Murales, quadri,
foto, documenti: al Grand Palais di Parigi fino al 23 gennaio i
capolavori di un gruppo di artisti “rivoluzionari” che ha segnato
il Novecento
Forse l’opera che
sintetizza meglio tutti i principali ingredienti storici, ideologici,
culturali, ed estetici di cui è impregnata questa grande rassegna
sull’arte messicana della prima metà del XX secolo al Grand Palais
di Parigi, è quella di un autore russo, e cioè il film incompiuto
Que viva Mexico! di Sergei Eisenstein. Alla fine del 1930,
dopo la rottura del contratto con la Paramount, il regista se ne va
da Los Angeles e arriva in Messico. Qui nel 1931-32 lavora al
progetto di un grandioso film-documentario sulla tragica ed esaltante
epopea del popolo messicano, dove entrano in scena i miti delle
civiltà native, le atrocità della colonizzazione spagnola, la
nascita della nazione indipendente e infine il trionfo della
rivoluzione zapatista, con spettacolari riprese di massa nell’ultima
sezione. Anche se ci si deve accontentare di un collage postumo
curato da uno dei suoi collaboratori, la forza scioccante ed
evocativa del montaggio delle immagini da vita a straordinari
frammenti di «murales in movimento» (per usare una definizione del
regista stesso che era amico di Diego Rivera). E in effetti, dal
punto di vista compositivo, si può ben dire che anche l’impianto
iconico degli immensi affreschi in edifici pubblici realizzati a
partire dagli Anni 20 dalla «trinità muralista» (Diego Rivera,
José Clemente Orozco, David Alfaro Siqueiros), e da altri pittori, è
basata su operazioni di montaggio. Un montaggio compositivo che si
sviluppa attraverso la raffigurazione di personaggi e paesaggi, di
scene di vita contadina, di enfatizzazioni allegoriche e
immaginifiche, con accenti realistici, di epico populismo e
retoricamente ideologiche. La fondamentale esperienza dell’arte
pubblica monumentale muralista (che negli Anni 30 ha avuto un ruolo
cruciale anche negli Usa) è naturalmente il tema su cui maggiormente
si incentra l’esposizione. Gli artisti si sentono in prima linea
nella costruzione della nuova identità culturale, e del nuovo
immaginario collettivo che trae la sua linfa dalle radici mitiche per
aprirsi a utopistici scenari sociali nella modernità. Grazie
all’iniziativa del ministro Vasconcelos le pareti di palazzi
istituzionali diventano il teatro di vaste narrazioni pittoriche.
In mostra ci sono vari
esempi di bozzetti e quadri connessi con le grandi realizzazioni, ma
viene documentata anche la specifica qualità della pittura dei vari
protagonisti. Di grande rilievo è in particolare la ricerca di
Rivera, a partire dalla sua notevole fase cubista, degli anni
parigini. Interessante è anche, per esempio, la debordante energia
espressiva e plastica delle figure di Siqueiros, tra cui spicca un
mirabolante autoritratto in scorcio, con un enorme pugno che sembra
uscire dal quadro e colpire lo spettatore.
Maria Izquierdo, Maternidad |
Ma in mostra troviamo
opere di molti altri artisti, circa sessanta in tutto, che
documentano da un lato l’evoluzione in direzione moderna dei
linguaggi con influenze cubiste, futuriste e astratte (tra cui vanno
ricordati gli esponenti del movimento «stridentista», come Charlot,
Alva de la Canal, Revueltas); e dall’altro lato, in particolare,
quelle caratterizzate soprattutto delle forme più vitali e
significative del tradizionale folklore autoctono. E sono proprio i
lavori degli artisti che si ispirano all’iconografia popolare
quelli più affascinanti e anche più sorprendenti. È il caso, per
esempio, di Ramon Cano Manilla; di Antonio Ruiz «El Corcito»
(bellissimo è la fantastica figura addormentata sono delle coperte
che diventano un paesaggio fantastico); e una artista eccezionale
come Maria Izquierdo, amica di Antonin Artaud che scrive cose di
immaginifica intensità sulla sua creatività sorgiva e
«primordiale». E c’è naturalmente anche la grande Frida Kahlo,
legata visceralmente alle radici più profonde della «messicanità».
Della Kahlo sono esposte solo due opere, tra cui una grande tela che
è un enigmatico capolavoro. Si intitola Le due Frida (I939) e
rappresenta l’artista sdoppiata in due figure sedute che appaiono
come gemelle, e che indossano due eleganti abiti tradizionali. Anche
se non è molto ampia, è altamente significativa la sezione dedicata
alla fotografia, con immagini di Tina Modotti (e anche di Weston, del
periodo del suo soggiorno messicano), di Rosa Rolanda, di Lola
Àlvarez Bravo e del suo più famoso marito Manuel, che è uno dei
grandi pionieri del realismo sociale impegnato, ma anche con valenze
espressive cariche di tensione visionaria.
La Stampa 22.10.16
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