3.12.16

Gli abiti che faceva il monaco Giovanni (Giorgio Boatti)

Subiaco
In una delle mie tappe per monasteri, ormai diversi anni fa, ho incontrato padre Giovanni Sanna, benedettino approdato al monastero all’età in cui i nostri connazionali, raggiunta la pensione, sono incerti se andare a occupare la panchina ai giardinetti o farsi l’ultimo giovanilistico tour di assaggio del mondo in qualche spiaggia cubana.
Apparentemente la sua decisione di farsi monaco, a 70 anni, si infila come un imprevisto tornante in una vita andata in tutt’altra direzione: «Ero tornato in Sardegna, la mia isola, dopo una vita che in mezzo secolo mi aveva fatto conoscere qualche spicchio di mondo: dalla Roma degli anni Cinquanta, quella della Dolce vita e delle Olimpiadi, alla Parigi di Pierre Cardin con cui ho lavorato, prima nel suo atelier e poi occupandomi delle boutiques della sua maison a Hong Kong, a Tokio e a Manila dove, per un certo periodo, sono stato il sarto di fiducia di Imelda Marcos che, nota per collezionare scarpe a gogò, non era meno esigente quanto ad abiti...».

Dal gregge a bottega
Se si insiste, e le incombenze che lo impegnano al Sacro Speco di Subiaco gli consentono una pausa, srotola un po’ di scene del film che sembra riassumere un’intera vita: è ultimo di otto figli di un pastore che, proprio nell’anno in cui lui viene al mondo, il 1933, perde per un’epidemia l’intero gregge. Dunque povertà severa come regna allora nei piccoli paesi dell’Oristanese ma, in famiglia, la serenità dei giusti e il lavoro come salvezza. Giovanni Scanu, il sarto di Narbolia, il minuscolo paese natale, è il suo primo maestro. Trova che il piccolo Giovanni Sanna con ago e filo ci sa fare e convince la famiglia a mandarlo a bottega ad Oristano, da Giuseppe Cuveddu, che a Torino, decenni prima, è stato un eccellente maestro di taglio. Altra conferma del suo talento: «Tu devi saltare il mare - gli intima il professore di taglio - qui saresti sprecato».
Al ragazzo il coraggio non manca e così arriva a Roma, stretto in un cappottino che la pioggia autunnale ha ristretto un po’ troppo: «Non ti presenti bene, ragazzo...», gli dicono in una sartoria dei Parioli dove ha bussato cercando lavoro. «L’abito non fa il monaco», replica pronto Giovanni che già allora non si lascia intimidire.
Per farla breve: di sartoria in sartoria finisce col lavorare al top degli atelier romani, quello delle sorelle Fontana. Dalle sue mani escono gli abiti di tante celebrità e i costumi di scena, ad esempio, di Ava Gardner, impegnata oltre che a girare la Bibbia, a smarcarsi da Frank Sinatra ingaggiando una rovente love story con Walter Chiari.
A Irene Brin, la celebre giornalista che raccontava in modo insuperabile la mondanità di quegli anni, Giovanni confeziona una magnifica redingote: «Lei, felicissima, mi supporta con calore. Mi consiglia libri da leggere e mostre da vedere. Insiste perché io faccia un salto ulteriore: a New York, a Parigi...». Giovanni però a Roma si trova bene. Non si perde un’opera lirica anche se la sua passione è il cinema tanto che si candida a Lascia o Raddoppia?, esperto di film italiani anni Trenta e Quaranta.
Invece del telequiz con Mike Bongiorno arriva la prova più difficile: a Parigi, nell’atelier di Pierre Cardin. Due palazzine in Rue de Faubourg Saint-Honoré dove sono all’opera cinquecento lavoranti, il meglio della haute couture di Francia. Al piccolo sardo appena giunto da Roma affidano un modello di lino riuscito male: «Era un lavoro maledettamente complicato, tutto giocato di sbieco e da rimodellare completamente nella notte». All’indomani, infatti, la collezione è da presentare a dei compratori americani.

C’est pas mal
Mademoiselle Danielle che regna sui reparti della sartoria alle prime ore dell’alba scruta il lavoro appena finito: «C’est pas mal, le petit italien», sentenzia, prima di affidare l’abito alle indossatrici. Alla sfilata gli americani applaudono: il modello piace e ne prenotano 250 capi. Pierre Cardin, attento a tutto, vuole sapere chi è l’artefice dell’insperato miracolo: così conosce Giovanni, il nuovo venuto. Lo soppesa e gli dice: «Tu da qui non te ne andrai mai...». In realtà poi, quando è arrivato il momento, gli lascia prendere il largo con le boutiques della maison in Asia. Dunque Tokio e Hong Kong. E la Manila della signora Marcos.
Passano gli anni. Il film di una vita sembra essersi srotolato tutto, mentre, tornato da Tokio, Giovanni si gode la bella casa col mare di Sardegna davanti che lo aspettava da tempo. Manca ancora il finale. Tra i ricordi degli anni romani c’è una veloce puntata a Subiaco, al monastero di Santa Scolastica. Racconta padre Giovanni: «Avevo parlato per pochi minuti con un monaco, si chiamava padre Joseph. Gli chiesi da quanto tempo era lì.
- 48 anni.., mi rispose.
- Che bello! fu la mia replica, piuttosto banale.
- Bello? E allora perché non viene e prova?
- Lo farò. Mi dia tempo e vedrà che lo farò.

Senza fretta
Nelle vite felici gli appuntamenti imperdibili non hanno fretta. Si prendono tutto il tempo necessario per andare a compimento. Ad esempio “Paddy” Leigh Fermor, tra il viaggio a piedi lungo l’Europa negli anni Trenta e il primo resoconto che ne fa nel radioso Tempo di regali, frappone una trentina di anni. E una ventina di anni dividono il “continua” sull’ultima pagina di Tempo di regali dalla ripresa, in Fra i boschi e l’acqua, del racconto di quel cammino, dal quale forse Fermor non si è mai davvero staccato. Qualcosa di simile deve essere accaduto anche a Giovanni che, mezzo secolo dopo, ritorna a Subiaco e chiede di diventarvi monaco. Lo è dopo tre anni di noviziato. Ora indossa la tonaca benedettina per sempre. Quell’abito cambia qualcosa?
«È come vivere dentro una luce diversa», risponde tranquillo con un sorriso.
Verrebbe voglia di credergli. E, prima o poi, provare.


Pagina 99, 12 agosto 2016

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