Sergej Necaev |
Il catechismo del
rivoluzionario, un piccolo libro composto nel 1869, probabilmente
da Sergej Necaev, (a cura di Michael Confino, traduzione di Giséle
Bartoli, Adelphi pp. 268 e 9,30), è uno degli scritti capitali del
nichilismo russo. Ho letto pochi testi animati da uno spirito di
distruzione così feroce, spietato e assoluto, che occupa
completamente la mente e il cuore di chi scrive, e si incide in una
forma memorabile, che prescrive l’imitazione dei lettori. Secondo
Necaev, bisognava distruggere tutto: lo stato, l’aristocrazia, la
borghesia, la chiesa, i kulaki, gli stessi contadini, se la loro
esistenza possedeva una qualsiasi forma. I rivoluzionari dovevano
raccogliersi e concentrarsi: fare propaganda nei bassifondi, tra i
pezzenti, i ladri e i briganti che occupavano il vasto mondo
sotterraneo della Russia, scagliandoli contro il potere. Non doveva
restare più niente: nessuna organizzazione sociale e politica, come
poi pensò il comunismo sovietico, doveva prendere il posto del mondo
distrutto.
Una sola cosa esisteva
sulla terra, un solo pensiero, una sola passione: la rivoluzione, che
escludeva ogni altra passione, interesse e sentimento. La rivoluzione
si introduceva in tutte le classi della società, medie ed infime,
nella bottega del mercante, in chiesa; e via via si allargava,
insinuandosi nella casa signorile, nel mondo burocratico, militare,
letterario, nella polizia segreta, e persino nel Palazzo d’Inverno,
cioè nel luogo dove il potere si concentrava. La rivoluzione aveva
una prodigiosa ubiquità: era dovunque, e si impadroniva di tutto.
Gli uomini, secondo Necaev, vivevano di pregiudizi. Solo la
rivoluzione non conosceva pregiudizi: perché, per affermarsi, usava
ogni mezzo possibile — la forza, la violenza, la menzogna,
l’inganno, la mistificazione, — e li usava contro i potenti e
contro gli stessi compagni, che la preparavano.
Nel Catechismo
Necaev descriveva stupendamente il carattere dei rivoluzionari. Anzi
del rivoluzionario: perché non gli interessava il carattere del
partito, del gruppo, del comitato segreto, ma esclusivamente quello
del singolo, che agiva da solo e compiva una serie di azioni
distruttive, immaginate e inventate nella sua mente sovrana. Dagli
studenti e dai seminaristi affiliati, il rivoluzionario esigeva una
sottomissione totale, una incondizionata partecipazione all’impresa,
i cui scopi restavano loro completamente sconosciuti. Egli creava un
piccolo circolo, composto da quattro o cinque persone: questo circolo
generava un secondo circolo; il secondo ne generava un terzo, e così
via, senza fine, attraverso il vasto corpo della Russia, senza che si
potesse mai risalire al nucleo originario.
«Il rivoluzionario —
diceva Necaev — non ha interessi propri, affanni privati,
sentimenti, legami personali, proprietà. Non ha neppure un nome».
Egli era spaventosamente duro verso sé stesso, come se fosse un
pezzo di ferro o di legno. Ma era molto più duro verso gli altri:
tutti i sentimenti terreni, che ammorbidiscono l’animo, come
l’amicizia, l’amore, la gratitudine, l’onore, dovevano essere
soffocati dall’unica, fredda passione per la causa. Per lui
esisteva soltanto un’unica gioia: il successo della rivoluzione.
Due sole inclinazioni variavano la freddezza della sua anima. La
prima era l’odio, che provava non soltanto verso il governo e le
classi dirigenti, ma verso gli stessi giovani che aveva trascinato
con sé: per loro non aveva che avversione e disprezzo. La seconda
era la mistificazione. Mentre abitava la società, egli si faceva
passare per ciò che non era: tutte le sue parole non erano che
menzogne ed inganno.
Il tempo precipitava
verso la guerra all’ultimo sangue. «Quando si deve fare la
rivoluzione?» si chiedeva un amico di Necaev, Tkacev. «Adesso,
rispondeva, perché fra poco sarà troppo tardi». Anche Necaev
credeva nell’assoluta imminenza della rivoluzione, che sarebbe
accaduta tra pochi giorni. O almeno fingeva di crederci, quando, a
Locarno, parlava con Bakunin, raccontando dei comitati immaginari che
tendevano le loro fila nella Russia zarista.
* * *
Prima di lasciare la
Russia, Necaev aveva compiuto un delitto. Ivanov, suo compagno
politico, era un uomo agiato, che più volte gli aveva dato denari.
Alla fine, gli disse che aveva perduto qualsiasi fiducia in lui, e
non l’avrebbe più finanziato. Allora Necaev mentì: disse ai
compagni che Ivanov era un agente della polizia segreta russa e si
accingeva a denunciare l’organizzazione alla giustizia. Il 21
novembre 1869, i cinque compagni della Narodnaja Rasprava attrassero
Ivanov, di notte, nel parco dell’Accademia dell’Agricoltura di
Mosca e lo uccisero. Dimenticarono di avere una pistola: lo colpirono
coi pugni e le pietre, e finirono per strangolarlo. L’uccisione
avvenne in un clima sinistro e farsesco, che Dostoevskij raccontò
mirabilmente in un capitolo dei Demòni.
Inseguito dalla polizia
russa, Necaev fuggì in Svizzera, a Locarno. Lì viveva Michael
Bakunin, famoso profeta della rivoluzione anarchica. Da trent’anni
era lontano dalla Russia; la gioventù di Mosca e di Pietroburgo era
per lui una terra incognita; si sentiva vecchio, debole, impotente;
era pieno di rimpianti, e sognava disperatamente la patria che aveva
lasciato nella giovinezza. Continuava a descrivere il suo programma.
Secondo lui, il popolo russo conservava nella memoria l’ideale
dell’antico comune libero. Ogni villaggio sentiva l’urgenza di un
cambiamento assoluto, e nascondeva in fondo all’animo il desiderio
di impadronirsi di tutta la terra dei nobili e dei kulaki.
Quando Necaev arrivò a
Locarno, Bakunin lo accolse con profondissima ammirazione, credendo
in lui come in un’immagine ritrovata della sua giovinezza. «Sono
ammirevoli — diceva — questi giovani fanatici-credenti senza Dio,
eroi senza frasi fatte». Venerava la sua passione rivoluzionaria, la
sua energia scatenata, la sua volontà, il suo disinteresse, la sua
instancabile alacrità, la sua abnegazione assoluta, il suo fascino.
Non aveva mai incontrato — disse — nessun giovane così prezioso
e santo; e lo riteneva capace di riunire intorno a sé, non per sé
ma per la causa, tutte le forze rivoluzionarie della Russia.
A Locarno, si ripeté
quello che era accaduto a Mosca: la forza della rivoluzione rivelò
di non essere altro che mistificazione e inganno. Necaev aveva una
sconfinata fiducia nella propria infallibilità, e un totale
disprezzo per gli altri esseri umani, anche se erano suoi amici e
compagni. Cercava di carpire i segreti di Bakunin e degli altri
rivoluzionari; rimasto solo nelle loro camere, apriva i cassetti,
leggeva la corrispondenza; se veniva presentato a un amico, la sua
prima cura era di seminare discordie, pettegolezzi, intrighi; e
cercava di sedurre le mogli e le figlie, violando ogni amore ed
amicizia.
Bakunin fu profondamente
offeso. «Dunque voi mi avete sistematicamente mentito», scrisse a
Necaev. «Dunque la vostra impresa era marcia di menzogne… Credevo
incondizionatamente in voi, ma voi mi stavate ingannando… Ora
basta. I nostri rapporti passati e i nostri mutui obblighi sono
finiti. Li avete distrutti voi stesso». Quando vide la rivoluzione
incarnata in un essere umano, Bakunin si accorse di avere davanti a
sé un mostro spaventoso; e rimpianse tutti gli anni che aveva
dedicato al suo ideale impossibile.
Corriere della Sera 23
gennaio 2014
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