17.1.17

Chateaubriand surrealista nei sogni di André Breton (Daria Galateria)

Il primo incarico di Chateaubriand come ambasciatore a Londra fu di riferire al re, a un ballo, che il duca di Coignv si scusava di non poter presenziare, perché non aveva ancora pronta l’uniforme. Il re di Francia sorrise: «Sabbie mobili a Calais. Eccellenza?», mormorò. Chateaubriand rimase interdetto. Il riferimento era assai raffinato; il sovrano citava il passo delle settecentesche Memorie e avventure di un uomo di qualità dell’abate Prevost: si trattava del passaggio in cui un damerino, a Calais, affidava al suo valletto una somma ingente per procurargli il più bell’abito mai visto: il valletto era tornato a mani vuote, dicendo che il vestito gli era caduto nelle sabbie mobili.
«Sabbie mobili, a Calais?». «Sì, Monsieur», era stata l’imperturbabile risposta. E da quando, si chiese Chateaubriand, un monarca si preoccupa di mostrare dello spirito, come un avventuriero, o un aristocratico da salotto? Ma in realtà, già a Berlino gli era capitato che gli facessero allusioni letterarie, con aria piena di sottintesi; tutti si affannavano a citargli passi di Atala e di René di cui lui non si ricordava; «vi confesserò che mi hanno fatto arrossire», scriveva Chateaubriand alle sue amanti Récamier e Duras, cui inviava ogni giorno lettere quasi uguali, e si dichiarava soddisfatto perché, all’estero, «aver lavorato un po’ per l'immortalità» non veniva considerato incompatibile con la politica. I due brevi romanzi avevano vent’anni, e ancora raccoglievano allori. La storia di Atala assiepava senza sosta le più febbrili strategie del romanticismo; amore e morte, torture indiane, affetti incestuosi, esotismi, il vecchio e il nuovo mondo, intere tribù sterminate dai bianchi, voti di castità, mistici, gesuiti e buoni selvaggi. Ma nel deserto ideologico del legittimismo la ricchezza sentimentale restava senza oggetto: «abitiamo, con il cuore gonfio, un mondo vuoto».
Le effusioni liriche in Atala compongono un idillio immoto, dominato da un unico movimento oratorio, l’immane, silenziosa bellezza della natura nella Louisiana del Settecento. È in Atala la frase «la cima indistinta delle foreste» per cui Stendhal sfidò a duello un commilitone del sesto Dragoni, che la apprezzava infinitamente. Stendhal, che amava l’energia, la trovava efferata; e odiava talmente le descrizioni che decise di non scrivere mai romanzi; e per vent’anni, tenne fede al proposito.
«Chateaubriand è surrealista nell’esotismo», asseriva invece André Bretón nel Manifesto del 1924, rinvenendo evidentemente nell’immensità visionaria di quei paesaggi, nella natura mirifica e allucinata del racconto, nell’assenza di ogni controllo della ragione e della morale tracce di onnipotenza del sogno sufficienti a far ascrivere le pagine di Atala tra le radici del surrealismo. Si sarebbe fortemente stupito, l’operoso pari di Francia, a vedersi chiamato a correo delle chiassose iniziative di letterati anarchici.
L’epopea del surrealismo risuscita nella rievocazione che Bretón consegnò in sedici conversazioni radiofoniche con André Parinaud nel 1952. Gli Entretiens restaurano la Parigi della prima guerra mondiale, quando Bretón, «bello come un arcangelo», osservava con «l’assiduità immobile di un medium» (Adrienne Monnier, Rue de l’Odèon) il grande Apollinaire, e trascorrono, pervase dallo stesso sentimento dell’intollerabilità delle malattie del mondo, fino agli incontri in Messico con Trotsky, che pescando rievocava le cacce al lupo in Siberia, si infastidiva a sentir parlare di letteratura, e con una parola rigenerava il mondo in un’improvvisa visione rivoluzionaria; Bretón lo descrive mentre, circondato dall’aura del suo prestigio politico, e da tante guardie del corpo, scherzava sulla persecuzione che lo aveva colpito nei figli e nei compagni, e che verosimilmente non era cessata. È assente, nell’autobiografia di Bretón, qualsiasi traccia di nostalgia. L’insubordinazione, ancora nel 1952, è sempre all’ordine del giorno; la poesia e la libertà sono guerre allegre e senza armistizi; il tempo non trascolora e non addolcisce il nemico.
Forse questa imperturbabile bellicosità, che in qualche modo disconosce la pietà del tempo, è sorretta da un assenso interiore a un’idea immutabile, platonica e artigianale, e sicuramente molto letteraria, della bellezza. La natura sublime del suo stile e delle sue immagini, anche di quelle automatiche, gli è stata rimproverata, qualche volta. Ora che Marguerite Bonnet cura in Francia un’edizione esemplare delle sue opere complete, la grandezza di Bretón assume contorni quasi classici. Mezzo secolo prima, i sogni trascritti da Verlaine utilizzando la lezione del poema in prosa di Baudelaire sono quasi indistinguibili, nella tensione sentimentale e stilistica, dalle prove automatiche di Bretón. «Spalle d'ombra sorreggono i quartieri di frangi sanguinolenta e pesante» - scriveva Bretón in un abbozzo poi rielaborato nei Vasi comunicanti; «le bancarelle del lungosenna, piene di farfalle, emettono appena un lieve stridore, perché la luce del giorno, lungo il fiume, porta innanzi con competenza le sue forbici che avanzano dritto». «Vedo spesso Parigi mai come è», confidava cinquant’anni prima Verlaine in uno dei testi autobiografici in prosa, le Memorie di un vedovo. «È una citta sconosciuta, assurda. La cingo di un fiume stretto ben incassato tra due file di alberi qualsiasi. Tetti rossi brillano tra prati verdissimi» (...)
Gli scritti di Verlaine, incantati medaglioni di giovinetti, o straziate nostalgie di un’impossibile saggezza, rendono immediata l’eco del maledettismo che aureolava la vita del «principe dei poeti». La rivolta contro l’epoca materialista Verlaine la esprimeva in due modi separati: una violentissima angoscia del vivere, manifestata nelle forme leggendarie della vita «maledetta», e in poesia nella nebulosa grazia di un versificare smorzato, nella «chanson grise», grigia e un po’ ebbra, nelle «romanze senza parole» - la fine del linguaggio per uscire nel più delicato dei modi dal mondo.
Senza le risorse della musicalità indefinita che dissolve il senso, in prosa Verlaine mette in scena i miseri, laceranti pezzi della sua vita. I Goncourt, nel diario, insistono impietosi sugli episodi più atroci della biografia di Verlaine, e descrivono ad esempio l’apocalittico funerale della madre; gli amici e i becchini ubriachi fradici che sbattevano la bara giù per le scale strettissime, e il figlio che non poteva neanche alzarsi dal letto. Nella scrittura autobiografica di Verlaine, quello che più ferisce è un lieve tono apologetico. Verlaine ha l’aria di chiedere scusa per le sue orribili sofferenze e le sue povere gioie, ammiccante e incerto come un ubriaco; questa sfiduciata richiesta di indulgenza è per il lettore un dolore non piccolo.

Francois-René de Chateaubriand, Atala, René, a cura di Bruno Nacci, Garzanti
André Breton, Entretiens, a cura di Marie-José Hoyet, Lucarini
Paul Verlaine, Memorie di un vedovo, a cura di Giuseppe Grasso, Lucarini

L'articolo è tratto da “la talpa giovedì”, il supplemento libri del “manifesto”. Il ritaglio onde l'ho ripreso è senza data, ma visto che l'autrice commenta e collega libri pubblicati nel 1989, l'anno dev'essere quello.  

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