27.12.16

Il catechismo del rivoluzionario russo: distruggere tutto, anche se stessi (Pietro Citati)

Sergej Necaev
Il catechismo del rivoluzionario, un piccolo libro composto nel 1869, probabilmente da Sergej Necaev, (a cura di Michael Confino, traduzione di Giséle Bartoli, Adelphi pp. 268 e 9,30), è uno degli scritti capitali del nichilismo russo. Ho letto pochi testi animati da uno spirito di distruzione così feroce, spietato e assoluto, che occupa completamente la mente e il cuore di chi scrive, e si incide in una forma memorabile, che prescrive l’imitazione dei lettori. Secondo Necaev, bisognava distruggere tutto: lo stato, l’aristocrazia, la borghesia, la chiesa, i kulaki, gli stessi contadini, se la loro esistenza possedeva una qualsiasi forma. I rivoluzionari dovevano raccogliersi e concentrarsi: fare propaganda nei bassifondi, tra i pezzenti, i ladri e i briganti che occupavano il vasto mondo sotterraneo della Russia, scagliandoli contro il potere. Non doveva restare più niente: nessuna organizzazione sociale e politica, come poi pensò il comunismo sovietico, doveva prendere il posto del mondo distrutto.
Una sola cosa esisteva sulla terra, un solo pensiero, una sola passione: la rivoluzione, che escludeva ogni altra passione, interesse e sentimento. La rivoluzione si introduceva in tutte le classi della società, medie ed infime, nella bottega del mercante, in chiesa; e via via si allargava, insinuandosi nella casa signorile, nel mondo burocratico, militare, letterario, nella polizia segreta, e persino nel Palazzo d’Inverno, cioè nel luogo dove il potere si concentrava. La rivoluzione aveva una prodigiosa ubiquità: era dovunque, e si impadroniva di tutto. Gli uomini, secondo Necaev, vivevano di pregiudizi. Solo la rivoluzione non conosceva pregiudizi: perché, per affermarsi, usava ogni mezzo possibile — la forza, la violenza, la menzogna, l’inganno, la mistificazione, — e li usava contro i potenti e contro gli stessi compagni, che la preparavano.
Nel Catechismo Necaev descriveva stupendamente il carattere dei rivoluzionari. Anzi del rivoluzionario: perché non gli interessava il carattere del partito, del gruppo, del comitato segreto, ma esclusivamente quello del singolo, che agiva da solo e compiva una serie di azioni distruttive, immaginate e inventate nella sua mente sovrana. Dagli studenti e dai seminaristi affiliati, il rivoluzionario esigeva una sottomissione totale, una incondizionata partecipazione all’impresa, i cui scopi restavano loro completamente sconosciuti. Egli creava un piccolo circolo, composto da quattro o cinque persone: questo circolo generava un secondo circolo; il secondo ne generava un terzo, e così via, senza fine, attraverso il vasto corpo della Russia, senza che si potesse mai risalire al nucleo originario.
«Il rivoluzionario — diceva Necaev — non ha interessi propri, affanni privati, sentimenti, legami personali, proprietà. Non ha neppure un nome». Egli era spaventosamente duro verso sé stesso, come se fosse un pezzo di ferro o di legno. Ma era molto più duro verso gli altri: tutti i sentimenti terreni, che ammorbidiscono l’animo, come l’amicizia, l’amore, la gratitudine, l’onore, dovevano essere soffocati dall’unica, fredda passione per la causa. Per lui esisteva soltanto un’unica gioia: il successo della rivoluzione. Due sole inclinazioni variavano la freddezza della sua anima. La prima era l’odio, che provava non soltanto verso il governo e le classi dirigenti, ma verso gli stessi giovani che aveva trascinato con sé: per loro non aveva che avversione e disprezzo. La seconda era la mistificazione. Mentre abitava la società, egli si faceva passare per ciò che non era: tutte le sue parole non erano che menzogne ed inganno.
Il tempo precipitava verso la guerra all’ultimo sangue. «Quando si deve fare la rivoluzione?» si chiedeva un amico di Necaev, Tkacev. «Adesso, rispondeva, perché fra poco sarà troppo tardi». Anche Necaev credeva nell’assoluta imminenza della rivoluzione, che sarebbe accaduta tra pochi giorni. O almeno fingeva di crederci, quando, a Locarno, parlava con Bakunin, raccontando dei comitati immaginari che tendevano le loro fila nella Russia zarista.
* * *
Prima di lasciare la Russia, Necaev aveva compiuto un delitto. Ivanov, suo compagno politico, era un uomo agiato, che più volte gli aveva dato denari. Alla fine, gli disse che aveva perduto qualsiasi fiducia in lui, e non l’avrebbe più finanziato. Allora Necaev mentì: disse ai compagni che Ivanov era un agente della polizia segreta russa e si accingeva a denunciare l’organizzazione alla giustizia. Il 21 novembre 1869, i cinque compagni della Narodnaja Rasprava attrassero Ivanov, di notte, nel parco dell’Accademia dell’Agricoltura di Mosca e lo uccisero. Dimenticarono di avere una pistola: lo colpirono coi pugni e le pietre, e finirono per strangolarlo. L’uccisione avvenne in un clima sinistro e farsesco, che Dostoevskij raccontò mirabilmente in un capitolo dei Demòni.
Inseguito dalla polizia russa, Necaev fuggì in Svizzera, a Locarno. Lì viveva Michael Bakunin, famoso profeta della rivoluzione anarchica. Da trent’anni era lontano dalla Russia; la gioventù di Mosca e di Pietroburgo era per lui una terra incognita; si sentiva vecchio, debole, impotente; era pieno di rimpianti, e sognava disperatamente la patria che aveva lasciato nella giovinezza. Continuava a descrivere il suo programma. Secondo lui, il popolo russo conservava nella memoria l’ideale dell’antico comune libero. Ogni villaggio sentiva l’urgenza di un cambiamento assoluto, e nascondeva in fondo all’animo il desiderio di impadronirsi di tutta la terra dei nobili e dei kulaki.
Quando Necaev arrivò a Locarno, Bakunin lo accolse con profondissima ammirazione, credendo in lui come in un’immagine ritrovata della sua giovinezza. «Sono ammirevoli — diceva — questi giovani fanatici-credenti senza Dio, eroi senza frasi fatte». Venerava la sua passione rivoluzionaria, la sua energia scatenata, la sua volontà, il suo disinteresse, la sua instancabile alacrità, la sua abnegazione assoluta, il suo fascino. Non aveva mai incontrato — disse — nessun giovane così prezioso e santo; e lo riteneva capace di riunire intorno a sé, non per sé ma per la causa, tutte le forze rivoluzionarie della Russia.
A Locarno, si ripeté quello che era accaduto a Mosca: la forza della rivoluzione rivelò di non essere altro che mistificazione e inganno. Necaev aveva una sconfinata fiducia nella propria infallibilità, e un totale disprezzo per gli altri esseri umani, anche se erano suoi amici e compagni. Cercava di carpire i segreti di Bakunin e degli altri rivoluzionari; rimasto solo nelle loro camere, apriva i cassetti, leggeva la corrispondenza; se veniva presentato a un amico, la sua prima cura era di seminare discordie, pettegolezzi, intrighi; e cercava di sedurre le mogli e le figlie, violando ogni amore ed amicizia.
Bakunin fu profondamente offeso. «Dunque voi mi avete sistematicamente mentito», scrisse a Necaev. «Dunque la vostra impresa era marcia di menzogne… Credevo incondizionatamente in voi, ma voi mi stavate ingannando… Ora basta. I nostri rapporti passati e i nostri mutui obblighi sono finiti. Li avete distrutti voi stesso». Quando vide la rivoluzione incarnata in un essere umano, Bakunin si accorse di avere davanti a sé un mostro spaventoso; e rimpianse tutti gli anni che aveva dedicato al suo ideale impossibile.


Corriere della Sera 23 gennaio 2014

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