4.11.16

1946. I successi e i limiti del Pci secondo Pietro Secchia (Mario Albertaro)

È uscita, due anni fa, una biografia di Pietro Secchia che ha come titolo Le rivoluzioni non cadono dal cielo e come sottotitolo Pietro Secchia, una vita di parte, scritta da Marco Albertaro, un ricercatore in forza all'Università di Torino che si occupa soprattutto della storia del Novecento ed ha al suo attivo ricerche sul movimento operaio, il Partito comunista e il giornalismo a Torino. Favorito da una documentazione in buona parte nuova reperita nell'archivio del dirigente comunista (essenziale un ampio appunto dal titolo Promemoria per una narrazione della mia attività), Albertaro costruisce un ritratto non privo di chiaroscuri, ma capace di far emergere il coraggio, il rigore e l'onestà intellettuale di Pietro Secchia; ed anche la sua intelligenza politica. Dal libro recupero un paio di pagine, relative al 1946, ai mesi che seguirono le elezioni per l'assemblea costituente. Quelle elezioni per molti comunisti rappresentarono una grande delusione: si aspettavano un premio elettorale più sostanzioso per il ruolo preminente giocato nella guerra di liberazione e si aspettavano di essere il partito più forte del movimento operaio. Così non fu: i socialisti, uniti nel PSIUP, conservarono, sia pure per poco, il loro primato e il Pci non raggiunse il 20% dei voti che i suoi dirigenti consideravano l'obiettivo minimo.

Un liberatore dopo la liberazione
Nel ripercorrere con la memoria le vicende delle elezioni per la Costituente Secchia scriverà: “I risultati [...] avrebbero potuto essere migliori se la campagna elettorale [...] non fosse stata contrassegnata da una serie di errori e di debolezze: I. Il partito aveva concentrato i suoi sforzi nella lotta per la repubblica, tralasciando di condurre una adeguata agitazione sul contenuto che volevamo dare alla repubblica. Finimmo così per non differenziarci dagli altri partiti repubblicani e in modo particolare dal Psi. II. Si condusse una campagna difensiva nei confronti dell'anticomunismo e degli attacchi all'Unione Sovietica”.
Ma le delusioni, per un dirigente come Secchia, vanno tenute per sé e all'esterno, ai militanti bisogna sempre mostrarsi vincitori. E così che in un discorso dell'11 giugno 1946 tenuto ai segretari delle sezioni novaresi Secchia afferma che il Pci ha vinto sia perché ha ottenuto la Repubblica, sia perché è riuscito a eleggere un numero di costituenti tale da affermarsi «tra i tre più grandi partiti».
Per Secchia c'è anche bisogno di traghettare i compagni dalla mentalità partigiana a quella che definisce «democratica», sia per il miglior funzionamento del partito che per dare all'esterno un'immagine nuova, che non si presti ad attacchi che già fioccano numerosi: “I sistemi partigiani, i metodi sbrigativi sono una necessità di guerra, ma non vanno bene in tempo di pace. È necessario non solo dire di lottare per la democrazia, ma essere veramente democratici. Il «mitra» è spesso sulla bocca di certi compagni ed è diventato una specie di toccasana, si dice: «Ah! Quei tempi in cui col mitra si risolveva tutto». Certi atteggiamenti di certi nostri compagni servono ad avallare le calunnie che vengono lanciate contro di noi, che noi non saremmo un partito democratico”.
In direzione Secchia parlerà dei risultati con più franchezza. Egli sostiene in quell'occasione che è stato sbagliato attribuire l'esito elettorale soltanto alla campagna elettorale. Non è un'accusa verso la linea politica che è ritenuta giusta, quanto piuttosto una costatazione del fatto che questa linea ancora non è stata assimilata «non solo dai compagni ma da larghi strati di lavoratori». E ciò poiché, continua Secchia, il partito si è illuso di godere di una maggiore influenza rispetto al Psi: «Con questo voglio dire che i fatti ci dimostrano come l'influenza tra le masse non la si conquista con un mese di campagna elettorale od anche coi ventuno mesi di lotta clandestina [...], ma l'influenza la si conquista nel corso di lunghi anni di lavoro». Molti operai, afferma poi Secchia, non avevano votato per il Pci perché dopo la Liberazione non avevano visto migliorare né le loro condizioni soggettive, né quelle del Paese. E la conclusione è realista: «Se noi non sappiamo fare meglio degli altri, se noi non sappiamo risolvere certe situazioni meglio di quanto non lo sappiano fare gli altri, gli elettori rimangono attaccati ai partiti tradizionali».

L'analisi che Secchia fa tiene assieme la complessità della situazione politica coi compiti che un partito comunista deve assumersi. Si tratta soprattutto di un richiamo alla funzione pedagogica che il partito deve avere. Bisogna educare i compagni alla democrazia, sradicare i danni che «vent'anni di educazione sbagliata» hanno fatto anche tra le file della classe operaia e bisogna lasciar perdere quegli atteggiamenti di verbosità estremistica che possono spaventare gli elettori. Contemporaneamente, afferma Secchia, bisogna radicarsi nei luoghi di lavoro con un'azione sindacale che effettivamente risponda ai bisogni degli operai, così come è necessario fare breccia nei ceti medi. In questo quadro si inserisce l'urgenza di formare nuovi quadri per consentire al Pci di assumere verso l'esterno una fisionomia chiara che si deve fondare sul perseguimento di una linea politica volta a «costruire in Italia una repubblica veramente democratica, [...] [a] dare al popolo italiano una Costituzione libera, democratica, che garantisca gli eguali diritti politici, economici e sociali a tutti gli italiani».

Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte, Laterza, 20014

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