, e finisce con la
dilatazione del suo metro e ottanta di statura in una ovoidale massa
di tessuto adiposo, sormontata da un roseo capezzolo. Nessuna
occasione è migliore per osservare come la parola si sia fatta
carne.
Dev'essere stato, questo
del racconto titolato Il seno, una sorta di vertice fantastico
in una parabola narrativa i cui deliri erotici non erano stati ancora
del tutto gratificati. Fin dagli esordi, infatti, Philip Roth aveva
legato la sua fama alle peripezie mentali di un ragazzo erotomane e
ipocondriaco, che nel Lamento di Portnoy sfoga - in un
incontenibile monologo indirizzato al suo analista - le frustrazioni
di una vita passata a inseguire, lui ebreo e vergognoso delle sue
origini, ragazze «gentili» sulle quali ha sistematicamente
riversato smodate esigenze sessuali. «Dottore, forse gli altri
pazienti sognano le cose... a me succedono. Ho una vita senza
contenuti latenti... Dottore: non riuscivo a farmelo rizzare nello
Stato di Israele! Che ne dice di questo simbolismo, bubi?»
Nemmeno l'ipocondria,
laddove esplode fino a rendersi protagonista della trama, come
avviene nella Lezione di anatomia, riesce a domare le bramosie
del prediletto Zuckerman. Estenuato da un dolore la cui origine
resterà un mistero, Nathan decide di diventare lui stesso medico,
non prima di essersi spacciato per l'editore di una rivista
pornografica, e avere adeguatamente scandalizzato i suoi
interlocutori occasionali, ai quali non manca di presentarsi con il
nome del critico letterario che ha stroncato il suo ultimo libro:
onde loro associno tutte le sconcezze che ha seminato nel suo eloquio
al nome di quell'odiato recensore. Non contento di avere rintronato
anche la sua povera autista, mentre quella tenta disperatamente di
concentrarsi sulla guida, lui esplode a sua maggior gloria nella
seguente dichiarazione: «Io sono stato crocifisso sulla croce del
sesso: sono un martire sulla croce del sesso».
Di tutt'altra estrazione
sociale, ma di non dissimili fantasie sarà dotato, oltre dieci anni
dopo, il protagonista del Teatro di Sabbath, un ex burattinaio
ebreo piccolo e tarchiato, che già da giovane aveva «qualcosa di
magicamente fuori dalla norma». Tra pagine in cui i personaggi vanno
e vengono dall'al di là, Mickey Sabbath invoca nel suo vernacolo
scatologico «che attinge direttamente dalla fogna» la memoria della
sua amante slava. E sdilinquendosi nelle fantasie di quei perduti
amplessi si allunga, corto com'è, sulla terra che copre la bara di
lei: «Oh Drenka, lurida e meravigliosa figa, sposami!»
Vuoi a causa di una
manifesta ipocondria, vuoi perché in preda alle smanie del
desiderio, vuoi perché dominati da tendenze paranoidi, i personaggi
di Philip Roth si spingono volentieri ai bordi della follia,
paventano la frammentazione del proprio Io, tentano di tenerlo a bada
e tutto sommato ci riescono. Le sue pagine migliori sono forse quelle
dove comanda il sarcasmo, dunque quelle dove tornano a ripresentarsi
le sue personali ossessioni - lo stereotipo dell'ebreo piccolo
borghese, la cupidigia sessuale, il terrore della malattia e della
morte; eppure, con Pastorale americana si inaugurava - ormai
dieci anni fa - una stagione narrativa tra le sue più felici, che
pur non chiudendo del tutto quelle vene vi attingeva con molta
maggiore parsimonia. A dimostrazione, laddove qualcuno ne avesse
dubitato, che il talento di Philip Roth non risalta solo in virtù
dei suoi eccessi.
Quello che molti
considerano il suo capolavoro, dunque, Pastorale americana è
affidato ancora una volta alla voce narrante di Nathan Zuckerman, che
ricostruisce la vita di un ex compagno di scuola a mala pena
avvicinato, a suo tempo, tanta era la soggezione provocata dalla
prepotenza delle sue qualità. Quando i due si rincontrano, Nathan è
tediato dalla sicurezza dell'altro che tutti chiamano lo Svedese,
immagina la sua famiglia felicemente qualunquista, osserva come
quell'uomo sembri non essere nemmeno «incrinato dal pensiero».
Niente di più sbagliato,
quello stesso uomo, in realtà, è tormentato dalla responsabilità
di una figlia che nel 1969, in piena guerra del Vietnam, ha
interpretato la sua protesta politica facendo scoppiare una bomba e
uccidendo, così, un passante. «La gente pensa che la storia abbia
il respiro lungo, ma la storia in realtà, ti si para davanti
all'improvviso», commenta Zuckerman.
La molla è nel
risentimento
Appena un anno dopo, un
altro romanzo magistrale, Ho sposato un comunista, descrive l'America
del maccartismo: il titolo del libro è ricalcato su quello che la
protagonista femminile, l'ex diva Eva Frame, ha dato alle sue memorie
del matrimonio con Ira Ringold, attore radiofonico di umili trascorsi
ma soprattutto simpatizzante comunista di cui, ancora una volta, è
Zuckerman a ritessere le vicende.
Con la chiusura della
trilogia, affidata al romanzo titolato La macchia umana, piombiamo
nel cuore del feuilleton che ha visto protagonisti Clinton e Monica
Lewinsky; ma non è che lo sfondo. La scena principale è occupata da
un ex docente universitario costretto a lasciare la sua cattedra in
ragione di una pretestuosa accusa di razzismo. Nel raccogliere la
rabbia di Coleman, nel ripercorrere la sua vita che è già di per sé
intricata quanto un romanzo, Nathan Zuckerman scopre che gli è
diventata «più cara della sua»: è la vita di un uomo che nasconde
antenati di colore ai quali deve una origine cui non si vuole
rassegnare: «Tu ragioni come un prigioniero», gli dice la madre,
«sei bianco come la neve e ragioni come uno schiavo». Sta nel
risentimento, infatti, la molla della sua esistenza.
L'epopea di uno
qualunque
Tutti gli ultimi romanzi
di Roth cominciano dalla fine, quando ormai i suoi protagonisti sono
morti, e ripercorrono a ritroso, sebbene la freccia del tempo conosca
numerose deviazioni, le vicende che costuiranno la trama; una trama
alla quale l'ultimo, Everyman, rinuncia, spogliandosi delle
digressioni, delle storie parallele, dell'inventiva stessa che ha
animato i suoi libri più noti. Solo l'ambientazione, ostinatamente
ancorata al New Jersey, rimane inalterata, per il resto tutto si
risolve in un lungo, ponderato avvicinamento alla vecchiaia e alle
sue malinconie, scandito dalla sequenza delle molte operazioni che
hanno aggredito il corpo di questo ex pubblicitario. Uno di noi, e
insieme l'eco di un personaggio letterario che certamente Roth
conservava nella sua memoria, visto che in Pastorale gli aveva
dedicato una dilazione, quasi rabbiosa: è l'Ivan Il'ic di Tolstoj,
«così sminuito dall'autore nel malevolo racconto in cui spiega
crudelmente, in termini clinici, cosa significa essere persone
qualunque.»
il manifesto 19 aprile
2007
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