È uscita, due anni fa,
una biografia di Pietro Secchia che ha come titolo Le rivoluzioni
non cadono dal cielo e come
sottotitolo Pietro Secchia, una vita di parte, scritta
da Marco Albertaro, un ricercatore in forza all'Università di Torino
che si occupa soprattutto della storia del Novecento ed ha al suo
attivo ricerche sul movimento operaio, il Partito comunista e il
giornalismo a Torino. Favorito da una documentazione in buona parte
nuova reperita nell'archivio del dirigente comunista (essenziale un
ampio appunto dal titolo Promemoria per una narrazione
della mia attività), Albertaro
costruisce un ritratto non privo di chiaroscuri, ma capace di far
emergere il coraggio, il rigore e l'onestà intellettuale di Pietro
Secchia; ed anche la sua intelligenza politica. Dal libro recupero un
paio di pagine, relative al 1946, ai mesi che seguirono le elezioni
per l'assemblea costituente. Quelle elezioni per molti comunisti
rappresentarono una grande delusione: si aspettavano un premio
elettorale più sostanzioso per il ruolo preminente giocato nella
guerra di liberazione e si aspettavano di essere il partito più
forte del movimento operaio. Così non fu: i socialisti, uniti nel
PSIUP, conservarono, sia pure per poco, il loro primato e il Pci non
raggiunse il 20% dei voti che i suoi dirigenti consideravano
l'obiettivo minimo.
Un liberatore dopo
la liberazione
Nel ripercorrere con la
memoria le vicende delle elezioni per la Costituente Secchia
scriverà: “I risultati [...] avrebbero potuto essere migliori se
la campagna elettorale [...] non fosse stata contrassegnata da una
serie di errori e di debolezze: I. Il partito aveva concentrato i
suoi sforzi nella lotta per la repubblica, tralasciando di condurre
una adeguata agitazione sul contenuto che volevamo dare alla
repubblica. Finimmo così per non differenziarci dagli altri partiti
repubblicani e in modo particolare dal Psi. II. Si condusse una
campagna difensiva nei confronti dell'anticomunismo e degli attacchi
all'Unione Sovietica”.
Ma le delusioni, per un
dirigente come Secchia, vanno tenute per sé e all'esterno, ai
militanti bisogna sempre mostrarsi vincitori. E così che in un
discorso dell'11 giugno 1946 tenuto ai segretari delle sezioni
novaresi Secchia afferma che il Pci ha vinto sia perché ha ottenuto
la Repubblica, sia perché è riuscito a eleggere un numero di
costituenti tale da affermarsi «tra i tre più grandi partiti».
Per Secchia c'è anche
bisogno di traghettare i compagni dalla mentalità partigiana a
quella che definisce «democratica», sia per il miglior
funzionamento del partito che per dare all'esterno un'immagine nuova,
che non si presti ad attacchi che già fioccano numerosi: “I
sistemi partigiani, i metodi sbrigativi sono una necessità di
guerra, ma non vanno bene in tempo di pace. È necessario non solo
dire di lottare per la democrazia, ma essere veramente democratici.
Il «mitra» è spesso sulla bocca di certi compagni ed è diventato
una specie di toccasana, si dice: «Ah! Quei tempi in cui col mitra
si risolveva tutto». Certi atteggiamenti di certi nostri compagni
servono ad avallare le calunnie che vengono lanciate contro di noi,
che noi non saremmo un partito democratico”.
In direzione Secchia
parlerà dei risultati con più franchezza. Egli sostiene in
quell'occasione che è stato sbagliato attribuire l'esito elettorale
soltanto alla campagna elettorale. Non è un'accusa verso la linea
politica che è ritenuta giusta, quanto piuttosto una costatazione
del fatto che questa linea ancora non è stata assimilata «non solo
dai compagni ma da larghi strati di lavoratori». E ciò poiché,
continua Secchia, il partito si è illuso di godere di una maggiore
influenza rispetto al Psi: «Con questo voglio dire che i fatti ci
dimostrano come l'influenza tra le masse non la si conquista con un
mese di campagna elettorale od anche coi ventuno mesi di lotta
clandestina [...], ma l'influenza la si conquista nel corso di lunghi
anni di lavoro». Molti operai, afferma poi Secchia, non avevano
votato per il Pci perché dopo la Liberazione non avevano visto
migliorare né le loro condizioni soggettive, né quelle del Paese. E
la conclusione è realista: «Se noi non sappiamo fare meglio degli
altri, se noi non sappiamo risolvere certe situazioni meglio di
quanto non lo sappiano fare gli altri, gli elettori rimangono
attaccati ai partiti tradizionali».
L'analisi che Secchia fa
tiene assieme la complessità della situazione politica coi compiti
che un partito comunista deve assumersi. Si tratta soprattutto di un
richiamo alla funzione pedagogica che il partito deve avere. Bisogna
educare i compagni alla democrazia, sradicare i danni che «vent'anni
di educazione sbagliata» hanno fatto anche tra le file della classe
operaia e bisogna lasciar perdere quegli atteggiamenti di verbosità
estremistica che possono spaventare gli elettori. Contemporaneamente,
afferma Secchia, bisogna radicarsi nei luoghi di lavoro con un'azione
sindacale che effettivamente risponda ai bisogni degli operai, così
come è necessario fare breccia nei ceti medi. In questo quadro si
inserisce l'urgenza di formare nuovi quadri per consentire al Pci di
assumere verso l'esterno una fisionomia chiara che si deve fondare
sul perseguimento di una linea politica volta a «costruire in Italia
una repubblica veramente democratica, [...] [a] dare al popolo
italiano una Costituzione libera, democratica, che garantisca gli
eguali diritti politici, economici e sociali a tutti gli italiani».
Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte, Laterza, 20014
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