La
guerra, che la maggioranza del popolo italiano aveva per dieci lunghi
mesi temuto potesse coinvolgere il nostro paese, lo coinvolse
davvero, come è noto, nello spazio di appena dieci convulse
giornate. Furono le "radiose giornate di maggio" del 1914
che culminarono, il 23, nella dichiarazione di guerra
all'Austria-Ungheria. Anche oggi pochi ricordano che la guerra fu
decisa dal re e dal governo liberal-conservatore di Salandra non solo
contro la volontà degli italiani, ma contro il Parlamento, che nella
maggioranza era per la neutralità, e accogliendo le pressioni di
alcune violente manifestazioni di interventisti avvenute a Roma e a
Milano, di gruppi occulti operanti nelle alte sfere dell'esercito e
di alcuni intellettuali, oscillanti indifferentemente tra la destra
nazionalista e la sinistra democratica (tra D'Annunzio e Salvemini,
per intenderci). La nostra "quarta guerra di indipendenza",
o "ultima guerra del Risorgimento", come fino a non molto
tempo fa qualche storico amava ancora definirla, scaturì, in realtà,
da "un piccolo golpe extra-parlamentare".
Per
tre anni e cinque mesi circa tre milioni di soldati, per la maggior
parte contadini, furono impiegati in logoranti battaglie su una linea
di fronte molto limitata che comprendeva solo l'area nord-orientale
della penisola. Poiché fu questa la prima guerra industriale della
storia moderna, essa non ha alcun termine di confronto con le guerre
precedenti e, vista su tutto lo scenario del conflitto, si tradusse
in una sorta di suicidio collettivo dei popoli europei che ancora
oggi lascia interdetti e sgomenti. Su 68 milioni di mobilitati in
tutto il continente vi furono oltre 10 milioni di morti, 18 milioni
di feriti e un numero imprecisato di perdite tra le popolazioni
civili, dovute a carestie, epidemie, privazioni di ogni genere.
L'esercito italiano, che nelle guerre del Risorgimento e in quelle
coloniali aveva perduto solo alcune decine di migliaia di uomini (le
guerre di indipendenza, ad esempio, costarono poche vite umane),
lasciò sul terreno, tra il 1915 e il 1918, 680 mila morti e un
milione e centomila feriti.
Fu
anche per noi una "inutile strage", come con efficacia la
definì il papa Benedetto XV; e di essa fu in parte responsabile
l'allora "duce supremo" dell'esercito, il generale Luigi
Cadorna, capo di stato maggiore dal luglio 1914 al novembre 1917. La
responsabilità di Cadorna per i tanti inutili massacri, non è
comunque superiore a quella dei capi militari degli altri paesi
belligeranti. Anzi, le perdite umane dei francesi, degli inglesi e
dei russi nostri alleati (per non parlare dei tedeschi e degli
austriaci) furono di gran lunga più gravi delle nostre. Tuttavia,
alla concezione che Cadorna ebbe della guerra, al disprezzo suo e dei
suoi collaboratori del Comando Supremo per la vita e la morte dei
soldati, agli errori dei suoi programmi strategici, si è soliti
attribuire un significato simbolico. In negativo, naturalmente;
poiché tanta cecità morale e, per così dire, culturale, provocò,
tra l'altro, nell'ottobre 1917, la rotta di Caporetto: una enorme
falla delle linee italiane attraverso la quale le truppe austriache
dilagarono. Ma la personalità di Cadorna, la sua ideologia
autoritaria e a tratti reazionaria furono, per alcuni, un simbolo
opposto. In positivo, cioè. Il simbolo del capo, del duce, dell'uomo
forte capace di fronteggiare il potere politico, di giudicare imbelli
ministri e uomini politici, del possibile "salvatore"
dell'Italia da una temuta avanzata dei socialisti. Questa immagine,
abbastanza diffusa, di Cadorna fa intravedere il potenziale fascismo
ante litteram
dell'Italia di quegli anni, che la guerra, con la sua brutalità e
violenza, contribuiva ad alimentare in certi settori della società.
Ebbene,
a quest'uomo-chiave di un momento importante della nostra storia
contemporanea, a questa figura amata e detestata, gli storici non
hanno prestato grande attenzione. La lacuna è ora colmata da Gianni
Rocca, che con la monografia dedicata al "generalissimo"
(come nel 1915 lo salutò, con un'ode, Gabriele D' Annunzio), ha
compiuto un importante lavoro di ricerca e di interpretazione non
solo della figura di Cadorna, ma anche dei problemi del suo tempo
(Cadorna, Mondadori,
pagg. 341, lire 22.500). Rocca ha avuto la possibilità di consultare
carte e documenti inediti del generale appartenenti alla famiglia.
Lettere, pagine di diario, riflessioni e giudizi sull'andamento della
guerra, sui comandanti di armata e di divisione, sui suoi più
stretti collaboratori al Comando Supremo, sul governo, sul
Parlamento; fonti preziose per studiare, da un osservatorio
privilegiato, il groviglio politico-militare e sociale della Grande
Guerra.
Anche
da questa documentazione vengono alla luce un ritratto complesso e
drammatico dell'Italia, in guerra e in pace, nonché la sconcertante,
semplificata coerenza intellettuale di personaggi che avevano in mano
le sorti del paese. La coerenza di chi crede ciecamente nelle proprie
idee, anche quando esse si rivelino mediocri e inadatte alle
circostanze. E proprio il comportamento di Cadorna è la spia di quel
pericoloso scollamento tra la direzione politica e militare e la
realtà del paese, che è parso sempre, specie durante le guerre, una
ineliminabile connotazione della storia d' Italia. Il volume di Rocca
non ha dunque l'andamento di una pura e semplice biografia. Di questo
genere letterario l'autore ha seguito la struttura narrativa, non
certo quella particolare inclinazione a "comprendere" e
giustificare che c'è spesso in ogni biografia. Il giudizio di Rocca
è anzi severo su Cadorna, ma sempre ricavato da una analisi
equilibrata di tutti gli elementi in gioco. E, storicamente, il punto
di partenza anche degli errori di Cadorna è, nella ricostruzione di
Rocca, il modo come l'Italia è entrata in guerra; in seguito cioè
al "piccolo golpe extra-parlamentare" cui si accennava
all'inizio.
Dal
sovvertimento di alcuni valori del sistema liberal-parlamentare
scaturirono infatti anche gli aspetti devianti della conduzione della
guerra: l'utilizzazione del popolo in divisa come carne da cannone,
le spietate decimazioni di soldati innocenti (con le quali Cadorna
intendeva far brillare l'ordine e la disciplina), l'ottusa e
pervicace convinzione di essere nel giusto e di dover rappresentare,
come in controluce, nell'esercito ferreamente disciplinato, un'Italia
gerarchicamente inquadrata e socialmente ordinata. Sul piano
strettamente tecnico le cose non potevano, di conseguenza, andare in
modo diverso. Nel 1915 Cadorna fece distribuire un opuscolo nel quale
era spiegata la sua strategia: l'attacco frontale. Niente manovre,
tattiche, aggiramenti e opportunità dettate dalle circostanze; solo
attacco frontale al nemico. Dopo Caporetto i sostenitori di Cadorna
dissero che quella strategia era stata pensata non per tutto
l'esercito in armi, ma per i singoli reparti, e che spettava ai
relativi comandi la decisione o meno di applicarla. In verità, fino
al 1917 quei pochi comandanti che cercarono di rendere più duttile
la direzione strategica della guerra (tra questi, ad esempio, il
generale d'armata Luigi Capello) trovarono in Cadorna un ostacolo
insormontabile. È stata anche questa, d'altronde, l'ideologia di
quella guerra; e non solo in Italia. "La guerra d'usura",
scrive infatti Rocca, "non era, del resto, prerogativa del solo
fronte italiano. Anche negli altri campi di battaglia si susseguivano
terrificanti scontri con un altissimo tributo di vittime. Il
prestigio dei comandanti finiva inesorabilmente per appannarsi e ai
politici spettava il compito, spesso ingrato, di sacrificarli per
gettare in pasto all'opinione pubblica qualche capro espiatorio. Alla
fine del 1916 Cadorna sarebbe stato uno dei pochi sopravvissuti fra i
'generalissimi'". Ma con i "politici" - che pure lo
sostennero fino al fatale ottobre '17 - Cadorna non legò mai. Come
dimostra molto bene Rocca, tante vicende della guerra sono
incomprensibili senza un approfondimento dei rapporti, spesso obliqui
e misteriosi, che intercorsero tra Roma e Udine, tra il Comando
Supremo, il governo, i servizi segreti, strani Comitati patriottici e
gli ottanta deputati interventisti che nel marzo 1917 si riunirono in
un Fascio parlamentare contro le "insidie" socialiste e
contro il "disfattismo". Si temette, soprattutto nel '17,
un colpo di Stato. "A Roma", scrive Rocca, "correvano
difatti le voci più strane. L'attivismo di Cadorna allarmava il
mondo politico, timoroso di mene bonapartiste. L'esistenza nella
capitale di una centrale di polizia del Comando Supremo era ormai di
dominio pubblico. E tutti immaginavano che in quei misteriosi uffici
si ordissero complotti, si procedesse a schedature".
Più
questi timori si infittivano a Roma e più al fronte Cadorna seguiva
implacabilmente la sua strada: logoramento delle truppe, decimazioni,
siluramenti e cambiamenti spesso immotivati di ufficiali a tutti i
livelli di comando. Alla Camera e nel paese l'opposizione socialista
e alcuni gruppi di cattolici tentavano di svegliare la coscienza dei
responsabili politici e militari; furono accusati di viltà e di
pacifismo disfattista. Tra i soldati, intanto, serpeggiavano sgomento
e ammutinamento. Il crollo del fronte a Caporetto negli ultimi giorni
di ottobre fu la conseguenza logica di tutto ciò. Eppure Cadorna
ebbe il coraggio di attribuire alla viltà dei soldati quel che era
accaduto. Caporetto fu un disastro militare senza precedenti: il
nostro esercito parve dissolversi. Costretto a lasciare il comando,
Cadorna non si assunse però mai, fino alla morte avvenuta nel 1928,
la responsabilità di quell'evento.
“la
Repubblica”, 11 aprile 1985
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