“Quando due elementi
sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c'è
mai stata altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai... Vi
siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse
finito... L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità,
vuole la calma laboriosa... Voi state certi che nelle quarantott'ore
successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su
tutta la linea...». È il tre gennaio 1925. Le quattro del
pomeriggio sono passate da una mezz'oretta quando l'onorevole
Mussolini sferza con queste parole «chiarissime» i duecento
deputati che ancora siedono a Montecitorio. Le cariatidi del
liberismo inizio secolo: i Giolitti, i Salandra, gli Orlando, i Croce
sono ammutoliti.
La rivendicazione
Tacciono anche i
fiancheggiatori di ieri. Il loro silenzio fa da contraltare agli
schiamazzi dei parlamentari in camicia nera che sull'onda
dell'entusiasmo intonano «giovinezza», convinti che le parole del
duce significhino l'abbandono della bombetta governativa per l'orbace
della rivoluzione. Così non è, ma per le opposizioni, da mesi esuli
sull'Aventino, il discorso del capo del governo suona comunque come
una campana a morto.
Un'arringa gridata, a
tratti feroce. Tutto rivendica Mussolini. Ogni violenza squadrista,
ogni bastonata data, ogni goccia d'olio di ricino fatta ingoiare.
Alle forze che, dopo averlo sostenuto al momento della presa del
potere, nel '22, avevano cercato di scaricarlo nella seconda metà
del '24, dopo l'omicidio di Matteotti, intima di farsi da parte, che
il fascismo si regge ormai da solo.
Ai nemici giurati chiede
di tradurlo di fronte all'Alta corte di giustizia, se ne sono capaci.
A chi va predicando che al terrore fascista si può replicare solo
con la violenza, ingiunge: «fuori il palo e fuori la corda!». Agli
illusi di un possibile rientro dell'illegalismo fascista nella
legalità monarchica e borghese Mussolini fa intendere chiaramente
come l'ora non sia adatta a manovre di corridoio, ma a prove di forze
decisive, con l'appoggio della corona e la benedizione della Santa
sede.
La nascita dello stato
totalitario è così un fatto compiuto. Per l'Italia, da due anni
fascista ma non ancora fascistizzata, il discorso del duce
preannuncia quella «normalizzazione» che in capo a pochi anni
avrebbe trasformato la monarchia parlamentare dei Savoia in una
dittatura a viso aperto, fino a farle assumere i connotati dello
stato totalitario. Un totalitarismo incapace, al contrario del suo
emulo teutonico, di annullare qualsiasi l'onte di potere esterna al
regime fattosi stato. Ma pur sempre capace di durare vent'anni,
trascinando il paese in quattro guerre consecutive, prima d'essere
scalzato dall'ultima, fatale avventura militare.
Oppositori in riga
Un processo - quello
della costruzione dello stato totalitario - che, avviatosi due anni
prima con l'ascesa al potere dell'illegalismo fascista e con le
elezioni-truffa che nel '24 l'avevano legittimata (quelle del
«listone»), sarebbe proseguito nelle ore successive al discorso del
duce con un'ondata di arresti, sequestri dei fogli antifascisti e
scioglimento di circoli «sovversivi», per essere perfezionato negli
anni a venire con le «leggi fascistissime».
Tribunale speciale,
corporativismo, concordato e legislazione razziale avrebbero
affossato definitivamente lo stato post-risorgimentale, senza
intaccare formalmente lo Statuto.
Pochi, fra quanti tengono
a balia la creatura che viene a nascere, in quel gennaio di
settant'anni fa, ne comprendono l'intima essenza. E nessuno,
Mussolini incluso, sa, al di là delle assicurazioni sulle
«quarantott'ore», dove sarebbe andato a parare, col suo discorso.
Di fatto, quel suo colpo di forza mette non solo in mora le
opposizioni aventiniane, impotenti a rovesciare il fascismo sul piano
parlamentare e incapaci di soluzioni extralegali, ma tiene in riga
gli oppositori interni.
Da Roberto Farinacci -
che sul suo foglio Cremona nuova tuona un giorno sì e l'altro pure
contro il duce imborghesito e i tiepidi della mistica fascista,
trascinandosi dietro i «ras» della provincia - a Curzio Suckert, al
secolo Malaparte, che gli fa eco dalle colonne della Conquista
dello stato (già il titolo è tutto un programma) reclamando un
ritorno al «fascismo integrale» dopo due anni di mollezze fra i
palazzi romani della politica. E le schiere dei fedeli si
ricompattano, al piffero del “Popolo d'Italia” fondato dall'ex
socialista Mussolini.
Il suo, però, sarebbe
rimasto un mezzo colpo di stato. Le forze che avevano dato la stura
al fascismo pur non condividendone i metodi e gli ideali, cioè gli
elementi costituitivi del vecchio stato post-risorgimentale,
avrebbero accettato, sì, di rivestire l'orbace di cui s'era
infatuata la piccola e media borghesia per evitare «salti nel bujo»
e maree bolscevizzanti, ma senza lasciarsi fascistizzare. Il
totalitarismo di marca mussoliniana, infatti, passata l'epoca del
consenso oceanico, sarebbe crollato come un castello di carte con la
congiura di palazzo del luglio '43, dopo la gragnola di bombe su San
Lorenzo, a Roma.
Il trionfo del
nocchiere
Col tre gennaio, dunque,
non è il fascismo che trionfa, al di là della retorica, quanto
Mussolini, e non come duce del partito, ma capo del governo, sorretto
dalle vecchie forze dello stato liberale che si vestono di nero per
paura di dover vestire di rosso, se l'ex maestro di Predappio venisse
scaricato. E Mussolini, che fino a allora sermonizza «non disturbate
il nocchiere» (lasciateci lavorare) afferma che «il popolo italiano
è pacificamente intento al suo lavoro. Nella sua grande maggioranza
non si preoccupa di questioni politiche».
Non è ancora la favola
del milione di posti di lavoro, ma sarebbe stata presto l'epica del
milione di baionette, e della costruzione dell'impero.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, probabilmente 2008
Nessun commento:
Posta un commento