È uscito in questi
giorni il numero 74 di «Nuovi Argomenti», intitolato L’Europa
quando piove e dedicato all’identità europea. L'intervento che
segue, di Luciana Castellina, mi pare di grande spessore ed è stato
diffuso in rete anche dal sito “le parole e le cose”. (S.L.L.)
Mario De Biasi- Anni 50 - Cantiere in Sicilia |
L’idea cominciò il suo
cammino durante una chiacchierata a cena, casualmente, come capita a
quasi tutte le idee. Ma aveva come retroterra un disagio che veniva
da lontano: la difficoltà di trovare, fuori dalla consunta retorica,
cosa davvero avessero in comune – e di specifico – gli europei.
Un disagio che alcuni dei commensali di quel desinare provavano con
particolare pungenza, per via del ruolo che erano stati chiamati a
svolgere. Uno era infatti lo spagnolo Marcelino Oreja, commissario
alla cultura dell’esecutivo europeo; l’altra ero io, presidente
della Commissione Cultura del Parlamento Europeo: ambedue impegnati a
fare cose che, per l’appunto, traevano legittimazione dalla
convinzione che esistesse una cultura comune e specifica che
accomunava greci e svedesi, danesi e portoghesi, italiani e tedeschi.
Sia io che Oreja sapevamo che non era vero, ma facevamo finta di non
saperlo. In noi, proprio per l’esperienza che ci veniva dal nostro
incarico, covava il sospetto che, in definitiva, avesse avuto ragione
l’Oracolo di Delphi, quando disse a Cadmo, il disperato fratello
alla ricerca della sorella – la libanese fanciulla Europa –
rapita da Giove e portata a Creta. «Europa – gli aveva detto –
non la troverai mai, non è, può solo essere creata».
La cena era una cena
molto speciale, perché c’era anche, nientedimeno, che il re di
Spagna Juan Carlos e si svolgeva in Estremadura, e precisamente a
Vera de Plasencia, dove sorge il Monastero de san Jeronimo de Yuste,
luogo in cui si era ritirato, e poi era morto, nel 1558, l’imperatore
Carlo I, il solo ad aver unificato sotto la sua sovranità quasi
tutta l’Europa, dalla Boemia alla Sicilia (salvo l’Inghilterra,
naturalmente). Forse era per questo successo che eravamo lì, ma
l’occasione ufficiale di un consimile banchetto era data
dall’inaugurazione dell’Accademia Europea de Juste, collocata nel
prestigioso monastero, e alla solenne concessione a Jacques Delors
del premio intitolato per l’appunto a Carlo V. (Forse nella
speranza che sarebbe riuscito a a somigliargli).
Il menu era sontuoso e
molto spagnolo, sicché proprio del cibo si cominciò a parlare,
sottolineando tutti quanto diverse fossero le gastronomie europee, e
quanto, tuttavia, fossero tutte straordinarie.
È proprio riflettendo su
questa eccezionalità che ci venne in mente che la gastronomia, al di
là delle sue diversificazioni, o forse proprio per questo,
costituiva qualcosa di realmente comune fra gli europei. Sia per chi
mangia gli spaghetti, sia per chi mangia lo jamón serrano, gli
smorrebrod, il gulasch o il camembert, il cibo non è infatti solo
nutrimento, mero strumento per garantire la sopravvivenza. È rito,
tradizione, simbolo comunitario, creatività. Il mangiare scandisce
gli accadimenti salienti della vita, ma anche la quotidianità. In
Europa, nonostante tutto, il solo terreno su cui il processo di
americanizzazione non ha ancora sfondato è proprio questo. Ecco,
finalmente, convenimmo, lo specifico europeo: la gastronomia.
Direte che no, c’è ben
altro, a cominciare dalla tradizione greco-cristiana-giudaica – con
il suo rispetto per la persona e la separazione della politica dalla
religione; e però questa è una tradizione propria ormai a tutto
l’Occidente, che quindi, di per sé e da sola, non è tanto
specifica da giustificare l’esistenza di un’entità europea. Né
si può dire che ad unire l’Europa sia stato il cristianesimo,
visto che sono proprio le guerre di religione ad averla dilaniata.
Senza contare l’importanza di un fattore piuttosto contraddittorio,
l’Illuminismo e la Rivoluzione francese.
Dire che il nostro
specifico e comune europeo sia la gastronomia non è affatto
riduttivo, perché il valore che noi diamo alla qualità del cibo
esprime qualcosa di molto profondo: il rifiuto di considerare le cose
che mangiamo una merce come un’altra, ma di riconoscere negli
alimenti i portatori di valori e di storia. Per quanti supermarket
carichi di orrende merendine cellofanate dilaghino oramai nelle
nostre città noi non accetteremmo mai di mangiare «out of the
fridge» davanti alla TV cibi congelati, nemmeno seduti a un tavolo,
come è normale per tanti americani. In Europa si cucina, eccome. La
sconfitta del McDonald di Gravina da parte della Focaccia delle
Murge, ben descritta nel film Focaccia Blues, è lì a
indicarlo. (Analoga disfatta dello spaccio americano ci fu subito
dopo da parte del Panino Ciociaro).
A capire perché in
Europa sia così ci ho messo più tempo. La risposta
all’interrogativo l’ho infatti trovata in seguito nei Grundrisse
di Karl Marx, laddove egli dice che in Europa il capitalismo si è
sviluppato – ecco la grande differenza con gli Stati Uniti – in
presenza di forme socio-culturali che lo precedevano ma erano ancora
vitali, mentre cioè sopravvivevano classi e istituzioni
(l’aristocrazia, il mondo rurale, la Chiesa) che, pur prendendo
parte a tale sviluppo, ne hanno però segnato – nel male e nel bene
– il sistema egemonico. Preservando una distanza critica,
un’autonomia di valori rispetto alla crescente pressione in
direzione di una riduzione di ogni dimensione umana alle mere
priorità dell’economia, della produzione, della concorrenza
mercantile. È questa cultura «altra», in qualche modo
disinteressata, che ha dato luogo, qui, a una critica alla modernità
che ha avuto aspetti reazionari ma anche rivoluzionari; e ha dato fra
l’altro vita, qui e solo qui – potremmo aggiungere – ad uno
speciale movimento operaio che in tutte le sue ispirazioni –
comunista, socialista e cristiana – non è mai stato, come altrove,
mero agente della contrattazione del prezzo della forza lavoro, ma
anche portatore di valori di solidarietà che hanno inciso sulle
istituzioni e lo hanno infatti reso artefice di quello che abbiamo
chiamato stato sociale. Questa cultura «altra», questa distanza dal
mercato, ha segnato l’identità europea fino al senso comune; ed è
a ben guardare il solo tratto che – al di là delle loro tante
diversità – i vari paesi europei hanno in comune, dalla Svezia al
Portogallo, dall’Inghilterra all’Italia.
Tradotto questo discorso
sulla gastronomia in modo semplificato potremmo dire che è proprio
per questo che in Europa non rinunceremo mai ai nostri mille formaggi
per sostituirli con le sottilette, vale a dire con un prodotto
seriale certamente meno costoso da produrre e più profittevole. Per
questo nella prima grande manifestazione antiglobal che si sia
tenuta, quella di Seattle del 1999, in occasione della contestazione
del vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (che si
proponeva di varare un accordo molto simile a quello che oggi viene
riproposto, il TTIP – Transatlantic Trade and Investment
Partnership) – il contadino francese José Bovè impugnò per
protesta proprio un formaggio, il camembert. Che, da allora, è
diventato il simbolo della lotta contro la mercificazione di ogni
aspetto della vita umana.
Dei Grundrisse
naturalmente non parlai con Marcelino Oreja, colto ma troppo
democristiano per seguirmi su questo terreno. Né nel corso di quella
cena – io stessa collegai Carlo Marx con la gastronomia solo in
seguito – né mai. Ma quella sera giungemmo alla conclusione che
dovevamo mettere in cantiere un progetto che desse luce al ruolo
della gastronomia nella definizione della cultura europea. Anzi, mai
una proposta abbozzata con il commissario alla cultura ebbe un
seguito così rapido. Tornata a Bruxelles dall’Estremadura trovai
già un fax di Oreja (erano i primi anni ’90 e non usavamo ancora
internet) che mi convocava per l’indomani a una colazione (al
meraviglioso “Comme chez soi” della capitale belga), dove ci
sarebbe stato anche un suo amico spagnolo, presidente di non ricordo
quale istituzione gastronomica, appositamente fatto giungere in
Belgio.
L’idea fu lanciata,
anche se poi prese strade meno ufficiali e più efficaci: Slowfood,
innanzitutto. Ma la gastronomia cominciò ad essere inclusa fra i
beni culturali da proteggere.
Purtroppo le cose non
vanno bene: in questi decenni la specificità europea, la sua
autonomia, sono state picconate. Anziché far valere con più impegno
la nostra identità per dar forza all’idea di Europa, che peraltro,
in epoca di globalizzazione non può più essere, se mai lo sia
stato, solo un pezzetto di mercato, si è scelta la strada opposta:
il totale allineamento alla globalizzazione, a partire dalla
liquidazione proprio del welfare state e dalla ulteriore
mercificazione di tutto.
Io tuttavia continuo quando, come molto spesso mi accade, di dover parlare d’Europa ai più svariati auditori, di rispondere, alla domanda «cosa c’è di comune in Europa?», «La gastronomia e il movimento operaio».
Io tuttavia continuo quando, come molto spesso mi accade, di dover parlare d’Europa ai più svariati auditori, di rispondere, alla domanda «cosa c’è di comune in Europa?», «La gastronomia e il movimento operaio».
Le parole e le cose, 7dicembre 2016
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