20.12.16

Grande Guerra. Luigi Cadorna, il Generalissimo (Lucio Villari)

La guerra, che la maggioranza del popolo italiano aveva per dieci lunghi mesi temuto potesse coinvolgere il nostro paese, lo coinvolse davvero, come è noto, nello spazio di appena dieci convulse giornate. Furono le "radiose giornate di maggio" del 1914 che culminarono, il 23, nella dichiarazione di guerra all'Austria-Ungheria. Anche oggi pochi ricordano che la guerra fu decisa dal re e dal governo liberal-conservatore di Salandra non solo contro la volontà degli italiani, ma contro il Parlamento, che nella maggioranza era per la neutralità, e accogliendo le pressioni di alcune violente manifestazioni di interventisti avvenute a Roma e a Milano, di gruppi occulti operanti nelle alte sfere dell'esercito e di alcuni intellettuali, oscillanti indifferentemente tra la destra nazionalista e la sinistra democratica (tra D'Annunzio e Salvemini, per intenderci). La nostra "quarta guerra di indipendenza", o "ultima guerra del Risorgimento", come fino a non molto tempo fa qualche storico amava ancora definirla, scaturì, in realtà, da "un piccolo golpe extra-parlamentare".
Per tre anni e cinque mesi circa tre milioni di soldati, per la maggior parte contadini, furono impiegati in logoranti battaglie su una linea di fronte molto limitata che comprendeva solo l'area nord-orientale della penisola. Poiché fu questa la prima guerra industriale della storia moderna, essa non ha alcun termine di confronto con le guerre precedenti e, vista su tutto lo scenario del conflitto, si tradusse in una sorta di suicidio collettivo dei popoli europei che ancora oggi lascia interdetti e sgomenti. Su 68 milioni di mobilitati in tutto il continente vi furono oltre 10 milioni di morti, 18 milioni di feriti e un numero imprecisato di perdite tra le popolazioni civili, dovute a carestie, epidemie, privazioni di ogni genere. L'esercito italiano, che nelle guerre del Risorgimento e in quelle coloniali aveva perduto solo alcune decine di migliaia di uomini (le guerre di indipendenza, ad esempio, costarono poche vite umane), lasciò sul terreno, tra il 1915 e il 1918, 680 mila morti e un milione e centomila feriti.
Fu anche per noi una "inutile strage", come con efficacia la definì il papa Benedetto XV; e di essa fu in parte responsabile l'allora "duce supremo" dell'esercito, il generale Luigi Cadorna, capo di stato maggiore dal luglio 1914 al novembre 1917. La responsabilità di Cadorna per i tanti inutili massacri, non è comunque superiore a quella dei capi militari degli altri paesi belligeranti. Anzi, le perdite umane dei francesi, degli inglesi e dei russi nostri alleati (per non parlare dei tedeschi e degli austriaci) furono di gran lunga più gravi delle nostre. Tuttavia, alla concezione che Cadorna ebbe della guerra, al disprezzo suo e dei suoi collaboratori del Comando Supremo per la vita e la morte dei soldati, agli errori dei suoi programmi strategici, si è soliti attribuire un significato simbolico. In negativo, naturalmente; poiché tanta cecità morale e, per così dire, culturale, provocò, tra l'altro, nell'ottobre 1917, la rotta di Caporetto: una enorme falla delle linee italiane attraverso la quale le truppe austriache dilagarono. Ma la personalità di Cadorna, la sua ideologia autoritaria e a tratti reazionaria furono, per alcuni, un simbolo opposto. In positivo, cioè. Il simbolo del capo, del duce, dell'uomo forte capace di fronteggiare il potere politico, di giudicare imbelli ministri e uomini politici, del possibile "salvatore" dell'Italia da una temuta avanzata dei socialisti. Questa immagine, abbastanza diffusa, di Cadorna fa intravedere il potenziale fascismo ante litteram dell'Italia di quegli anni, che la guerra, con la sua brutalità e violenza, contribuiva ad alimentare in certi settori della società.
Ebbene, a quest'uomo-chiave di un momento importante della nostra storia contemporanea, a questa figura amata e detestata, gli storici non hanno prestato grande attenzione. La lacuna è ora colmata da Gianni Rocca, che con la monografia dedicata al "generalissimo" (come nel 1915 lo salutò, con un'ode, Gabriele D' Annunzio), ha compiuto un importante lavoro di ricerca e di interpretazione non solo della figura di Cadorna, ma anche dei problemi del suo tempo (Cadorna, Mondadori, pagg. 341, lire 22.500). Rocca ha avuto la possibilità di consultare carte e documenti inediti del generale appartenenti alla famiglia. Lettere, pagine di diario, riflessioni e giudizi sull'andamento della guerra, sui comandanti di armata e di divisione, sui suoi più stretti collaboratori al Comando Supremo, sul governo, sul Parlamento; fonti preziose per studiare, da un osservatorio privilegiato, il groviglio politico-militare e sociale della Grande Guerra.
Anche da questa documentazione vengono alla luce un ritratto complesso e drammatico dell'Italia, in guerra e in pace, nonché la sconcertante, semplificata coerenza intellettuale di personaggi che avevano in mano le sorti del paese. La coerenza di chi crede ciecamente nelle proprie idee, anche quando esse si rivelino mediocri e inadatte alle circostanze. E proprio il comportamento di Cadorna è la spia di quel pericoloso scollamento tra la direzione politica e militare e la realtà del paese, che è parso sempre, specie durante le guerre, una ineliminabile connotazione della storia d' Italia. Il volume di Rocca non ha dunque l'andamento di una pura e semplice biografia. Di questo genere letterario l'autore ha seguito la struttura narrativa, non certo quella particolare inclinazione a "comprendere" e giustificare che c'è spesso in ogni biografia. Il giudizio di Rocca è anzi severo su Cadorna, ma sempre ricavato da una analisi equilibrata di tutti gli elementi in gioco. E, storicamente, il punto di partenza anche degli errori di Cadorna è, nella ricostruzione di Rocca, il modo come l'Italia è entrata in guerra; in seguito cioè al "piccolo golpe extra-parlamentare" cui si accennava all'inizio.
Dal sovvertimento di alcuni valori del sistema liberal-parlamentare scaturirono infatti anche gli aspetti devianti della conduzione della guerra: l'utilizzazione del popolo in divisa come carne da cannone, le spietate decimazioni di soldati innocenti (con le quali Cadorna intendeva far brillare l'ordine e la disciplina), l'ottusa e pervicace convinzione di essere nel giusto e di dover rappresentare, come in controluce, nell'esercito ferreamente disciplinato, un'Italia gerarchicamente inquadrata e socialmente ordinata. Sul piano strettamente tecnico le cose non potevano, di conseguenza, andare in modo diverso. Nel 1915 Cadorna fece distribuire un opuscolo nel quale era spiegata la sua strategia: l'attacco frontale. Niente manovre, tattiche, aggiramenti e opportunità dettate dalle circostanze; solo attacco frontale al nemico. Dopo Caporetto i sostenitori di Cadorna dissero che quella strategia era stata pensata non per tutto l'esercito in armi, ma per i singoli reparti, e che spettava ai relativi comandi la decisione o meno di applicarla. In verità, fino al 1917 quei pochi comandanti che cercarono di rendere più duttile la direzione strategica della guerra (tra questi, ad esempio, il generale d'armata Luigi Capello) trovarono in Cadorna un ostacolo insormontabile. È stata anche questa, d'altronde, l'ideologia di quella guerra; e non solo in Italia. "La guerra d'usura", scrive infatti Rocca, "non era, del resto, prerogativa del solo fronte italiano. Anche negli altri campi di battaglia si susseguivano terrificanti scontri con un altissimo tributo di vittime. Il prestigio dei comandanti finiva inesorabilmente per appannarsi e ai politici spettava il compito, spesso ingrato, di sacrificarli per gettare in pasto all'opinione pubblica qualche capro espiatorio. Alla fine del 1916 Cadorna sarebbe stato uno dei pochi sopravvissuti fra i 'generalissimi'". Ma con i "politici" - che pure lo sostennero fino al fatale ottobre '17 - Cadorna non legò mai. Come dimostra molto bene Rocca, tante vicende della guerra sono incomprensibili senza un approfondimento dei rapporti, spesso obliqui e misteriosi, che intercorsero tra Roma e Udine, tra il Comando Supremo, il governo, i servizi segreti, strani Comitati patriottici e gli ottanta deputati interventisti che nel marzo 1917 si riunirono in un Fascio parlamentare contro le "insidie" socialiste e contro il "disfattismo". Si temette, soprattutto nel '17, un colpo di Stato. "A Roma", scrive Rocca, "correvano difatti le voci più strane. L'attivismo di Cadorna allarmava il mondo politico, timoroso di mene bonapartiste. L'esistenza nella capitale di una centrale di polizia del Comando Supremo era ormai di dominio pubblico. E tutti immaginavano che in quei misteriosi uffici si ordissero complotti, si procedesse a schedature".
Più questi timori si infittivano a Roma e più al fronte Cadorna seguiva implacabilmente la sua strada: logoramento delle truppe, decimazioni, siluramenti e cambiamenti spesso immotivati di ufficiali a tutti i livelli di comando. Alla Camera e nel paese l'opposizione socialista e alcuni gruppi di cattolici tentavano di svegliare la coscienza dei responsabili politici e militari; furono accusati di viltà e di pacifismo disfattista. Tra i soldati, intanto, serpeggiavano sgomento e ammutinamento. Il crollo del fronte a Caporetto negli ultimi giorni di ottobre fu la conseguenza logica di tutto ciò. Eppure Cadorna ebbe il coraggio di attribuire alla viltà dei soldati quel che era accaduto. Caporetto fu un disastro militare senza precedenti: il nostro esercito parve dissolversi. Costretto a lasciare il comando, Cadorna non si assunse però mai, fino alla morte avvenuta nel 1928, la responsabilità di quell'evento.


“la Repubblica”, 11 aprile 1985

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