Edith Piaf |
Non è facile oggi,
circondati come siamo da gigantesche conurbazioni che spesso non
lasciano intravedere soluzione di continuità tra città vicine,
immaginare un tempo in cui, invece, questa soluzione era chiara e
netta, marcata da differenze tali da far percepire il territorio
esterno alla città ancora come un mondo «altro», in gran parte
incontrollato e perciò talvolta inquietante. Quello tra città e
campagna è stato a lungo un rapporto irrisolto che ha turbato gli
abitanti delle metropoli e ha in gran parte contribuito a costruire,
veicolato specialmente dalla canzone popolare, l’immaginario della
metropoli moderna. Intorno agli inizi del Settecento, le cinte
murarie urbane, a causa degli sviluppi della tecnologia militare,
persero le loro funzioni difensive e vennero in gran parte demolite
creando in tal modo la necessità di nuove forme di controllo
dell’afflusso di beni e persone nelle città.
La storia di Parigi è
forse, in tal senso, la più emblematica: le mura che delimitavano il
centro storico, in corrispondenza grosso modo all’attuale tracciato
dei «grands boulevards», furono abbattute nel 1670 sotto Luigi XIV
e poiché tutto ciò che entrava in città veniva tassato in misura
maggiore, e quindi venduto a un prezzo più alto, la loro distruzione
causava ogni giorno un arrivo enorme di merci che era praticamente
impossibile controllare. Al loro posto venne dunque costruita, fin
dal 1785, una cinta di mura più piccole che avevano quindi una
funzione non più difensiva ma «fiscale»: L’enceinte des
fermiers généraux. I fermiers généreaux, dunque, gli
esattori delle imposte
che finirono per dare il
loro nome alla nuova cinta muraria, erano incaricati di riscuotere le
tasse, destinate per due terzi allo stato e per un terzo alla
municipalità di Parigi. I punti in cui si entrava in città erano
circa cinquanta, le cosiddette barrières, poi tutte eliminate
alla fine dell’Ottocento con la ristrutturazione urbanistica del
prefetto Haussmann (ad eccezione di qualcuna, come quella di Place de
la Nation), erano costituite da padiglioni, e lì chi accedeva a
Parigi veniva fermato e controllato dalle guardie. Una barriera era
dunque una sorta di «frontiera» dove si sostava, si aspettava, si
controllavano oggetti e documenti e, fatalmente, si perdeva molto
tempo: un luogo, insomma, che sembra avere piuttosto tutte le
caratteristiche di quei «non luoghi» che caratterizzano la tarda
modernità e che l’antropologia contemporanea ha identificato in
aeroporti, stazioni, autostrade, centri commerciali.
Fu forse anche per
reagire a questa spersonalizzazione che tali ambienti si riempirono
presto di taverne e ritrovi, con la loro musica e le loro canzoni, ed
è, infatti, con la rappresentazione di un affollato cabaret nei
pressi della Barrière d’Enfer che si apre il terzo quadro de La
Bohème di Giacomo Puccini.
Pur in gran parte
sparite, o defunzionalizzate dalla definitiva apertura della città
(e dall’inglobamento delle periferie che intanto erano cresciute
attorno alle mura), le barriere restarono
nei ricordi dei parigini,
in certa letteratura ma, come abbiamo detto, soprattutto nelle
canzoni: di certe «Veneri di barriera» racconta ad esempio Georges
Brassens, nella sua canzone Les amours d’antan, ricordando i
suoi amori giovanili, ed è sempre Brassens a dipingere con tenerezza
una Penelope dei poveri «che attende il ritorno del suo Ulisse di
periferia», in Pénélope.
Barriere e periferia, la
celeberrima «banlieue» parigina, rappresentano quindi due momenti
importanti nella costruzione di quello straordinario repertorio che
oggi riconosciamo come «canzone francese». Prima che esplodessero
gli chansonnier, infatti, i vari Ferré, Brèl e, appunto,
Brassens (che pure in parte mantennero e svilupparono la tematica
delle periferie come luoghi di disagio esistenziale in cui era più
facile cogliere i «fiori del male»), le canzoni di Edith Piaf, e di
altre grandi interpreti femminili come Damia e Fréhel, avevano già
individuato nei sobborghi del nuovo proletariato industriale
parigino, il faubourg, il luogo per antonomasia della nuova
canzone urbana: erano canzoni composte a ritmo di java, che
utilizzavano ampiamente l’argot, il gergo parigino, e che narravano
di ambienti malfamati e di amori travolgenti nati sulle piste da
ballo delle guinguette, le balere suburbane dove ci si ritrovava il
sabato sera («La ’signorina’ è bella/ all’angolo
della strada laggiù/ ha
la sua clientela/ che ’le riempie la calza’/ quando ha finito di
lavorare/ se ne va a sua volta/a sognare un po’/ nel suo ballo di
periferia», cantava Edith Piaf nel 1945 in L’accordéoniste),
del ricordo dei vecchi bistrot di barriera ormai scomparsi («erano
lo scenario di tutte le canzoni», cantava Fréhel in La chanson
des fortifs nel 1938), o di omaccioni dai grossi bicipiti sempre
pronti a litigare (C’est la valse des costauds, del 1934,
ancora dal repertorio di Fréhel). Il verso tratto da La chanson
des fortifs mostra che ancor prima dell’avvento della canzone
moderna, registrata e commercializzata dall’industria discografica,
vi erano altri repertori di cui si è persa memoria o che, pur meno
noti, affiancavano la nascente canzone moderna nata, qui come
altrove, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
Tale canzone popolare
urbana, di cui sappiamo ancora poco, conservava probabilmente ancora
una matrice folklorica, ed era imparentata con le logiche delle
canzoni popolari di tradizione orale, a cui non saranno state
certamente estranee le tematiche della marginalità sociale e la
mitologia dei fuorilegge popolari: qualcosa di simile, insomma, a
quello che accadeva, ad esempio, nelle ballate americane. Intanto,
già nel 1909, una canzone scritta da Georges Villard e Georges Krier
e cantata da numerosi interpreti (tra cui, oltre allo stesso Villard,
bisogna almeno ricordare Juliette Gréco), La valse brune,
alludeva in maniera decisa al mondo della malavita della banlieue,
quello degli Apaches parigini, malviventi in tal modo soprannominati
dalla stampa per la loro abilità a muoversi nel «deserto» delle
periferie così come gli omonimi nativi Usa facevano tra i canyon
dell’Arizona. Era insomma la rappresentazione romantica di quel
mondo che avrebbe trovato successivamente la sua definitiva
consacrazione nel film Casco d’oro (1952), con Simone
Signoret e Serge Reggiani, ispirato alla storia di una prostituta
contesa tra i capi di due gang rivali, e vera e propria antologia di
tipi, comportamenti e situazioni della periferia di Parigi dell’epoca
(o di come la si immaginava) e che oggi possono apparire a dir poco
ingenui, con i loro codici d’onore, i loro «colpi bassi», i loro
duelli.
Il grande pubblico del
music hall «scoprì» la periferia cittadina con le canzoni di
Maurice Chevalier, che la evocava nella tipica inflessione della
cadenza popolare parigina. Brani come Prosper, dedicato a un classico
«magnaccia», descrivevano ironicamente i personaggi di quartieri
come Montmartre o Belleville-Ménilmontant, ma già qualche decennio
anno prima Aristide Bruant, antesignano degli chansonnier del secondo
dopoguerra, aveva portato in scena nel suo cabaret, il famoso Chat
Noire al Boulevard Rochechouart, il mito del faubourg. Bruant,
che fu immortalato dal pittore Tolouse-Lautrec in alcuni notissimi
cartelloni pubblicitari, scrisse e cantò numerose canzoni canaille
ispirate dai sobborghi parigini, tra le quali Dans la rue e À
la Villette. Belleville, dove, tra l’altro, nacque Edith Piaf, è
il quartiere tipico di una certa periferia parigina: i nomi di alcune
sue strade, Rue des Cascades, Rue des Rigoles, ricordano gli
acquedotti che un tempo le abbazie proprietarie di quei suoli
edificarono per garantirsi l’acqua corrente, quando quei posti
erano ancora totalmente coltivati e scarsamente antropizzati; e
tuttora, aggirandosi tra le strette stradine della zona, è possibile
osservare i «regards», piccole costruzioni in muratura erette per
custodire le fonti, oggi incuneate tra i palazzi di cemento. Poi,
nella prima metà dell’Ottocento, quello che era un piccolo borgo
con una comunità di tremila persone si trasformò in un gigantesco
agglomerato di settantamila abitanti e fu annesso alla città.
Un altro posto importante
nell’ambito di una definizione della canzone popolare urbana di
Parigi è poi senz’altro Rue de Lappe, una strada a ridosso della
Bastiglia ancora oggi rinomata per la sua vita notturna. In questa
strada, nella metà del XIX secolo, anche per la sua vicinanza a una
grande stazione ferroviaria, si concentrò l’immigrazione dalle
zone interne della Francia e dall’Italia: la tradizione vuole che
dalla fusione dei repertori alverniati e bretoni, prevalentemente
incentrati sulle cornamuse, e i suoni delle fisarmoniche dei nostri
connazionali, sia nato il «bal musette», che ha costituito da
allora in poi il principale ballo del mondo popolare parigino.
E ancora oggi, dopo anni
di rock e di canzone d’autore, locali come il Balajo, situato nel
cuore di questa strada, ospitano pomeriggi e serate dedicate a questo
genere e a questa via, che pullulava di tipi poco affidabili, Francis
Lemarque, su musica di Rudolph Revil, dedicò nel 1950 l’omonima
celebre canzone, con quel riferimento alla Guyana francese che fu,
per quasi un secolo, bagno penale per la malavita francese.
Ma le «barriere» non
esistevano solo a Parigi: anche Torino, ad esempio, aveva la sua, la
«barriera Milano», e si trovava dove ora è piazza Crispi; da
questa piazza nasceva l’attuale Corso Vercelli, che connetteva la
città con Vercelli e Milano. Come per Parigi, a Torino il muro che
circondava la città fu costruito, nel 1853, per regolare i flussi
delle merci e per riscuotere le imposte daziarie. E, come per la
capitale francese, anche nella città della Fiat la periferia ha
espresso un mondo, un’umanità con figure e personaggi destinati a
sparire solo con la modernità compiuta, quando le culture
particolari dei sobborghi non hanno retto all’alluvione della
produzione di massa e ai suoi modelli omologanti.
Un grande poeta in musica
della periferia torinese è stato sicuramente Gipo Farassino, che con
le sue canzoni ha saputo ben rappresentare e trasfigurare
quell’impasto di cemento e ferro che è ancora oggi possibile
vedere in alcuni angoli della zona orientale dell’ex capitale
sabauda. Pur guardando chiaramente, sia nella musica che nei testi,
ai grandi modelli d’oltralpe, Farassino ha saputo esprimere un
mondo profondamente vero, cantato rigorosamente in dialetto
piemontese con grande partecipazione e con uno stile interpretativo
da autentico chansonnier.
Così, in Ël temp del
fior, una canzone del 1976, ricorda, come Brassens, i suoi amori
di una volta: «Rina, Teresa, Nicol/ se siete lì ad ascoltarmi/ vi
sale un groppo in gola/ abbiamo fuso le ringhiere/ dei nostri
vent’anni e l’amore/ anche tra i forni delle ferriere/ faceva
nascere dio/ Con noi anche il grigio della barriera/ di notte
cambiava colore/ era il tempo dell’amore».
Il mito della «frontiera»
urbana, insomma, ha resistito a lungo nonostante la progressiva
scomparsa di quelle singolarità che rendevano un mondo a se stante
le malfamate periferie delle grandi metropoli. E ancora oggi a
Parigi, in una piccola trattoria di Belleville, agli avventori
vengono distribuiti dei fogli con i testi di famose canzoni da
cantare in coro accompagnati da un fisarmonicista: passandovi una
serata, insieme ai grandi successi di Brel, Trenet e Montand (e alle
immancabili canzoni napoletane), è possibile sentire ancora qualche
vecchio canto di malavita, di quelli che tanto hanno significato per
la genesi e l’affermazione dei generi popular della nostra epoca.
La musica di uno di questi fu utilizzata anche da un famoso
drammaturgo italiano
per uno dei suoi più
grandi successi che del testo originale riprendeva in parte anche
l’atmosfera canaille. La canzone in questione si chiamava,
l’abbiamo già incontrata, La valse brune (nella versione
partenopea Bammenella ‘e ncoppa ‘e Quartiere): lui era
Raffaele Viviani.
Alias - il manifesto N.
38 - 27 Settembre 2008
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