6.11.16

3 gennaio 1925. Il giorno di Mussolini (Maurizio Zuccari)

“Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c'è mai stata altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai... Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito... L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa... Voi state certi che nelle quarantott'ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta la linea...». È il tre gennaio 1925. Le quattro del pomeriggio sono passate da una mezz'oretta quando l'onorevole Mussolini sferza con queste parole «chiarissime» i duecento deputati che ancora siedono a Montecitorio. Le cariatidi del liberismo inizio secolo: i Giolitti, i Salandra, gli Orlando, i Croce sono ammutoliti.

La rivendicazione
Tacciono anche i fiancheggiatori di ieri. Il loro silenzio fa da contraltare agli schiamazzi dei parlamentari in camicia nera che sull'onda dell'entusiasmo intonano «giovinezza», convinti che le parole del duce significhino l'abbandono della bombetta governativa per l'orbace della rivoluzione. Così non è, ma per le opposizioni, da mesi esuli sull'Aventino, il discorso del capo del governo suona comunque come una campana a morto.
Un'arringa gridata, a tratti feroce. Tutto rivendica Mussolini. Ogni violenza squadrista, ogni bastonata data, ogni goccia d'olio di ricino fatta ingoiare. Alle forze che, dopo averlo sostenuto al momento della presa del potere, nel '22, avevano cercato di scaricarlo nella seconda metà del '24, dopo l'omicidio di Matteotti, intima di farsi da parte, che il fascismo si regge ormai da solo.
Ai nemici giurati chiede di tradurlo di fronte all'Alta corte di giustizia, se ne sono capaci. A chi va predicando che al terrore fascista si può replicare solo con la violenza, ingiunge: «fuori il palo e fuori la corda!». Agli illusi di un possibile rientro dell'illegalismo fascista nella legalità monarchica e borghese Mussolini fa intendere chiaramente come l'ora non sia adatta a manovre di corridoio, ma a prove di forze decisive, con l'appoggio della corona e la benedizione della Santa sede.
La nascita dello stato totalitario è così un fatto compiuto. Per l'Italia, da due anni fascista ma non ancora fascistizzata, il discorso del duce preannuncia quella «normalizzazione» che in capo a pochi anni avrebbe trasformato la monarchia parlamentare dei Savoia in una dittatura a viso aperto, fino a farle assumere i connotati dello stato totalitario. Un totalitarismo incapace, al contrario del suo emulo teutonico, di annullare qualsiasi l'onte di potere esterna al regime fattosi stato. Ma pur sempre capace di durare vent'anni, trascinando il paese in quattro guerre consecutive, prima d'essere scalzato dall'ultima, fatale avventura militare.

Oppositori in riga
Un processo - quello della costruzione dello stato totalitario - che, avviatosi due anni prima con l'ascesa al potere dell'illegalismo fascista e con le elezioni-truffa che nel '24 l'avevano legittimata (quelle del «listone»), sarebbe proseguito nelle ore successive al discorso del duce con un'ondata di arresti, sequestri dei fogli antifascisti e scioglimento di circoli «sovversivi», per essere perfezionato negli anni a venire con le «leggi fascistissime».
Tribunale speciale, corporativismo, concordato e legislazione razziale avrebbero affossato definitivamente lo stato post-risorgimentale, senza intaccare formalmente lo Statuto.
Pochi, fra quanti tengono a balia la creatura che viene a nascere, in quel gennaio di settant'anni fa, ne comprendono l'intima essenza. E nessuno, Mussolini incluso, sa, al di là delle assicurazioni sulle «quarantott'ore», dove sarebbe andato a parare, col suo discorso. Di fatto, quel suo colpo di forza mette non solo in mora le opposizioni aventiniane, impotenti a rovesciare il fascismo sul piano parlamentare e incapaci di soluzioni extralegali, ma tiene in riga gli oppositori interni.
Da Roberto Farinacci - che sul suo foglio Cremona nuova tuona un giorno sì e l'altro pure contro il duce imborghesito e i tiepidi della mistica fascista, trascinandosi dietro i «ras» della provincia - a Curzio Suckert, al secolo Malaparte, che gli fa eco dalle colonne della Conquista dello stato (già il titolo è tutto un programma) reclamando un ritorno al «fascismo integrale» dopo due anni di mollezze fra i palazzi romani della politica. E le schiere dei fedeli si ricompattano, al piffero del “Popolo d'Italia” fondato dall'ex socialista Mussolini.
Il suo, però, sarebbe rimasto un mezzo colpo di stato. Le forze che avevano dato la stura al fascismo pur non condividendone i metodi e gli ideali, cioè gli elementi costituitivi del vecchio stato post-risorgimentale, avrebbero accettato, sì, di rivestire l'orbace di cui s'era infatuata la piccola e media borghesia per evitare «salti nel bujo» e maree bolscevizzanti, ma senza lasciarsi fascistizzare. Il totalitarismo di marca mussoliniana, infatti, passata l'epoca del consenso oceanico, sarebbe crollato come un castello di carte con la congiura di palazzo del luglio '43, dopo la gragnola di bombe su San Lorenzo, a Roma.

Il trionfo del nocchiere
Col tre gennaio, dunque, non è il fascismo che trionfa, al di là della retorica, quanto Mussolini, e non come duce del partito, ma capo del governo, sorretto dalle vecchie forze dello stato liberale che si vestono di nero per paura di dover vestire di rosso, se l'ex maestro di Predappio venisse scaricato. E Mussolini, che fino a allora sermonizza «non disturbate il nocchiere» (lasciateci lavorare) afferma che «il popolo italiano è pacificamente intento al suo lavoro. Nella sua grande maggioranza non si preoccupa di questioni politiche».
Non è ancora la favola del milione di posti di lavoro, ma sarebbe stata presto l'epica del milione di baionette, e della costruzione dell'impero.



“il manifesto”, ritaglio senza data, probabilmente 2008

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